Biblioteca Multimediale Marxista
Al terrore del nemico opponiamo il terrore; alle rappresaglie le ritorsioni;
ai rastrellamenti le imboscate; agli arresti i colpi di mano. Abbiamo l'iniziativa;
scegliamo noi il punto da colpire; scompariamo perché siamo pochi. Poi,
è fatale che il "ciclo" inizi la sua parabola discendente.
Cominci ad essere conosciuto; gli uomini del nemico ti ronzano troppo da vicino;
diventi un pericolo per chi ti conosce; devi scomparire, passare in un'altra
zona; ricominciare il lavoro dove sei sconosciuto.
Così, dopo il colpo alla EIAR, avevo dovuto abbandonare Torino. Dopo
la delazione di Aldo, dovevo abbandonare Milano.
Il messaggero del comando me lo comunica nell'unico posto sicuro
di Milano, il caffè della Muti, dove nessuno avrebbe mai pensato di cercarmi;
mi costringe a bere con calma il bicchiere di vino che ha ordinato, mi accompagna
alla porta; mi fa scivolare il nuovo indirizzo in tasca e se ne va lasciandomi
solo.
Parto per Gallarate dopo lo scambio delle consegne con Campegi, che mi avrebbe
sostituito nel comando dei GAP.
La mia nuova attività mi conduce ad organizzare la Resistenza in Valle
Olona; soprattutto a Rho, Lainate, Pantanedo, Nerviano, Pero, Garbagnate, senza
escludere Milano.
"Così, nei ritagli di tempo, avrai qualcosa da fare in città,"
dicono scherzando. Che strano concetto dell'umorismo abbiamo in questi tempi.
Alla stazione di Gallarate la solita folla che parte, che arriva, che attende
m'infonde fiducia. Sembra una difesa questa folla, una protezione. Puntuale,
trovo Gianni, incaricato di condurmi dal commissario della zona militare partigiana
di Valle Olona.
"Come va da queste parti?" "C'è molto da fare; ci vorrà
un po' di tempo." È laconico. Aspetto invano una delle sue solite
battute allegre. Forse la situazione è difficile.
Marco38 mi aspetta all'osteria: un ambiente cordiale, pulito, affollato di metallurgici,
di ferrovieri, di braccianti. Il volto di una spia, in quell'osteria, si noterebbe
subito, come un'uniforme. È un posto eccellente per un incontro, ma non
per discutere a lungo i nostri piani. Ci trasferiamo in un luogo più
tranquillo. Il nostro problema non è semplice.
Dobbiamo costituire una brigata in grado di disturbare seriamente i nazifascisti
della periferia milanese, nella zona a cavallo dell'Olona e lungo le due autostrade
che uniscono Milano e Varese a Como, una vasta "hinterland" industriale,
intersecata da linee ferroviarie e da una rete di importanza vitale per lo schieramento
tedesco in Piemonte e in Lombardia e per le operazioni antipartigiane.
Campagna piatta, rogge, fossati, una miriade di casolari, di cascine, di frazioni,
di paesi e di borgate disseminate lungo le strade che avremmo dovuto rendere
insicure al traffico del nemico. La nostra formazione dovrà essere agilissima,
in grado di colpire e di mettersi al sicuro fulmineamente; l'organizzazione
ramificata, capillare, per colpire il nemico in mille punti, per contrastarne
la capacità repressiva e di rappresaglia. Discutiamo animatamente sino
a mezzanotte. La stanza dove siamo riuniti è immersa in una nube di fumo
che rende irrespirabile l'atmosfera. Quando sciogliamo il convegno, mi addormento
profondamente, dopo tante notti inquiete, nel mio temporaneo rifugio. All'alba
mi svegliano. Il lavoro comincia subito.
Zoni, Belia, Anelli, Sandro, Grassi, Bosetti, sono ragazzi veramente in gamba,
addestrati all'uso delle armi, pistole, mitra, moschetti, ma non in quello degli
esplosivi. Soltanto Grassi sa impiegarli. Abbiamo bombe ad alto potenziale,
una buona scorta, ma le bottiglie Motolov bisogna che le confezioniamo da noi
sul posto. Divento istruttore. Riunisco in un cascinale i sei partigiani: Zoni
è preoccupatissimo della nostra follia di fabbricare bombe come cucinare
frittate; Sandro, calmo, ascolta senza pronunciarsi; Anelli e Belia seguono
le istruzioni con manifesto stupore sul volto di adolescenti; Bosetti, già
rotto ai pericoli della lotta in città, ha l'aria compiacente e saputa
di chi conosce tutto.
