Biblioteca Multimediale Marxista


Capitolo decimo
Spie, carnefici a giustizieri



Conti, all'ultimo momento non ha sparato.
La spia era salita, ignara e tranquilla sul tram, diretta al suo ufficio da dove erano già partite settanta denunce contro i patrioti, seguite da altrettanti arresti. Ora l'ha fatta franca e può continuare a nuocerci.
Per tre volte mi sono recato sul teatro dell'azione e altrettante ne ho discusso con Conti, Giuseppe e Antonio; la strada l'abbiamo percorsa di giorno e di notte, confusi tra la folla e protetti dalle ombre; le vetrine dei negozi ci sono familiari, come i portoni, i tombini, le lampade azzurrate, le auto, le biciclette e, naturalmente e soprattutto, il tipo di folla, operai, massaie e carabinieri.
La spia, uscendo di casa alle sette e mezzo del mattino, ha percorso un centinaio di passi; Sandra che l'ha visto in volto, lo ha segnalato a Conti. Ma Conti, all'ultimo momento, non ha sparato.
Gli altri due gappisti che hanno partecipato con Sandra all'azione, sono rientrati alle loro basi, perplessi e furenti. La sera ci ritroviamo tutti in un'osteria a Niguarda, un locale appartato, protetto dalle insidie e dalle sorprese. Conti non è l'ultimo venuto: anziano, espertissimo, gode di molto ascendente, ha diritto di giustificarsi, ma anche i gappisti che affrontano un nemico tanto più forte e agguerrito hanno diritto a una spiegazione.
È una discussione lunga, confusa e penosa. I ragazzi vogliono dei fatti e non c'è alcun fatto. È successo a me, è successo a tanti altri: al momento di premere il dito sul grilletto, si resta come paralizzati, incapaci di fare il minimo gesto, di prendere una decisione. È paura? Sí, e tante altre cose insieme. Noi vogliamo che un gappista sia più che un uomo, ma anche lui è soltanto un uomo, con la sua tensione, i suoi crolli.
Come può spiegare queste cose Conti che neppure le sa, che è furibondo contro se stesso per aver fallito e contro gli altri che lo rimproverano? Per una volta tanto devo fare da paciere tra i miei, calmare gli amici, ridare a Conti la possibilità di rifarsi.
Ripeteremo l'azione domani e Conti ne sarà di nuovo il protagonista.

Giunto in piazza del Duomo scendo dal tram. Alle sette ho l'appuntamento sotto i portici della Scala con Sandra. Sandra è puntuale. Ci incamminiamo: in piazza Cavour, incontriamo tre militi con mitra a tracolla, in piazzale Fiume i passi cadenzati di una pattuglia tedesca che si avvia al comando ci fanno sussultare; in viale Tunisia ci sfrecciano davanti autocarri zeppi di soldati.
Sempre a braccetto camminiamo lentamente come due innamorati che hanno tante cose da dirsi.
All'altezza di Via S. Gregorio ci imbattiamo ancora in due soldati. L'appuntamento è alla fermata del tram all'angolo della stessa via con Corso Buenos Aires dove i due gappisti ci aspettano controllando la casa del gerarca. Un carabiniere è in attesa, ma se ne va col primo tram. Conti, vestito da operaio, con la sua brava "schiscetta," appoggia la bicicletta al muro, si china, afferra la pompa come per gonfiare una gomma. Sandra gli si avvicina. Tutti e due guardano in una vetrina ciò che avviene alle loro spalle. È Sandra che vede la spia uscire dalla porta di casa.
"Calma," mormora, "ci siamo." Il fascista fa alcuni passi in strada, si guarda attorno come per controllare se non ci sono pericoli. Poi, più rapidamente, si dirige verso il tram. Conti si gira, seguito dagli altri due gappisti, e scarica la pistola senza esitare. Il fascista si abbatte con un grido rauco.
La gente fugge da tutte le parti rifugiandosi sotto i portoni. Alcune macchine si fermano. I gappisti inforcano le biciclette e si dirigono pedalando verso piazzale Loreto. Tutto sembra finito e ho già passato la pistola a Sandra che l'infila nella borsa e s'allontana per conto proprio, quando una pattuglia di militi in bicicletta spunta da una via laterale e si getta all'inseguimento dei gappisti sparando all'impazzata. E questo l'errore che commettono sempre í fascisti: hanno paura e la nascondono sparando. I nostri non perdono la testa. Si buttano a destra verso via Morgagni, balzano a terra e prendono d'infilata la pattuglia che a testa bassa li insegue. Due fascisti cadono; gli altri due scappano.
