Biblioteca Multimediale Marxista
Ringraziamo Marco Maurizi e il collettivo Rinascita Animalista per aver messo a disposizione dei nostri lettori il testo
0. Premessa
Ricordo che un giorno, mentre approntavamo materiale pubblicitario animalista,
suonò alla porta una ragazza appartenente alla setta di Lotta comunista.
Chiedeva fondi per il suo giornale marxista-leninista. Le proponemmo, in cambio,
di partecipare ad una manifestazione per i diritti animali che si sarebbe
tenuta di lì a qualche settimana a Roma. La sua risposta, piuttosto
imbarazzante, fu: “noi non pavtecipiamo a questo geneve di manifestazioni
in cui si mescolano fvange bovghesi”. E poi le immancabili banalità
sull’operaio cinese che “conta più” dell’animale
etc. etc. Racconto questo triste aneddoto perché conferma quanto il
pregiudizio “specista” sia diffuso all’interno del movimento
operaio. Ma anche perché negli anni seguenti fui costretto a riconoscere,
con sommo orrore, quanto l’odiosa ragazza avesse ragione. Se in questo
articolo smetto, per un attimo, le vesti dell’animalista militante per
indossare quelle del pedante marxista è solo perché sono convinto
che 1) il marxismo non è strutturalmente incompatibile con l’animalismo
e 2) senza una sintesi teorica che abbracci entrambi, l’animalismo non
sarà in grado di assolvere i suoi compiti.
In questo articolo parlo solo della possibile unione teorica tra i movimenti,
poiché quella pratica presenta problemi ben diversi e, forse, anche
più ampi (entrambi soffrono, come si sa, della nota tendenza tipica
della sinistra alla frantumazione). Sono peraltro convinto che, senza una
chiara definizione dei principi cui l’azione si ispira, ogni unificazione
pratica è impossibile. Preciso inoltre che non sto sostenendo che l’animalismo
debba confluire o annullarsi nel marxismo, ma che esso deve porre come prioritario
un adeguamento della propria base teorica al marxismo e concepire la liberazione
umana come presupposto della liberazione animale.
1. Perché un non vegetariano può dirsi comunista
Un articolo di Massimo Filippi apparso su Rinascita Animalista si propone
di rispondere alla domanda “Può un non vegetariano dirsi comunista?”.[1]
Il tentativo, lodevole, è quello di trovare un collegamento organico
tra la lotta socialista e quella in difesa degli animali. Purtroppo, dopo
aver suggerito che un collegamento effettivo tra le due prospettive è
deducibile a partire dalla lettura dei “filosofi marxisti della scuola
di Francoforte”, l’articolo lascia cadere la questione. Filippi
compila invece un lungo elenco di motivi che dovrebbero spingere il comunista
a diventare vegetariano. Sostengo che questi motivi, lungi dal fornire un
collegamento organico tra la prospettiva socialista e quella animalista, possono
al massimo giustificare una loro unificazione puramente tattica, strumentale
e, temo, effimera. Il fatto che Filippi non sia entrato nel merito infatti
dei principi del comunismo cui pretende riferirsi (senza definire quindi nemmeno
cosa intende per “comunismo” e quindi chi sia il comunista a cui
si rivolge), rende la sua proposta politica del tutto astratta e inservibile,
soprattutto per la corrente marxista che rappresenta tutt’ora la più
influente e rappresentativa del mondo socialista.
Nessuno dei motivi elencati da Filippi costringerebbe un marxista ad abbracciare
la causa dei diritti animali: non la lotta alla “fame nel mondo”,
non il problema della “scarsità d’acqua”, non il
pericolo del “disastro ecologico”, non il rifiuto degli “ogm”.