Sono venuto all'appuntamento con tre bottiglie piene di benzina. Zoni ha con
sé involti e bottigliette con ingredienti varii. Parlo dell'impiego delle
bottiglie Molotov: dall'incendio di un deposito alla distruzione di una automobile
e dei suoi occupanti; racconto della sua formidabile potenza contro i carri
armati. Quando la bottiglia colpisce la torretta del carro il liquido infuocato
cola tra le fenditure, scende all'interno nell'abitacolo degli inservienti.
Non si può immaginare cosa accada agli uomini all'interno di un carro
armato colpito nel tentativo di uscirne, gli abiti in fiamme! Né, usciti
che siano, quale sorte li attenda, facile bersaglio dei mitra. Se il carro è
molto vicino è possibile lanciarvi all'interno, attraverso il portello
alzato, una granata a mano.
Spio i volti dei sei ragazzi: la loro espressione è quella di fanciulli
ai quali si racconta una storia incredibile.
"Dammi quella bottiglia di benzina," dico a Belia. L'afferro e ne
verso via mezzo bicchiere: ora dentro la bottiglia c'è un poco di spazio
che riempio completamente di acido solforico, liquido pesantissimo che si deposita
sul fondo. Con un tappo chiudo poi la bottiglia e con uno spago lego il tappo
come se fosse uno spumante. Mentre lavoro spio le espressioni dei miei compagni:
Bosetti ha sempre l'aria di chi la sa lunga, Anelli e Belia stanno dietro gli
altri quasi temessero uno scoppio; Zoni e Sandro sono abbastanza tranquilli.
Mi faccio dare da Zoni il pacchetto di clorato di potassa (sono 75 grammi),
poi quello dello zolfo (15 grammi), infine quello dello zucchero in polvere
(10 grammi). Metto le tre polveri sopra un pezzo di carta, con un bastoncino
miscelo il tutto, adagio, e lascio la miscela da una parte; stendo su un'asse
un pezzo di carta da pacchi. Zoni mi porge la bottiglia della gomma arabica.
Stendo la colla con il pennello in abbondanza fino a coprire tutta la carta:
spargo la miscela di zolfo, clorato di potassa e zucchero sopra la carta incollata:
ne afferro i lembi e, come se setacciassi, distribuisco la miscela in modo uniforme.
"Adesso," esclamo, "dobbiamo aspettare che la colla si asciughi."
Trascorriamo un quarto d'ora parlando del lavoro che ci aspetta. Quando la carta
è asciutta e la miscela risulta bene aderita, avvolgo la bottiglia distesa
sulla carta dalla parte dove si trova la polvere; con uno spago lego la bottiglia
incartata, tutt'attorno.
Usciamo per la prova. I ragazzi mi seguono. Scendiamo in un profondo fossato,
dal letto asciutto. Dico loro di cercare dei sassi e di farne un mucchietto.
Li faccio allontanare: i ragazzi si riparano dietro gli alberi. Lancio la bottiglia
da pochi passi contro i sassi; dai cocci si sprigiona una fiammata. Il fuoco
dura pochi minuti, violento, quasi rabbioso, coperto da un fumo denso. Torniamo
alla capanna. I ragazzi sono emozionati e mi chiedono l'origine dell'incendio.
Spiego: l'acido solforico, più pesante della benzina, quando fuoriesce
dalla bottiglia infranta, lambisce la carta preparata con la polvere e la reazione
chimica che ne consegue fa sprizzare la prima fiammella, e la benzina s'incendia.
Qualcosa si è messo in moto. I fascisti e i tedeschi hanno intensificato
i servizi di guardia e le sentinelle, raddoppiano la vigilanza. "Attenzione
ai partigiani," è la parola d'ordine del nemico, nella zona in cui
avverte il pericolo invisibile. Tuttavia il comando partigiano ritiene la situazione
non del tutto soddisfacente. Le riunioni indette per determinare gli obiettivi
locali della lotta partigiana hanno incoraggiato molti giovani ad affluire nelle
nostre formazioni, ma i risultati non corrispondono alle previsioni. Ho anch'io
l'impressione che gli ostacoli non derivino da immaturità, impreparazione
e imperizia, ma da opposte influenze alle nostre direttive.
*
L'ipotesi è fondata e spiega le diversioni, le reticenze
e le obiezioni sollevate alle proposte di azioni immediate. Ne ho conferma dopo
la visita al Conte dal quale mi reco per ottenere le armi che, si dice, detenga.