La via è libera. A sera ci ritroviamo alla base. Una stretta di mano a Conti e la pace torna anche in casa nostra.


Esco di casa; è una di quelle giornate inesorabili d'agosto, cariche d'elettricità e grevi d'afa. Non devo farmi notare, non devo imbattermi in nessuno che mi abbia visto anche soltanto occasionalmente. Ognuno di noi, nonostante ogni precauzione, non può evitare di lasciare qualche traccia di sé. La portinaia di uno stabile dove è stato abbattuto un gerarca fascista potrebbe riferire qualche particolare alla polizia, anche se l'emozione impedirebbe di "fotografare" i nostri volti; ma tanti particolari compongono un ritratto. Il gappista è un combattente anonimo. Vive tappato in casa; trascorre, solo, lunghe ore, giorni, settimane. Sente aleggiare intorno la paura e ne scopre i mille volti; è sempre all'erta, sempre teso. Repubblichini e fascisti ignorano il momento e il luogo delle nostre azioni, ma ne temono la frequenza. Le sentinelle denunciano i segni della tensione. Gli uomini di Mussolini e di Kesserling in preda al nervosismo diventano sospettosi verso chi indugia nei pressi delle caserme dove si intensificano i turni di guardia. La tensione del nemico diventa spasmodica. Ma dopo un'azione le parti si rovesciano, siamo noi ad essere sopraffatti dal nervosismo. La tensione ti coglie anche se hai una lunga esperienza di attività clandestina e non hai dimenticato nessuna delle precauzioni necessarie a restare vivo. Non importa che tu abbia chiuso le imposte come se fossi assente; che tu non le apra all'improvviso, senza esserti fatto prima notare sulle scale dagli inquilini dello stabile. Sei inquieto, c'è troppa gente che, pur non essendo nemica è sempre in sospetto. Un gappista con un minimo d'esperienza e di possibilità di scelta, elegge la base in territorio "amico." Ma c'è sempre qualcuno che ha paura, che può essere indotto a parlare. Tu sei attento, nessun particolare ti sfugge; la sera esamini criticamente il tuo comportamento da inquilino alla ricerca di errori o di omissioni. Non ti puoi sottrarre all'isolamento, non ti puoi confidare, non puoi parlare, non puoi ascoltare.


Queste idee mi ronzano in testa la mattina del 10 agosto durante la mia sortita quotidiana. Ho sete almeno di notizie ufficiali, in assenza di quelle saltuarie fornitemi dalle staffette del comando. L'ombra degli alberi che proteggono Viale Romagna dal sole mi conduce all'edicola. Ho fra le mani un giornale e sotto gli occhi il comunicato della fucilazione di Piazzale Loreto.
Quindici ostaggi uccisi.26 Scorrendo febbrilmente l'elenco trovo il nome di Temolo, il capo della cellula della Pirelli, uno dei piú coraggiosi, dei piú bravi. Anche lui c'è cascato.
Da viale Romagna si raggiunge Piazzale Loreto lungo un rettilineo fino in via Porpora e si svolta a sinistra. Dappertutto cordoni di repubblichini: militi dietro militi, sempre piú fitti, sempre piú lugubri. In Piazzale Loreto una folla sconvolta e sbigottita. Si respira ancora l'odore acre della polvere da sparo. I corpi massacrati sono quasi irriconoscibili. I briganti neri, pallidi, nervosi, torturano il fucile mitragliatore ancora caldo, parlano ad alta voce, eccitatissimi per aver sparato l'intero caricatore.
Sbarbatelli feroci, vicino a delinquenti della vecchia guardia avvezzi al sangue ed ai massacri, ostentano un atteggiamento di sfida, volgendo le spalle alle vittime, il ceffo alla folla. Ad un tratto irrompe un plotone di repubblichini, facendosi largo a spinte, a colpi di calcio di fucile e andando a schierarsi vicino ai caduti.