Si tratta di problemi che il marxista potrebbe, a buon diritto, considerare
risolvibili all’interno della propria prospettiva teorica e politica,
senza per questo dover sostenere o anche solo accettare la teoria dei diritti
animali, né tantomeno diventare vegetariano nell’immediato, come
vuole Filippi, sulla base di un qualche imprescindibile obbligo morale. E
questo non perché il marxista sia cattivo o insensibile, ma perché
vede la soluzione di quei conflitti e problemi a livello di lotta politica
e non a livello di principi etici. Poiché il marxismo, come diremo,
non intende adeguare la realtà a un’ideale etico ma risolvere
una contraddizione sociale, oggettiva, esso considera l’iniqua distribuzione
delle risorse sempre l’effetto necessario di un modo di produzione (il
capitalismo), non la conseguenza di una volontà volta al male. Quindi,
per dirne una, la sottrazione di risorse al terzo mondo finalizzata all’allevamento
intensivo per la produzione di carne destinata ai paesi ricchi non potrà
mai essere considerata da un marxista la causa della fame e della povertà.
Si può deprecare quanto si vuole questo approccio del mondo marxista,
ma finché non si suona al marxista “la sua stessa musica”
(per dirla con Marx), non vi è alcuna speranza di superare la divisione
tra socialismo e movimento animalista. D’altra parte, l’unico
argomento vagamente marxista[2] che Filippi introduce (la difesa dei “diritti
dei lavoratori e dei migranti” dell’industria alimentare) ha davvero
ben poco di animalista. Anzi, il vero problema è che tutti gli argomenti
da lui addotti hanno il dubbio pregio di essere argomenti utilitaristici e
antropocentrici, volti cioè a suggerire che c’è un’utilità
per l’uomo nella difesa degli animali e che quindi questa difesa non
deve essere condotta principalmente per il bene degli animali ma per quello
dell’uomo. Non solo non fanno uscire il marxismo dal suo, vero o presunto,
“antropocentrismo”, ma costituiscono delle falsificazioni delle
tesi dell’animalismo corrente (che vede, a torto o a ragione, proprio
nella difesa degli animali come un valore in sé un proprio tratto caratteristico).
Né in un senso né nell’altro costituiscono dunque una
base per un possibile superamento della separazione tra i due movimenti.
2. Limiti della critica animalista a Marx
Un tentativo organico di confrontare la prospettiva marxista e quella animalista
è invece quello tentato da David Sztybel.[3] Sztybel è un animalista
ortodosso, conosce bene il suo Singer e il suo Regan e si propone di mostrare
come il marxismo si trovi in contraddizione con se stesso nel non riconoscere
la causa dei diritti animali. A differenza di Filippi, però, egli non
sembra avere un buon rapporto con il marxismo e dimostra a ogni passo di non
aver letto Il Capitale con la stessa attenzione di Animal Liberation. Anzi,
come mostrerò, dà l’impressione di non averlo letto affatto.
Sztybel inizia con l’affrontare la questione generale del rapporto uomo-animali
nelle opere di Marx ed Engels e vi riscontra da un lato la tendenza a riconoscere
la fondamentale continuità tra uomo e animale, dall’altro la
tendenza a vedere nell’uomo un ente privilegiato nella natura, costitutivamente
diverso dagli altri esseri viventi. Si tratta di un problema molto complesso,
per il momento limitiamoci agli aspetti sottesi alla polemica di Sztybel.
Il primo argomento, quello continuista, è costitutivo del “materialismo”
marxiano – come riconosciuto anche da Filippi nel suo articolo –
perché sottolinea come l’uomo sia un essere del tutto interno
all’ordine naturale, nega cioè che la specificità dell’uomo
consista nel possesso di facoltà spirituali che lo metterebbero in
contatto con una dimensione trascendente. Il secondo argomento però
recherebbe ancora tracce di “idealismo”, poiché porrebbe
nell’uomo un’unicità rispetto al regno animale che gli
permetterebbe di trascenderlo e porrebbe nella piena realizzazione di questa
sua peculiarità la destinazione e il fine delle vicende umane.
Di fatto, lungi dal produrre due tendenze opposte e contraddittorie all’interno
della teoria marxiana, questi due argomenti sono strutturalmente connessi.