La ricerca del Conte non è agevole. Tutti lo conoscono; tutti ne parlano,
ma è impossibile avvicinarlo. Sembra d'inseguire un fantasma evanescente.
Alla fine mi viene riferito che il Conte mi incontrerà nel luogo e nell'ora
che mi saranno tempestivamente comunicati.
Si giunge ai primi di ottobre. Più che autunno sembra inverno. Il paese
è cupo, triste di pioggia. Percorro interminabili itinerari in bicicletta
su stradicciole e sentieri di campagna, prima di raggiungere una delle mie basi,
ad evitare ogni possibile sorpresa e vi rimango sino a poche ore dall'appuntamento.
Devo recarmi in una casa di via Circonvallazione a Nerviano. Non molto pratico
della zona mi muovo con un certo anticipo per rintracciare la via. Attendo con
calma l'ora dell'incontro, non senza riflettere alla singolare procedura. Dell'appuntamento
"segreto" sono a conoscenza almeno quattro o cinque persone che sono
servite da tramite. Anche il più ingenuo dei patrioti avrebbe materia
di diffidenza, ma ormai sono in ballo e non mi resta che la rivoltella per proteggermi.
Mi avvicino al portone della casa dove risiedono le sorelle Crespi: una vecchia
casa gentilizia, trascurata all'esterno. Suono, il campanello tintinna a lungo.
Mi viene aperto con prontezza. Entro nell'atrio confortevole, illuminato da
una fievole luce che mi accompagna fino a quando rimane aperta la porta d'ingresso;
poi tutto viene avvolto da una fitta penombra. Le tende sono abbassate, le imposte
socchiuse, le pesanti cortine respingono il mondo esterno: in quella casa, in
quel momento, regna l'atmosfera delle canoniche. Le padrone di casa si muovono
come ombre, mormorano un "attenda un momento, per cortesia," come
sacerdotesse in un rito.
Sono le sorelle Crespi, due signore estremamente cortesi e distinte che conferiscono
una prospettiva nuova alla mia esperienza clandestina ma che mi suggeriscono
con raccapriccio l'immagine di quanto accadrebbe se, dopo tante paradossali
precauzioni, i fascisti irrompessero spalancando le imposte semichiuse.
Non vedo entrare il Conte, me lo trovo davanti all'improvviso. L'uomo, pallido
e magro, porta un lungo mantello che gli giunge quasi ai piedi. Un impeto di
rabbia mi coglie; mentre io cerco di procurarmi nel modo più rapido le
armi per la brigata garibaldina d'assalto, devo perdere settimane per incontrare
in quella casa, al buio, un uomo dal lungo tabarro di carbonaro ottocentesco.
Sono sulle spine ma devo accettare il suo invito a sedermi; ho fretta di concludere
la trattativa, ma devo subire un interrogatorio. Perdo tuttavia la calma quando
mi sento chiedere: "Lei è un ufficiale? Che grado ha?"
Mi alzo di scatto, rosso dall'ira. Ci mancava solo che mi chiedesse se avevo
l'attendente e se ero contento della sistemazione. Dunque, tutto quello che
è accaduto in Italia e nel mondo, lo sfacelo dell'8 settembre, la riscossa
partigiana, non hanno minimamente scalfito in quell'uomo la concezione dell'esistenza
secondo gerarchie fisse ed immutabili. Non eravamo fatti per intenderci. Chiedo
le armi per i miei partigiani e ricevo soltanto una risposta evasiva. Il Conte
diffida di me ed io di lui. Ma non guadagnerei nulla a interrompere il colloquio.
Propongo un successivo incontro per concordare un'azione comune, per arrivare
indirettamente al piccolo arsenale che il Conte custodisce chissà dove.
Sulla strada da Pero a Nerviano c'è una casa tranquilla.
La strada, affollata di operai o percorsa per lunghe ore da automezzi militari
armati di mitraglie e di cannoncini aerei, è deserta. Il silenzio è
interrotto da qualche sparo in lontananza, una fucilata o una raffica e dal
consueto sferragliare sui binari — regolare come il sorgere del sole e
il cadere della notte — del trenino per Milano. Durante l'allarme aereo,
il trenino si ferma, i passeggeri guadagnano í cespugli in aperta campagna
o s'appiattiscono nei fossati, se ce ne sono. Quando la sosta forzata avviene
in prossimità d'un paese, chi s'avvia a piedi alla propria casa, chi
s'affaccenda a procurarsi panini e qualche bottiglia di vino per ingannare l'attesa.