"Via via, circolate," urlano. Spontaneamente il popolo è accorso verso i suoi morti. Ora la folla, ricacciata, viene premuta fra i cordoni dei tedeschi e dei fascisti. Urla di donne, fischi, imprecazioni.
"La pagheranno!"
I repubblichini, impauriti, puntano i mitra sulla folla.
Dall'angolo della piazza scorgo lo schieramento fascista accanto ai nostri morti. Potrei sparare agevolmente se i fascisti aprissero il fuoco. In quel momento, fendendo la calca, si fa largo una donna: avanza tranquilla, tenendo alto un mazzo di fiori; raggiunge le prime file, vicino al cordone dei repubblichini, come se non vedesse le facce livide e sbigottite degli assassini; percorre adagio gli ultimi passi. Scorgo da lontano quella scena incredibile, un volto mite incorniciato da capelli bianchi, un mazzo di fiori che sfila davanti alle canne agitate dei fucili mitragliatori. I fascisti rimangono annichiliti da quella sfida inerme, dall'improvviso silenzio della folla. La donna si china, depone i fiori, poi si lascia inghiottire dalla folla. Comincia così un corteo muto, nato come da un improvviso accordo senza parole.
Altre donne giungono con altri fiori passando davanti ai militi per deporli vicino ai caduti. Chi ha le mani vuote si ferma un attimo vicino alle salme martoriate. Per ogni mazzo di fiori ci sono cento persone che sostano riverenti.
Si odono distintamente i rumori attutiti dei passi e si colgono i timbri alti delle voci. Accanto a me uno bisbiglia: "vede quello lì sulla sinistra? Tentava di scappare. Appena era sceso dal camion si era diretto di corsa verso una via laterale. Credevamo che ce l'avrebbe fatta. Era già lontano. L'hanno riportato indietro che zoppicava, ferito ad una gamba. L'hanno spinto accanto agli altri, già schierati, in attesa."
L'ultimo volto che vedo, abbandonando la piazza, è quello di un repubblichino, che ride istericamente. Quel riso indica l'infinita distanza che ci separa. Siamo gente di un pianeta diverso. Anche noi combattiamo una dura lotta, in cui si dà e si riceve la morte. Ma ne sentiamo tutto l'umano dolore, l'angosciosa necessità. In noi non è, non ci può essere nulla di simile a quello sguardo, a quella irrisione di fronte alla morte.
Loro ridono. Hanno appena ucciso 15 uomini e si sentono allegri. Contro quel riso osceno noi combattiamo. Esso taglia nettamente il mondo: da un lato la barbarie, dall'altro la civiltà. I cordoni di repubblichini sono sempre fitti. Ad ogni passaggio, ad ogni posto di blocco, mi imbatto nella loro insolenza, nella loro spavalda vigliaccheria: mitra ostentati, bombe a mano al cinturone, facce feroci, lugubri camicie nere.
Ancora una volta, come in Spagna di fronte alla spietata ferocia degli ufficialetti nazisti, si rivelano i due mondi in antitesi, i due modi opposti di concepire la vita.
Noi abbiamo scelto di vivere liberi, gli altri di uccidere, di opprimere, costringendoci a nostra volta ad accettare la guerra, a sparare e ad uccidere. Siamo costretti a combattere senza uniforme, a nasconderci, a colpire di sorpresa. Preferiremmo combattere con le nostre bandiere spiegate, felici di conoscere il vero nome del compagno che sta al nostro fianco. La scelta non dipende da noi, ma dal nemico che espone i corpi degli uccisi e definisce l'assassinio "un esempio."
La belva ormai incalzata da ogni parte, si difende col terrore.
Mi rifugio in casa. Mi raggiunge nel pomeriggio una staffetta. I repubblichini hanno sparato in aria per allontanare la folla che sfilava davanti ai caduti. Il giorno successivo alla Vanzetti, alla Graziosi, alle Trafilerie, alla Motomeccanica, alla O.M. ecc., gli operai abbandonano il lavoro in segno di protesta; alla Pirelli le maestranze si riuniscono in silenzio. Ora tocca a noi.