Sztybel non riesce a vedere però questo collegamento e pretende che
l’animalismo costituisca un modo per risolvere la contraddizione che
attribuisce a Marx. Ciò è dovuto alla sua profonda incomprensione
del marxismo e, in generale, della dialettica che lo anima. Non è un
caso che le citazioni su cui si appoggia – quando non sono citazioni
dell’opera giovanile e immatura di Marx – siano parziali e mutile,
non presentino cioè gli aspetti ineludibili per ogni vera comprensione
del marxismo (centralità della storia, rapporto tra struttura economica
e sovrastruttura ideologica, unità di teoria e prassi, per citare solo
i più importanti). In particolare, poi, è curioso ma sintomatico
che Sztybel giunga a conclusioni giuste partendo sempre da interpretazioni
sbagliate dei passi marxiani che cita. Il che implica semplicemente che egli
si limita ad applicare la sua interpretazione specista del marxismo a tutto
ciò che legge. Quanto questo procedimento sia fruttuoso lo si vede
ad esempio in questo passaggio del giovane Marx che viene citato a riprova
dell’antropocentrismo marxista:
Il comunismo s’identifica, in quanto naturalismo giunto al proprio compimento, con l’umanismo; in quanto umanismo giunto al proprio compimento, col naturalismo; è la vera risoluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, la vera risoluzione della contesa tra l’esistenza e l’essenza, tra l’oggettivazione e l’autoaffermazione, tra la libertà e la necessità, tra l’individuo e la specie. È la soluzione dell’enigma della storia, ed è consapevole di essere questa soluzione.[4]
Ora, il commento di Sztybel annulla tutta la tensione speculativa di questo
passo – certamente ancora idealistico e fumoso – del giovane Marx
e gli fa dire esattamente l’opposto di quanto dica in realtà:
“In questo passaggio piuttosto pomposo non solo il naturalismo marxista
è definito umanistico, ma pretende addirittura risolvere l’antagonismo
tra umani e natura. Dato il punto di vista umanistico di Marx, non sorprende
che questa soluzione sia in favore degli umani e a spese degli animali”.[5]
Eppure Marx non sta affatto risolvendo il naturalismo nell’umanismo,
non sta dicendo che il comunismo dissolve la natura in una dimensione antropocentrica
tale che ogni antagonismo tra uomo e natura sia risolto con la vittoria dell’uomo.
Sta dicendo, al contrario, che solo il comunismo può porre fine alla
lotta tra l’uomo e la natura e quindi inaugurare una fase storica in
cui l’antagonismo tra naturalismo e umanismo è definitivamente
superato (vedremo in seguito in che senso ciò venga inteso).
Sztybel è più idealista e hegeliano del giovane Marx nella misura
in cui gli attribuisce posizioni che Marx sta, in realtà, criticando.
Come la seguente affermazione che non è altro che una parafrasi di
Hegel: “la natura, astrattamente presa, per sé, fissata nella
separazione dall’uomo, non è per l’uomo un bel nulla”[6]
e che non implica affatto, come pretende Sztybel, che per Marx “la natura
ha valore nullo per l’umanità”[7], che per l’uomo
essa sia di interesse solo nella misura in cui serve a soddisfare i suoi bisogni.
Se avesse letto le frasi successive, Sztybel avrebbe scoperto che Marx considera
quella separazione concettuale tra uomo e natura un’astrazione idealistica
senza senso e se avesse letto tutti i Manoscritti economico-filosofici avrebbe
scoperto che: “la natura è il corpo inorganico dell’uomo,
precisamente la natura in quanto non è essa stessa corpo umano. Che
l’uomo viva della natura vuol dire che la natura è il suo corpo,
con cui deve stare in costante rapporto per non morire. Che la vita fisica
e spirituale dell’uomo sia congiunta con la natura non significa altro
che la natura è congiunta con se stessa, perché l’uomo
è parte della natura”.[8] Semmai, lo si vede bene, il rischio
è quello di annullare l’uomo nella natura piuttosto che il contrario.