Ai ritardi del trenino si fa l'abitudine. A metà tragitto c'è
una fermata davanti a una cabina elettrica, uno dei pochi impianti rimasti indenni:
l'energia elettrica ad alta tensione ne fa vibrare giorno e notte i muri, musica
incomprensibile d'un organo gigantesco. Il rumore magico dell'elettricità
dà una sensazione di efficienza che sembra superiore alle vicende della
guerra.
Il custode, addetto alla manutenzione della cabina, assolve anche la funzione
di capostazione. Abita accanto alla cabina elettrica di fronte alla fermata
dalla quale lo separa un ponticello sulla roggia Bozzente. La vita è
grama per tutti, anche per la famiglia Jana coi suoi tre bambini e, come uniche
risorse, il modesto salario del marito e i frutti del povero orticello. Un piccolo
aiuto alla famiglia Jana è però sopraggiunto, inaspettatamente,
quando un uomo giovane, dal volto marcato e l'espressione tesa, ha chiesto alloggio.
Gli Jana lo hanno aiutato e ospitato in una delle loro stanze. Il giovane, certo
Nicola,39 si è presentato come rappresentante di calze da donna. Gli
occorreva un letto per dormire, ma il suo lavoro non gli avrebbe consentito
di venire tutte le sere.
"Sono tempi difficili," aveva detto il rappresentante di calze, "e
non bisogna perdere la clientela se si vuol guadagnare qualcosa."
L'ospite rimane assente per giorni e giorni ma quando giunge sembra davvero
stanco.
Dorme a lungo e si riposa al tavolino, scrivendo note sui quaderni. È
evidentemente un uomo meticoloso che tiene in ordine i suoi registri.
La zona non è più tranquilla come un tempo. La notte è
percorsa da strani bagliori e le pattuglie tedesche e fasciste sopraggiungono
all'improvviso su veicoli d'ogni genere e si sparpagliano lungo i sentieri di
campagna per lunghe ore.
Che i ribelli sono nella zona ormai si sa. Sembrano vicini e lontani a un tempo.
C'è chi tenta di capire se le ombre che passano silenziose la sera, siano
quelle dei fantomatici partigiani oppure di gente che va all'osteria.
Una notte il paese viene svegliato di soprassalto da un fragore improvviso:
rumore di vetri infranti, scoppi e bagliori, un lungo silenzio, raffiche di
fucili mitragliatori, razzi verdi e rossi che punteggiano la campagna e furibondo
latrare di cani. Il signor Jana immagina quello che deve essere accaduto. Un
attentato ad un camion o un sabotaggio alla linea ferroviaria e si gode lo spettacolo
tranquillamente da una fessura della finestra di casa. Il signor Nicola invece
deve dormire saporitamente poiché gli scoppi non l'hanno svegliato. Il
mattino dopo il capostazione è così allegro che la moglie lo consiglia
di controllarsi, soprattutto con il forestiero.
Alle dieci del mattino questi non mostra ancora alcuna intenzione di aprire
le imposte. "Vita dura anche la sua," concludono gli Jana. Più
tardi le imposte si aprono e il rappresentante, metodico e preciso come sempre,
rimane al tavolino a mettere in ordine i conti. La notizia degli scoppi nella
notte gliela dà la donna. Il rappresentante ascolta incuriosito le informazioni,
ma sembra che la cosa non lo interessi gran che, preso com'è dai suoi
affari.
"Beato lui," conclude la donna. Fa un'unica domanda. Chiede se è
possibile andare a Milano in treno. Da quello che si sa, i binari sono stati
fatti saltare vicino al cimitero di Mazzo e i treni non possono transitare.
Il rappresentante deve rassegnarsi a inforcare la bicicletta per recarsi in
città.
Nel pomeriggio le ripercussioni dell'attentato notturno si manifestano in tutta
la loro gravità. Camion carichi di tedeschi, autoblinde, militi repubblichini,
sfilano continuamente nella zona e si accampano in alcune ville requisite. Pattuglioni,
con passo pesante e tintinnio cupo di armi, percorrono il paese. Tedeschi e
fascisti circondano gruppi di giovanotti che, sorpresi al lavoro nei campi,
sono stati portati via; alcuni calzano ancora gli zoccoli, altri sono scalzi,
uno porta con sé, forse per inconscio ottimismo, un rastrello con qualche
filo d'erba impigliata tra i rebbi; Repubblichini e tedeschi entrano nelle case,
guardano ogni angolo, aprono armadi e scrutano sotto i letti senza troppa convinzione,
entrano anche nella casetta bassa e dipinta di rosa dove abita il custode della
cabina elettrica, titolare della fermata tranviaria. Non trovano nulla di sospetto.