Nella medesima notte prepariamo otto bombe ad alto potenziale. Il tecnico, abituato ad un lavoro di precisione, esprime le sue preoccupazioni, ma si piega alle necessità. Il giorno dopo, all'alba, io, Narva e Sandra ci troviamo nella chiesa di via Copernico per la consegna dell'esplosivo. Il parroco si accinge a celebrare la prima messa, avanzando silenziosamente dalla sacrestia. Nella chiesa, deserta, regna un silenzio profondo, una pace incredibile. Arriva il tecnico con le borse. Il prete assiste alle consegne, immobile fra i chierichetti. Comprende? Non so.
Usciamo. Accompagno le ragazze all'appuntamento con Conti e Giuseppe, per l'ultimo scambio delle borse.
"Vi proteggerò le spalle," dico, "calma e sangue freddo. Non ci sarà nessuna sorpresa."
I due gappisti con la calma e la sicurezza di professionisti, depositano le bombe, si eclissano in una viuzza scambiandosi un rapido cenno di saluto. Una, due, tre esplosioni scuotono l'aria, infrangono i vetri. Il ritrovo ufficiali del comando tedesco è devastato come un campo di battaglia. Abbiamo disposto le cariche in modo che gli esplosivi deflagrassero prima sulle finestre e successivamente all'uscita del circolo.27
Il giorno dopo il Feldmaresciallo Kesserling invita le forze dipendenti ad agire con maggiore energia nei confronti dei sabotatori da impiccarsi sulle pubbliche piazze; il comandante della piazza di Milano anticipa il coprifuoco alle 22. Il nemico si rende conto che l'arma del terrore gli si ritorce contro. Dobbiamo insistere. Azzini e Bosetti attaccano il comando repubblichino nella sede dove convergono i lavoratori italiani da inviare in Germania. Il mattino del 14 agosto un alto ufficiale tedesco e due subalterni mentre discutono in un ufficio del Palazzo di Giustizia vengono uccisi con una "sipe" lanciata da una finestra.
Nei corridoi, tedeschi e fascisti fuggono in preda al panico. Il coprifuoco non ci ferma: il 16 agosto ancor Azzini e Bosetti giustiziano uno squadrista, ufficiale della milizia e delatore di partigiani e, due giorni dopo un'altra squadra abbatte un ufficiale delle SS a Porta Volta.
"La pagheranno! " era la parola d'ordine del popolo e la nostra.
3 agosto: lancio di due bottiglie "Molotov" contro gli automezzi nel giardino del comando di via Mascheroni.
9 agosto: alle ore 13 in piazzale Tonolli (oggi piazza Ascoli) abbattuto un capitano della milizia ferroviaria. Inseguiti da un gruppo di fascisti, i gappisti danno battaglia, vengono abbattuti due fascisti, un terzo rimane ferito.
18 agosto: una "sipe" lanciata contro il gruppo rionale di Porta Volta. Il giorno successivo un ufficiale tedesco viene abbattuto in pieno giorno. La sera stessa una squadra di gappisti compie un'azione contro il tratto di ferrovia Milano-Novara.
28 agosto: mentre il gappista Conti sta per essere arrestato, abbatte due fascisti e riesce a fuggire.28
30 agosto: un locomotore fatto deragliare sul tratto ferroviario Milano-Certosa-Rho mentre un'altra squadra fa saltare un traliccio metallico che sorregge i cavi conduttori di corrente ad alta tensione. I cavi spezzati cadono aggrovigliandosi sulla strada. Le ruote di un camion tedesco che si trova a passare in quel momento si impigliano nei cavi e l'autocarro si incendia: due tedeschi muoiono carbonizzati.

*

Nulla è piú pericoloso di una spia fascista che conosca i patrioti, soprattutto se la spia è stata agente dell'OVRA fino al 1943 ed ha avvicinato gli antifascisti arrestati. Verso la metà di agosto del 1944, Franco mi informa dell'esistenza di una spia della quale non conosco né il nome, né l'indirizzo, né il volto, una anonima minaccia per un grande numero di antifascisti, una oscura ipoteca sul fronte di liberazione. Dopo 15 giorni abbiamo la prova che la spia è un certo avvocato De Martino, dirigente dell'ufficio politico della Questura di Milano, un criminale prudentissimo che esce soltanto per andare alla Questura e tornarsene a casa, in via Telesio, e sempre scortato. Via Telesio è zona "militarizzata," sede di comandi di gruppi fascisti e tedeschi, protetta da eccezionali misure di sicurezza; elegante e signorile, costeggia il parco, sotto i cui alberi secolari si avvicendano i reparti fascisti di vigilanza.