Ma Marx era abbastanza intelligente da evitare un materialismo piatto e volgare;
per questo il naturalismo doveva – secondo la formulazione ancora hegeliana
della prima citazione – diventare a sua volta umanismo, occorreva cioè
mostrare la reciproca determinazione tra uomo e natura, il loro rapporto organico,
indissolubile. Ciò che permette di uscire dalla sterile contrapposizione
idealistica tra uomo e natura è ciò che Sztybel si guarda bene
dal prendere in considerazione, ovvero il nerbo autentico del marxismo, che
in questi Manoscritti appare ancora solo in forma abbozzata: la società,
cioè il fatto che il rapporto uomo-natura sia la base dell’economia
umana e, soprattutto, che muti storicamente.[9]
Avendo, tuttavia, definito il rapporto uomo-natura nel marxismo come intrinsecamente
strumentale e antropocentrico, Sztybel ha gioco facile nel confutare Marx
utilizzando i soliti argomenti anti-specisti che ogni animalista sa snocciolare
a memoria.
Il movimento per i diritti animali, naturalmente, contesta l’idea che
gli animali non umani possano essere considerati aventi un mero valore strumentale.
Comunque, Marx ed Engels potrebbero difendere la subordinazione degli animali
non umani come farebbe chiunque altro: argomentando le differenze moralmente
rilevanti tra gli esseri umani e gli animali non umani.[10]
E da qui tutta una serie di banalità che hanno l’unico pregio
di presentarsi come ridicole lotte contro mulini a vento. Si tratta però
di una mossa doppiamente scorretta. Non solo perché deforma, come visto,
le teorie marxiane, ma anche perché presuppone che Marx ed Engels ricorrerebbero
ad argomentazioni strettamente morali per giustificare la superiorità
dell’uomo sull’animale. Cosa che li farebbe rivoltare nella tomba
se già non ci avessero pensato Stalin e Mao. E Sztybel dovrebbe saperlo
bene perché in seguito cita il seguente, lapidario passo dell’Anti-Dühring
di Engels: “Noi respingiamo ogni pretesa di imporci una qualsiasi dogmatica
morale come legge etica eterna, definitiva, immutabile nell’avvenire,
col pretesto che anche il mondo morale avrebbe i suoi principi permanenti
che stanno al di sopra della storia e delle differenze tra i popoli”.[11]
Ciò non significa affatto, come pretende Sztybel, che – essendo
la morale qualcosa di storicamente cangiante – la “morale marxista”
che prèdica la superiore dignità dell’uomo sull’animale
può essere ribaltata senza che ne venga intaccato il contenuto teorico.
Significa invece che il marxismo, mettendo fuori corso ogni teoria etica,
non professa affatto la superiorità morale dell’uomo sull’animale.
Questa “superiorità”, nella misura in cui è veramente
professata dal marxismo, non ha perciò alcun connotato morale[12] e
bisognerebbe semmai capire in che cosa consiste e quali ne siano le conseguenze
teoriche e pratiche.
Sztybel invece isola tutte le caratteristiche con cui Marx ed Engels definiscono
la specificità dell’uomo (autocoscienza, socialità, produttività
attraverso il lavoro, storicità) e di ognuna di esse propone una confutazione
di rito, senza accorgersi che nessuna di quelle caratteristiche presa di per
sé ha senso nella prospettiva marxiana.[13] Il procedimento smembrante
di Sztybel (“another candidate for human uniqueness is...”) è
assurdo dal punto di vista di Marx perché è solo l’insieme
di quelle caratteristiche che definisce la condizione umana e che a sua volta
dà un contenuto ai singoli concetti che la definiscono.[14] Questi
si implicano e si sostengono a vicenda. È solo perché la sua
autocoscienza è prodotta dal lavoro che l’autocoscienza dell’uomo
si differenzia da quella dell’animale. D’altra parte, è
solo perché il suo essere sociale determina le modalità del
lavoro produttivo che la socialità umana si differenzia da quella animale.