Un fascista piccolo e magro con un paio di occhi sospettosi dà un'occhiata
sotto il ponticello dove scorrono acque maleodoranti.
"Quando puzza sta per cambiare il tempo," dice una donna quasi a scusare
la roggia per i suoi periodici miasmi.
L'unico a trovare qualcosa è uno dei bambini degli Jana.
Ha imparato da poco a leggere e va esercitandosi in tutte le occasioni. Così,
quando trova un foglietto mezzo strappato nella camera del rappresentante di
calze, si dà con impegno a decifrare le note. Ricorre alla collaborazione
di un amico della sua età, ma il risultato è ancora negativo.
Allora chiede aiuto al padre. Il signor Jana inforca gli occhiali, legge, impallidisce.
"Niente," dice, "sciocchezze," e, dopo aver riflettuto,
getta la carta nella stufa assicurandosi che bruci completamente. Ma il rappresentante
lo saprà solo molti anni dopo.
Scompare così un foglio di diario dei distaccamenti di Nerviano, Lainate,
Garbagnate ecc. in cui erano annotate le azioni compiute dal 25 settembre al
15 ottobre: due sabotaggi alla ferrovia e tre all'autostrada Milano-Varese,
distruzione di due piloni ad alta tensione, uccisione della spia Fusoni, assalto
all'autoparco di Rho; tre attentati a spie e funzionari repubblichini e via
dicendo.
C'è parecchio movimento a Rho, sebbene in questo periodo
la vita sembri svolgersi al rallentatore. I commercianti vendono poco, la gente
spende cautamente e compra solo il necessario. Anche i cinema sono deserti.
Tutti preferiscono rincasare presto la sera. Tutto sembra andare a rilento;
persino il prevosto di una parrocchia locale lamenta lo scarso numero di matrimoni
e di battesimi.
In una delle osterie vicino alla piazza del Duomo, si ritrovano spesso molti
giovani, ragazzi che lavorano a Milano, studenti: giocano qualche partita a
carte e bevono aranciate anche d'inverno.
"Affari magri," brontola il padrone dell'osteria. Tuttavia quei ragazzi,
in qualche modo gli tengono compagnia; gli ricordano i figli, tutti e due prigionieri
chissà dove; ama la risata, le grida che accompagnano le partite. Al
crepuscolo, il locale male illuminato e reso ancora più tetro dalle disposizioni
sull'oscuramento, diventa silenzioso, le stecche del biliardo vengono abbandonate
sul tavolo fra le bottigliette vuote dell'aranciata. Il padrone prima di mettere
in ordine le sedie sparpagliate, segna le consumazioni degli avventori che non
hanno saldato il conto. Una sera d'ottobre la porta si spalanca all'improvviso;
uno dei ragazzi che frequentano il locale si avvicina quasi di corsa al banco
e chiede un bicchierino di liquore. E agitato. Qualcuno lo saluta. Non risponde.
La porta si apre nuovamente e fanno il loro ingresso cinque repubblichini.40
Il bicchierino che tiene in mano il ragazzo si rovescia sul banco. Li segue
rassegnato. Il locale si sfolla più rapidamente del solito. Per le strade
circolano camionette dalle quali sporgono canne di fucili mitragliatori. "C'è
molto movimento di neri" dicono i passanti affrettando il passo. Il movimento
finisce poco dopo mezzanotte.
La segretaria del fascio è seduta al tavolo; il capomanipolo Remo passeggia
nervosamente. "Eccoli qui i nostri bravi. Adesso, vero? faremo un po' di
conti fra di noi. Dovrete avere pazienza perché ci sono molte cose da
discutere." Un ceffo in piedi vicino alla porta del comando accenna una
risata, ma lo sguardo del capo lo gela. L'interrogatorio procede con ordine.
Il capomanipolo è del posto e più o meno sa come comportarsi.
I ragazzi sono in piedi, appoggiati ad una parete. Da un'ora. Quello che hanno
arrestato nel bar era riuscito a fuggire, per poco, dalla casa dell'amico dove
i repubblichini hanno compiuto il primo arresto. Qualcuno deve aver segnalato
la sua fuga. "E poi le vostre mamme strillano con noi quando vi pizzichiamo,"
riprende il capomanipolo, "già, siamo noi i cattivi, i feroci. Voi
invece, siete innocenti, naturalmente... Naturalmente non sapete nulla di quanto
sta accadendo."