Non è possibile sostare qualche minuto in via Telesio senza essere fermati, perquisiti e magari arrestati; dobbiamo quindi andarci a colpo sicuro e nel minuto preciso. Il nostro guaio, invece, è che nessuno di noi ha mai visto il De Martino. Ci vuole qualcuno che lo conosca e, al momento giusto, ce lo indichi. Ne parlo a Sandra e la convinco a recarsi in casa del De Martino per chiedergli un parere legale. La missione è pericolosa e richiede ad un tempo sangue freddo e fantasia, due qualità che non mancano alla nostra ambasciatrice.
Il giorno seguente Sandra suona alla porta di via Telesio e viene fatta entrare nel salotto, con le finestre protette da solide inferriate, dove, qualche minuto dopo, entra un individuo alto e robusto scrutandola dietro le spesse lenti; l'uomo l'accompagna nel suo studio e dopo averla fatta accomodare in una grande poltrona di pelle, si siede, a sua volta, dietro la scrivania.
Sandra, mostrandosi molto imbarazzata, gli fa pressappoco questo discorso: "Mi manda mio padre per un consiglio. Si tratta di mia sorella di 19 anni, fidanzata ad un ufficiale degli alpini. La ragazza aspetta un bambino. Ha scritto al comando del reparto per far ottenere al fidanzato una breve licenza matrimoniale prima della nascita del piccolo, ma intanto purtroppo l'ufficiale è caduto in combattimento sul fronte greco."
"Ora mia sorella," aggiunge Sandra, "dopo la nascita del bambino è ossessionata dall'idea che debba portare il nome del suo eroico padre; conserva le lettere che le ha scritto e dalle quali traspare l'impazienza di sposarla per amore suo e del loro piccolo."
La spia osserva Sandra con insistenza, si toglie gli occhiali, li pulisce con calma, li rimette e chiede bruscamente: "perché è venuta da me? Chi le ha dato il mio indirizzo?"
Sandra, che aveva previsto la domanda, risponde con sicurezza:
"Mi ha mandata mio padre, consigliato da un amico medico."
De Martino non fa altre domande; scorre gli appunti del colloquio e dice a Sandra: "Mi faccia avere le lettere del fidanzato di sua sorella e dica a suo padre, la prossima volta, di venire di persona. Forse un giorno suo nipote porterà il nome del padre, eroico combattente. Chi è caduto per la patria ha tutti i diritti alla nostra riconoscenza."
Sandra si alza. L'uomo, mostrandosi galante l'accompagna in anticamera per farle intendere che il favore è grande e che l'avrebbe rivista volentieri. Ora conosciamo la faccia dell'individuo, ma la sua esecuzione presenta molti rischi. Li affrontiamo.
Mercoledí, 1° settembre 1944; due gappisti si appostano all'inizio e alla fine di via Telesio. Pochi minuti prima dell'arrivo della macchina di De Martino, giungo a braccetto di Sandra. Camminiamo piano, chiacchierando come due fidanzati. Compare da via Ariosto una grossa automobile. Sandra riconosce l'uomo attraverso i cristalli. Do il segnale. I due gappisti si incamminano sul marciapiede l'uno verso l'altro, per incontrarsi davanti al portone numero 8, nel momento stesso in cui si sarebbe arrestata l'automobile con la spia a bordo.
Abbiamo calcolato esattamente i tempi e non è la prima volta che eseguiamo una simile manovra. De Martino scende dall'auto, accompagnato dalla scorta, fa tre passi sul marciapiede e cade colpito da tre colpi di pistola. La scorta, sorpresa, non reagisce immediatamente. Quando spara contro i gappisti in corsa, è troppo tardi.

Il 5 settembre appare sui giornali il comunicato del capo della Provincia. "A decorrere dal 4 settembre è fatto divieto a tutti i ciclisti di transitare in gruppi. Ai posti di blocco presso le barriere daziarie, i ciclisti devono scendere dal veicolo almeno dieci metri prima e risalirvi dieci metri dopo."

*

Nel pomeriggio, in corso Sempione, incontro Azzini. Cammina lentamente. Non gli lascio il tempo di dirmi ciao. "Da dove vieni?"