Ed è solo perché il lavoro si sedimenta attorno e dentro di
lui e ne condiziona lo sviluppo in senso storico che la storia umana si differenzia
da quella animale etc. In un passo dell’Ideologia tedesca che Sztybel
stesso cita, si afferma:
Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i propri mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale.[15]
Questa “vita materiale” che gli uomini producono ha la caratteristica
di crescere su se stessa ed evolversi per l’azione dell’uomo e,
a sua volta, di condizionarla, di essere cioè effetto della sua attività
vitale, pur restando sempre condizione della sua esistenza: ogni nuova generazione
cioè vive e si sviluppa a partire dal prodotto del lavoro e, quindi,
dell’intera organizzazione sociale delle generazioni precedenti. L’uomo
è un essere intrinsecamente politico, perché il suo essere è
costitutivamente collettivo nel modo che si è detto: è storico
e sociale e, come l’età moderna ha reso evidente, può
essere guidato dalla razionalità, ospita cioè in sé la
possibilità di autodeterminarsi. In tal senso va allora intesa l’affermazione
marxiana che l’autocoscienza è propriamente umana perché
solo l’autocoscienza umana è intrinsecamente e radicalmente collettiva.
L’uomo si definisce rispetto agli altri animali per questa sua dipendenza
da una collettività che è in sé storica e si proietta
verso l’autodeterminazione, il superamento di una condizione di anarchia
naturale. Il rapporto tra l’uomo e la propria animalità è
quindi esso stesso storico e non un’invariante. In tal senso Engels
dice che l’uomo sarà veramente tale solo nella società
comunista.[16]
Non è vero, quindi, ciò che afferma Sztybel quando sostiene
che per Marx l’animale è una condizione semplicemente inferiore
a quella umana, tanto che l’alienazione umana è definita in termini
di ricaduta nell’animalità. “Marx sostiene sempre che c’è
una differenza tra gli umani e gli altri animali; persino nello stato di alienazione,
gli umani hanno potenzialità che gli altri animali non hanno”.[17]
È vero che la condizione del lavoratore alienato è da Marx spesso
definita “animale”, ma si tratta di un uso del termine più
metaforico che reale. Ciò diviene sempre più chiaro negli scritti
maturi di Marx; ma adirittura già nei Manoscritti tanto citati da Sztybel
si trova una descrizione della condizione operaia nel XIX secolo che corregge
questa visione, e che mostra come “l’animalità” cui
viene ridotto l’operaio alienato si riduca ad una condizione propriamente
innaturale.[18] La scissione tra lavoro e capitale nella società moderna,
la divisione del lavoro e l’anarchia della produzione riducono l’uomo
ad una condizione anti-umana e, più che animale, propriamente sub-animale.
Il capitalismo mette l’uomo in contraddizione con la propria natura
perché implica la negazione di una possibilità reale che è
implicita nell’essere umano in quanto essere sociale.[19]
Quando il marxismo fa riferimento all’uomo come specie separandolo e
anche contrapponendolo all’animale, possiede un tratto che lo rende
eccentrico rispetto a ciò che solitamente si intende per “specismo”.