Si avvicina ai ragazzi. Il primo è un biondino lentigginoso, con gli
occhiali, un timido si sarebbe detto. "Tuo papà che mestiere fa?"
Lo sguardo è quasi paterno. "Il tuo papà che cosa fa?"
come fra amici. Il ragazzo esita un attimo: "È conduttore, macchinista
delle ferrovie." "E ti fa studiare?" "Si, faccio l'avviamento
industriale e vorrei diventare perito elettrotecnico."
Il capomanipolo ha l'impressione che il discorso sia avviato sul tono giusto.
"E tu sei dei nostri, voglio dire, sei di Rho? " È, quello
accanto al biondino, un ragazzo sui vent'anni, piuttosto bruno. A prima vista
si direbbe meridionale. "Si, sono di qui, come i miei." "Dove
stai di casa?" È una domanda quasi premurosa, di chi si informa
se uno abita lontano dalla caserma e debba percorrere troppa strada per arrivarci.
"Abito sulla strada per Legnano..." "In quelle casette nuove
sulla destra? Ma sono comode? Dicono che sono un po' umide..." Il ragazzo
lo sorprende con una risposta fredda. "No, sono comode." Forse questo
è il più duro della combriccola. Prova con gli altri tre le stesse
domande. All'ultimo a destra, riesce a chiedere se gli piace il calcio e per
quale squadra fa il tifo. "Quella di Rho, naturalmente"; risponde
il giovane. Ha un volto pallido, è un tipo emotivo, ma c'è qualcosa
in lui che il capomanipolo crede di aver riconosciuto altre volte, in uomini
più anziani.
"Bene, adesso dovremo fare una chiacchieratina confidenziale, uno alla
volta. Tu resta qui," dice al primo, al ragazzo con gli occhiali, "e
voi aspettateci." Deve interrogarli separatamente, individuare tra loro
l'anello più debole. Quattro escono e il ragazzo con gli occhiali viene
fatto sedere davanti al tavolo dove il capomanipolo s'è seduto. Dietro
al ragazzo si sono accostati due militi. La porta si richiude.
*
"Ne hanno arrestati cinque." La notizia mi giunge nella base della
cascina Ghiringhella. La porta una nostra staffetta, trafelata. Mi dice i nomi
di battaglia. Il più vecchio ha vent'anni. Li interrogheranno senza dar
loro respiro. Sono le loro prime prede dopo decine e decine di azioni che hanno
compiuto. "Credi che parleranno?" Che cosa posso rispondere a una
domanda del genere? Sono coraggiosi, combattivi.
Molto dipende da quello che il nemico è riuscito a sapere. Come è
riuscito a raggiungerli di sorpresa? "Il fatto che i ragazzi non parleranno,"
dico, "non deve farci trascurare le precauzioni. Credete che se io fossi
catturato, parlerei e darei i vostri nomi al nemico?" Siamo una decina
in quella stanzetta della cascina. Mi risponde un no corale. "Ebbene, io
vi dico sin d'ora che se dovessi venir catturato, voi dovreste ugualmente lasciare
le vostre case e mettervi al sicuro. E così dovete fare anche ora."
Da Rho i cinque ragazzi arrestati, vengono trasferiti nella caserma Resega di
Legnano. Il capomanipolo ha fallito gli interrogatori separati. "Dov'è
Visone? Chi sono i complici?" La risposta è invariabilmente: "Non
so niente." Anche la tecnica del "saltafosso" è fallita.
"Il tuo amico ha parlato e lo abbiamo messo in libertà: tu cosa
vuoi fare?" La segretaria del fascio è furibonda. Quegli sbarbatelli
sanno tutto (la delazione ricevuta è stata precisa, il materiale compromettente)
ma negano ostinatamente. Il comando di Legnano tempesta di telefonate quello
di Rho. Il comando tedesco pretende dai repubblichini un risultato rapido e
una punizione esemplare. Quei ragazzi "sanno," se parlano almeno altri
venti partigiani finiranno in mano al nemico. Ma non parlano.
Vengono inviati a Legnano insieme; "sanno" che ormai li attende qualcosa
di terribile. Rinchiusi in cella si guardano negli occhi. "Ti hanno picchiato?"
"Qualche schiaffo e un paio di pugni." "Il peggio verrà
adesso."