"Mi ha bloccato un rastrellamento."
"Un rastrellamento?"
"Stamattina non c'eri in via Ponzio dove è morto un compagno e Antonio è stato gravemente ferito!"
Azzini abbassa il capo. Non ribatte, ma il suo volto esprime confusione, amarezza, dolore. "Alla Ponzio, l'azione è fallita. I gappisti hanno reagito, ma purtroppo Romeo Conti è morto. Questo è quanto. E ora parliamo d'altro. C'è qualcosa da fare?"
Da alcuni giorni matura l'idea di un colpo alla Stazione Centrale di Milano in un locale adibito a posto di ristoro per fascisti e tedeschi, dove si mesce perfino birra. Mi sono già recato con Sandra nel locale, di difficile accesso per coloro che non sono in uniforme, ma non per un gappista travestito. Il tecnico ha preparato il materiale impiegando matite esplosive a scoppio ritardato, invece della solita miccia facilmente identificabile dalle tracce di fumo. Il laboratorio dista dalla stazione circa dieci minuti di strada. Azzini mi ascolta. Risponde: "D'accordo." E aggiunge: "Tu credi forse che io abbia paura! No, non ho paura, ma..."
"Non ci possono essere ma."
"Ci saranno rappresaglie, vittime..."
"Rappresaglie? Sí, e sempre piú feroci. Per questo dobbiamo tenergli costantemente le mani in gola." Mi guarda negli occhi. "Ho capito," dice.
In quel momento sono io a tacere. Le domande di Azzini ce le siamo poste tutti, mille volte, davanti ai caduti, davanti agli uccisi, agli innocenti sacrificati. Sono una prova di onestà, di lealtà verso i cento e cento compagni che sono già morti, e verso quelli che lottano con l'arma in pugno in ogni angolo d'Italia.
È lui a scuotermi. "Quando ci troviamo? Dove?"
Ci troviamo in via Copernico, non lontana dal laboratorio del tecnico.29 È con noi Narva che accompagnerà Azzini. Prima dell'appuntamento mi reco in laboratorio dove per la prima volta riceviamo matite esplosive in luogo della miccia e mi isso lo zaino sulle spalle. Quando arrivo in via Copernico, Azzini, in uniforme fascista, mi attende. Gli passo lo zaino. Ci incamminiamo in gruppo verso la stazione.
Giulio, il tecnico, ci lascia ai piedi della scalinata. Narva prosegue sola, precedendo Azzini. Anch'io gli stringo la mano e mi allontano.
Azzini sale gli scalini un po' curvo sotto il peso dello zaino, diretto al posto di ristoro in cima alla scalinata. Prima di allontanarmi rimango qualche minuto seguendolo con lo sguardo, mentre con la sigaretta fra le labbra, sale calmo, sicuro. Raggiungo Sandra, incaricata di sorvegliare all'esterno l'andirivieni dei passeggeri.
Quando Azzini- arriva al posto di ristoro lo trova pieno di tedeschi e di fascisti: alcuni sostano all'esterno del locale, seduti sul parapetto delle scale. Poco discosto, tre bambini stanno rincorrendosi, giocando. Azzini entra nel locale, si toglie lo zaino, lo posa per terra in un angolo. Caldo soffocante e tanta gente che parla forte e che ride. Azzini si asciuga il sudore che gli cola sulla fronte, guarda l'orologio. È tempo di allontanarsi.
Ma mentre esce rivede i tre bambini che si rincorrono ridendo, inconsci, felici. Si avvicina ad essi, li prende per mano e li conduce via.
Di fronte alla farmacia della stazione, Sandra segue l'azione per potermi subito riferire. In quell'istante, mentre Azzini si allontana con i tre bambini, la bomba scoppia con dieci minuti di anticipo sul tempo stabilito lanciando un volo di schegge attorno a lui. Azzini sorpreso guarda l'orologio e rabbrividisce.
I tedeschi, seduti su un parapetto della scala, sono gettati in terra dallo scoppio. Altri fuggono. Dal posto di ristoro escono spesse nubi di fumo nero. Due o tre militari feriti compaiono sulla porta del locale urlando di dolore. Azzini è ormai fuori con i tre bambini. La gente che in quell'ora affolla la stazione si passa le voci piú strane. "È scoppiata una bomba nello zaino di un tedesco." "È saltato un treno carico di esplosivo."