La descrizione marxiana della natura umana è dinamica: l’uomo
è definito da un arco storico tra il “non essere più animale”
e il “non essere ancora pienamente uomo”. Al tempo stesso tutte
le sue caratteristice specifiche non lo concernono in quanto essere singolo
appartenente ad una specie (attraverso una serie di qualità che gli
apparterrebbero ab origine come individuo) ma come essere sociale e collettivo
e per di più come essere sociale e collettivo che modifica progressivamente
questo proprio essere. Le teorie morali sono invece (1) monadologiche e (2)
astoriche, cioè concernono il singolo come soggetto autonomo, separato
e, in più, lo pensano in un mondo ideale, scisso da qualsiasi contesto
sociale e storico. L’azione umana, dice invece Marx, presuppone sempre
gli altri esseri e il loro agire, non solo come astratto altro-da-me, come
qualcosa di esterno, ma come qualcosa che inerisce essenzialmente e concretamente
al mio essere fin dall’origine. In secondo luogo, ogni teoria morale
fa arbitrariamente astrazione dal soggetto storico che la formula mentre essa
invece presuppone la sua forma di esistenza e, dunque, tutto il processo storico
che ha portato alla sua formulazione. In questo modo, ad esempio, la “morale
universalistica”, che ha potuto formarsi con coerenza e radicalità
solo per la coscienza europea borghese già sviluppata, viene presa
di peso e proiettata nelle epoche precedenti o in culture diverse che, giudicate
con la sua misura, vengono in blocco condannate come oscurantiste e violente.[20]
Teorie morali che facciano astrazione dall’economia politica, cioè
dalla considerazione dei presupposti sociali e storici dell’esistenza
umana, sono perciò da un punto di vista marxista inevitabilmente delle
vuote astrazioni.
Marx non parte quindi da un pregiudizio morale a favore dell’uomo. E
non è nemmeno interessato a fornire all’uomo “un privilegio
morale sull’animale” (nemmeno quello che potrebbe derivargli dall’essere
un essere in costante “divenire”), quanto piuttosto a descrivere
la struttura costitutivamente storico-sociale dell’esistenza umana:
ciò è necessario per comprendere come questa “funzioni”
e come possa, eventualmente, essere modificata. Per questo ogni considerazione
del marxismo che eluda il nesso di teoria e prassi è falsificante.
Per Marx si tratta cioè di comprendere le leggi di sviluppo della società
umana e non di delineare una morale antropocentrica o anche solo un’utopia
politica fondata su un’antropologia statica (cioè una descrizione
di caratteristiche costanti e sovrastoriche dell’essere umano). Di fatto,
Marx non descrive né come l’uomo “è” (antropologia
filosofica), né come “deve essere” (morale), ma come “diviene”
(economia politica). Per Marx la storia è il luogo in cui l’uomo
diviene ciò che è: il rifiuto marxiano dell’etica si radica
proprio nel rifiuto della scissione tra realtà e ideale. Marx ed Engels
non consideravano il comunismo un ideale da realizzare, ma “il movimento
reale che abolisce lo stato di cose presente”.[21] Se la realtà
umana stessa non spingesse verso la realizzazione di una società in
cui la produzione sociale è finalizzata al bene comune, essa resterebbe
un sogno contrapposto alla realtà, sarebbe una predica moraleggiante
o al più un’utopia filantropica. È invece proprio perché
l’uomo è un essere sociale che produce da sé le proprie
condizioni di sussistenza che è possibile pensare ad un assetto sociale
posto sotto il suo controllo, cioè un’esistenza non abbandonata
al caso o al capriccio delle forze naturali.
3. Il ruolo e il significato dell’animale nel marxismo
3.1 Cosa pensavano Marx ed Engels del vegetarismo e dell’antivivisezionismo
Rimane il problema di cosa sarà dell’animale in una società
che abbia abolito la lotta di classe e si spinga anche, secondo il dettato
marxiano, a risolvere l’antagonismo tra l’uomo e la natura. Hanno
gli animali voce in capitolo e qualche speranza di vedere migliorata la propria
condizione? Stando alle opinioni esplicite di Marx ed Engels, pare proprio
di no. Sztybel alla fine ha quindi ragione? No, anche in questo caso. Ha torto
sia perché non cita queste “opinioni esplicite” ma pretende
dedurle da passi male interpretati (il che assomiglia più a un colpo
di fortuna che a un ragionamento logico), sia perché queste stesse
opinioni non sono affatto la necessaria conseguenza delle teorie marxiane.
Ed è quello che cercherò di mostrare in seguito.