Noi, fuori, facciamo piani per liberarli, ma non siamo in grado di attaccare
la caserma Resega con successo e a Rho non siamo giunti in tempo. Abbiamo un
informatore. I ragazzi non parlano, ma le torture sono atroci. Quei cinque hanno
partecipato alle nostre azioni, portandosi la merenda da casa, temendo di ritornare
tardi e di suscitare i rimproveri materni. Ora, ogni notte, ustionano loro i
piedi, li stendono su cassette militari, ritta la testa, ritte le gambe, il
tronco appoggiato alle sporgenze metalliche. Li costringono a bere litri di
acqua gelata o fetida. È una settimana atroce. Poi una sera vengono di
nuovo riuniti nella stessa cella. "Riposatevi per qualche ora," dicono
le belve. Si preparano a finirli. È il ragazzo che era stato interrogato
per ultimo, il tifoso del Rho, ad avvertire gli altri. "Ragazzi, qui ci
fanno fuori." Quello che avrebbe dovuto diventare perito elettrotecnico
ha un'idea. "Lasciamo detto qualcosa ai nostri genitori." Con una
scheggia di granito, poco piú di un sassolino, scalfiscono un saluto
sulla parete.
"Caro Bruno," scrive l'ultimo, "tuo fratello ti lascia ma non
ha paura. Vado a raggiungere la mamma." Poi si siedono sulle brande della
cella.
Tre camion si muovono nel cortile della caserma, imboccano
l'uscita. Il rumore pesante dei veicoli echeggia nelle strette vie della cittadina.
È notte. Piove dirottamente. Gli automezzi percorrono velocemente la
strada asfaltata e si arrestano soltanto sulla riva del Naviglio.
I cinque ragazzi sono ammanettati sul camion di mezzo; li fanno scendere. Uno,
a piedi nudi, tenta di camminare, cade in ginocchio, gli altri vengono sollevati
quasi di peso, gementi per le ustioni ai piedi, trascinati e sospinti. Davanti
a loro c'è il plotone schierato con le armi puntate. La pioggia scrosciando
rabbiosamente li fa rabbrividire, i fari puntati addosso li stordiscono. "Siamo
a Turbigo," dice uno di loro. "Plotone, punt'arm." Il vento e
l'acqua scompigliano i capelli dei cinque ragazzi. Remo, comandante del plotone
d'esecuzione non nasconde il suo nervosismo e invita a far presto. Forse qualcuno
li avrebbe visti, o forse il fiume li avrebbe trascinati lontano e nessuno avrebbe
più saputo nulla di loro. Avevano pensato a tutto, i fascisti.
La scarica li coglie in pieno. Cinque piccole macchie scure rotolano nel fossato.
I carnefici prendono le salme e le gettano nelle acque. La corrente li spinge
subito lontano, li separa, li sommerge, li inghiottisce. Mentre il plotone fascista
risale sugli automezzi già in moto, uno dei cinque, il tifoso di calcio,
sente uno schiaffo gelido e apre gli occhi. Riesce a emergere con il capo. Sente
d'essere ferito ma gli resta ancora un po' di forza. Cerca di dibattersi, di
liberare le mani dai legacci. La fortuna lo assiste. Mentre scuote le gambe
e le spalle tentando disperatamente di mantenersi a galla, il suo corpo si impiglia
in un arbusto sporgente. La corrente lo fa roteare e si sente spingere contro
qualcosa di solido, la sponda. I piedi toccano il fondo. Resistendo alla pressione
della corrente dirige colle ultime forze i piedi verso la riva. Emerge dall'acqua
senza poter stare ritto. Scivola sulla terra. Ce l'ha fatta. E fuori dall'acqua
fino al ginocchio quando sviene. La corrente gli sbatte le gambe. Quando torna
in sé deve aver perso molto sangue. Riesce a slegarsi; a trarre dall'acqua
le gambe rigide. Si guarda intorno: dietro c'è il fosso dove hanno fucilato
lui e gli altri; scorge il fumo di un camino. Forse è una cascina. L'unica
sua speranza di salvezza sta là. Si trascina verso la grande cascina.
Quando rinviene per la seconda volta, volti ignoti sono chini su di lui. I contadini
che l'hanno ospitato e curato.41
Nella notte l'umidità è intensa, l'erba fradicia come se la pioggia
fosse caduta a catinelle, ma il cielo è luminoso e le stelle sembrano
non aver mai irradiato tanta luce come ora sulla piccola colonna in fila indiana.
Le cose sono andate bene; meglio del previsto. Gli scoppi delle cariche posate
sui binari si susseguono come un bombardamento aereo. Più di qualche
vetro deve essere andato in frantumi e molti sonni devono esser stati interrotti.