Molti accusano i tedeschi di incuria nel trasporto del materiale esplosivo. I tedeschi gridano: "Partigiani! Banditi!"
Arrivano i rinforzi, circondano la stazione, fanno allontanare la gente, mentre i morti e i feriti vengono trasportati fuori.
Camion armati bloccano l'entrata della stazione, arrestando chiunque si trovi a passare. Sandra fa appena in tempo a fuggire. Io, dal caffè dove mi trovo in attesa, sento l'esplosione e mi accorgo che la bomba è scoppiata molto prima del tempo stabilito. Calcolo febbrilmente il tempo: dieci minuti per arrivare sul posto, due o tre per depositare lo zaino e uscire. Anche se lo scoppio è avvenuto dopo diciotto minuti anziché dopo trenta, Azzini avrebbe avuto il tempo di allontanarsi, a meno che non si sia fermato per non farsi notare.
Poco dopo arriva Sandra, ma neppure lei sa dirmi se Azzini sia uscito o meno dal posto di ristoro. Ha sostato davanti ad una edicola i primi dieci minuti e non ha tenuto d'occhio il posto di ristoro. La incarico di recarsi, il mattino dopo, a casa di Azzini per chiedere notizie.
Ma dentro di me si fa strada una di quelle idee assurde che attraversano la mente nei momenti in cui ci si abbandona all'ansia, al turbamento. Temo che Azzini possa pensare che io l'abbia mandato deliberatamente alla morte per punirlo della sua mancata partecipazione allo scontro della piscina in via Ponzio. È assurdo, ma ho fretta di vederlo, di parlargli, di eliminare ogni dubbio. Non è necessario. Mi viene incontro nel pomeriggio tutto allegro.
La stampa fascista divulga poi la falsa notizia di bambini uccisi: il locale di ristoro diviene una infermeria!
L'arma segreta a cui i nazifascisti ricorrono come risorsa estrema è la menzogna e la calunnia.
Trascorrono tre giorni. Il meccanismo poliziesco dei fascisti si è mosso invano; ma la fatalità vuole che Azzini venga catturato dagli sgherri della "Muti" come renitente alla leva.
Arrestato, viene condotto nella caserma di via Rovello. Lo spogliano. Lo stesso comandante della marmaglia della "Muti," Colombo, svolge l'interrogatorio.
"Sei un partigiano? Parla! Sei un bandito? Parla, vigliacco!"
Azzini non parla. Il ragazzo è diventato uomo, un partigiano.
Torturato per sette giorni, di giorno e di notte. Resiste agli insulti; alle sevizie, lui oppone il silenzio. In pieno giorno riesce a fuggire dalla porta centrale per cui è entrato prigioniero, sicura preda della morte,

26 Ecco i loro nomi: Andrea Esposito, Domenico Fiorano, Umberto Fogagnolo, Giulio Casiraghi, Salvatore Principato, Eraldo Pancini, Renzo del Riccio, Libero Temolo, Vitale Vertemarchi, Vittorio Gasparini, Andrea Raggi, Giovanni Galimberti, Egidio Mastrodomenico, Antonio Bravin, Giovanni Colletti.
27 Azione svolta contro il comando tedesco di via Guernico, angolo viale Montello.
28 Quattro partigiani: Albino Abico, Giovanni Aliffi, Bruno Clapiz e Maurizio del Sale, già gappisti e poi organizzati nelle S.A.P., vengono fucilati il 28 agosto 1944 contro il muro della casa di via Tibaldi 26 a Milano.
Albino Abico cosí scriveva ai suoi familiari prima di morire "Carissimi mamma, papà, fratello, sorella e compagni tutti, mi trovo senz'altro a breve distanza dall'esecuzione. Mi sento però calmo e sereno e con l'animo tranquillo. Contento di morire per la nostra causa: il comunismo e per la nostra cara e bella Italia. Il sole risplenderà su noi 'domani' perché tutti riconosceranno che nulla di male abbiamo fatto noi. Voi siate forti come lo sono io e non di-sperate. Voglio che voi siate fieri ed orgogliosi del vostro Albino che sempre vi ha voluto bene."
29 Giulio Impiduglia aveva organizzato il laboratorio in via Vivaldi.