Procediamo con ordine. Non si può certo negare, e sono l’ultimo
a volerlo fare, che Marx ed Engels non ritenessero necessario un ripensamento
del ruolo degli animali nella società umana, neppure in una società
comunista. Caccia, pesca e allevamento, ad esempio, continueranno ad essere
praticate, anche se sottratte alla divisione del lavoro. Se la società
comunista abolisce la divisione del lavoro, non per questo abolisce necessariamente
le attività produttive della società precedente. Per cui l’uomo
“onnilaterale” che si sviluppa dal superamento della divisione
del lavoro può andare a pescare pur se lo professione del pescatore
è stata abolita: “nella società comunista, in cui ciascuno
non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi
in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale
e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani
l’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera
allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia;
senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore,
né critico”.[22]
Marx ed Engels non presero mai in considerazione l’idea che il vegetarismo
potesse essere una forma possibile e alternativa di alimentazione. In generale,
anzi, consideravano – come molti altri nella loro epoca – il mangiar
carne un privilegio delle classi benestanti ingiustamente negato alle classi
subalterne.[23] Engels si spinge a dire che l’alimentazione carnea ha
favorito l’evoluzione umana e giustifica in quest’ottica addirittura
la pratica del cannibalismo.[24]
Particolarmente fastidiosa è l’avversione mostrata per l’antivivisezionismo;
un’avversione radicata anch’essa in una convinzione generalizzata
dell’epoca e che manifesta una eccessiva fiducia nella scienza.[25]
Engels era, dei due, quello che si mostrava maggiormente avverso al vegetarismo
e all’antivivisezionismo, che considerava estraneai e inconciliabili
con il “socialismo scientifico”, tanto da accomunarli con le varie
sette che a questo si avvicinavano spinti dalla forza di attrazione della
rivoluzione operaia. La lista che Engels fa di queste “sette”
è particolarmente divertita: “avversari della vaccinazione, astemi,
vegetariani, antivivisezionisti, medici naturisti, predicatori di libere comunità…,
autori di nuove teorie sull’origine del mondo, inventori senza successo
o falliti…”.[26]
A difesa di Engels va però detto che egli fu anche l’unico dei
due che chiamò per nome il dominio violento dell’uomo sulla natura
e prospettò la vendetta della seconda sul primo e la necessità
di un accordo armonico tra l’azione umana e il contesto in cui questa
avviene. Nella Dialettica della natura Engels spiega come si deve intendere
quella unione di “umanismo e naturalismo” che il giovane Marx
dei Manoscritti aveva lasciato nel vago:
Nessuna preordinata azione di nessun animale è riuscita a imprimere
sulla terra il sigillo della sua volontà. Ciò doveva essere
proprio dell’uomo. Insomma, l’animale si limita a usufruire della
natura esterna, e apporta ad essa modificazioni solo con la sua presenza;
l’uomo la rende utilizzabile per i suoi scopi modificandola: la domina…Non
aduliamoci troppo tuttavia per la nostra vittoria umana sulla natura. La natura
si vendica di ogni nostra vittoria. Ogni vittoria ha infatti, in prima istanza,
le conseguenze sulle quali avevamo fatto assegnamento; ma in seconda e terza
istanza ha effetti del tutto diversi, impreveduti, che troppo spesso annullano
a loro volta le prime conseguenze…Ad ogni passo ci vien ricordato che
noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina il popolo straniero
soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo ad essa, ma che
noi le apparteniamo con carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo:
tutto il nostro domio sulla natura consiste nella capacità, che ci
eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle
nel modo più appropriato…Ma quanto più ciò accade,
tanto più gli uomini non solo sentiranno, ma anche capiranno, di formare
un’unità con la natura, e tanto più insostenibile si farà
il concetto, assurdo e innaturale, di una contrapposizione tra spirito e materia,
tra uomo e natura, tra anima e corpo, che è pentrato in Europa dopo
il crollo del mondo dell’antichità classica e che ha raggiunto
il suo massimo sviluppo nel cristianesimo.[27]
C’è solo da domandarsi: quest’unità varrà anche tra uomo e animale? Data la scarsa sensibilità di Engels per questo tema, evidentemente no. Ma a questo punto sulla coerenza di questa testarda negazione engelsiana qualche dubbio è lecito averlo.