Se il rappresentante di calze si azzardasse ad aprire, sia pure con cautela
la porticina dell'abitazione, tutti lo noterebbero. Sarebbe come dire: "Egregi
signori, sono un partigiano, non dovete stupirvi se arrivo un po' tardi stanotte.
D'altra parte voi stessi avete sentito e visto che abbiamo organizzato un eccellente
spettacolo pirotecnico."
Nicola trae di tasca la chiave che ha conservato a lungo in un taschino, con
la massima cura. "Una volta o l'altra mi servirà" s'era detto
fra sé. Gli capitava sempre più spesso di parlare da solo e restare
da solo per lungo tempo. La chiave è quella della cabina elettrica. Ha
fatto fare la copia di almeno altre tre chiavi prima di rintracciare quella
che cercava, e aveva dovuto provarla con circospezione, per esserne certo.
Lontano dalle pattuglie tedesche che perlustrano con l'ausilio dei cani e di
grandi lampade la campagna, c'è solo questa isola di pace. Gli altri
ragazzi devono essere già al sicuro nei casolari o nel rifugio sotterraneo.
Ora tocca al rappresentante di calze Nicola mettersi in salvo senza scoprirsi
di fronte ai suoi ospiti.
Apre la porta e la richiude con sollievo dietro di sé. L'esile barriera
di metallo lo rende invisibile, mentre all'interno una lampada fioca gli evita
di farsi arrostire dai fili dell'alta tensione. Comunque le cose sono state
fatte con ordine e con criterio: i trasformatori più potenti sono stati
rinserrati in celle chiuse. Sembra già una prigione, ma in quel momento
lui ne vede solo i lati positivi: una cella per ogni trasformatore, una cella
anche per gli attrezzi. Nicola ne apre la porta, distende a terra gli stracci
che può trovare e, avvoltolando un ultimo cencio attorno ad una scopa,
ne ricava un cuscino. Si rannicchia su un fianco, per tentare di dormire.
Il pavimento è freddo e cosparso di olio. Olio o macchie di olio sulle
pareti, nelle celle, nei barili, nei trasformatori. C'è, se ne rende
conto, un rumore infernale: la tensione della corrente fa vibrare al massimo
i fili di rame. È un concerto di migliaia e migliaia di volt, senza mai
una pausa, come il rumore dell'eternità, ossessionante e perfetto. Beninteso
se l'eternità avesse un suono. Di colpo la monotonia è interrotta
dal fragore improvviso di una colonna di camion, o forse di carri armati, sulla
strada e in lontananza raffiche di mitragliera. Simonini pensa ai suoi ragazzi,
ormai al sicuro; stringe il bavero della giacca attorno al collo. Anche lui
è al sicuro. Chi lo cercherebbe mai in un trasformatore? Il sonno lo
coglie subito.
Il mattino si sveglia con un forte mal di testa. Sono le sette, ma non può
starsene nascosto in quell'angolo, per non essere scoperto dai padroni di casa.
La porta degli Jana è già aperta. La signora sta già facendo
pulizie in casa. Nicola non ha difficoltà ad escogitare un pretesto per
il suo rientro mattutino: "Dovrei fare il mio giro oggi, ma non mi sento
bene. È meglio che mi metta a letto."
"Non faccia complimenti, lei è di casa ormai." Il rappresentante
di calze si dirige verso la sua stanza e non si stupisce del fatto che il signor
Jana, incontrandolo, nonostante sia uomo riservato e timido, gli stringa la
mano. Il mal di testa deve essere tanto evidente da indurre alla compassione.
"Meno male che non sospetta di nulla." Va a distendersi finalmente
su un letto vero, prendendo sonno ancora una volta. È stata una notte
faticosa.
38Feletti Bruno (Marco) ispettore del Comando regionale delle Brigate Garibaldi.
39 Nicola Salvatore era il nome che aveva comunicato alla famiglia.
40 I partigiani arrestati e fucilati a Turbigo il 13 ottobre 1944 sono: Pasquale
Perfetti, Luigi Zucca, Alvaro Negri, Alfonso Comminello. Solo Cesare Belloni
si salvò.
41 Gli sgherri che spararono sono: Remo Sandoni, detto Giasat, Rinaldi, Antonio,
Guerino Roco Battista padre e figlio Titti Carminati, Ferrario Enrico detto
Manuel, Giovanni Romuno, Vittorio Montorsi Crocci, Savona.