3.2 Quali sono le implicazioni della teoria di Marx
Per affrontare correttamente il problema dei rapporti tra animalismo e marxismo
non bisogna fermarsi alla superficie delle opinioni professate da Marx ed
Engels, ma occorre capire se e, soprattutto, in che modo esse si colleghino
organicamente con la loro teoria. A mio avviso è possibile dimostrare
che questo collegamento è invece labile e superficiale e che quindi
Marx ed Engels erano veramente vittima di un pregiudizio che le loro teorie
avevano, di fatto, già superato. Per fare ciò è, anzitutto,
necessario trattare della “continuità” tra uomo e animale
che essi professavano senza indugi. Anche Filippi vi si sofferma brevemente,
richiamando l’ammirazione di Marx per Darwin e il suo sostegno all’idea
di una continuità evolutiva tra le specie.
Se accettiamo questa linea di continuità tra mondo animale umano e non-umano (e, per un comunista genuino, non dovrebbero esserci motivi perché non sia così), dovremmo iniziare a basare i nostri principi etici non su differenze effimere (quali il colore della pelle, il numero di zampe, la capacità di parlare l’inglese o quella di trovare tartufi), ma l’essere tutti, umani e non-umani, viventi e senzienti. [28]
Ora, a parte la critica già vista ai “principi etici”,
occorre dire che nel marxismo la differenza che si stabilisce tra uomo e animale
non è effimera ma sostanziale. L’uomo, è infatti definibile,
marxianamente, non semplicemente come “altro” dall’animale,
ma come divenire altro da esso, come uscita dalla condizione animale.[29]
Tale uscita si compie appunto nella storia e la storia stessa ne è
la gestazione incompiuta. All’origine di questo movimento di uscita
dall’animalità sta la capacità di compiere lavoro socialmente
produttivo, una capacità che – a partire dall’abilità
mostrata dall’homo sapiens nel creare e maneggiare strumenti –
rende possibile, come si è visto, uno sfruttamento e una modificazione
radicale dell’ambiente circostante.
L’animale non rientra nella critica dell’economia politica che
in modo secondario, nella misura in cui l’uomo si è da sempre
servito di altri animali come fattori produttivi. Nella sua storia, l’uomo
ha utilizzato – e continua ad utilizzare – l’animale:
(a) come mezzo di sostentamento
(b) come forza-lavoro
(c) come bene di consumo
infine, in tempi recenti,
(d) come cavia da laboratorio per la ricerca biomedica
In tutti questi casi, ma non senza ambiguità, si tratta di considerare
in che modo l’animale divenga un elemento della produzione. Ora, stando
alla teoria, Marx ed Engels consideravano questi usi dell’animale una
necessità storica. È di vitale importanza capire in che senso
qui si parli di necessità, perché proprio su questo punto si
gioca la possibilità di un avvicinamento di prospettive tra l’animalismo
radicale e il marxismo. Questa necessità è intesa da Marx ed
Engels in un senso strettamente logico e avalutativo, coerentemente con l’impostazione
anti-etica che abbiamo già esposto. Logico: perché non ha senso
giudicare a ritroso la convenienza o meno di pratiche che sono la condizione
di possibilità della nostra esistenza attuale. Avalutativo: non solo
perché l’umanità è sempre stata spinta dalla necessità
(penuria di mezzi fisici e spirituali, scarsità di risorse etc.), ma
i singoli hanno sempre trovato di fronte a sé un collettivo già
operante cui adeguarsi, pena l’esclusione o la morte. La brutale lotta
per l’esistenza cui l’umanità ha preso parte come soggetto
collettivo e individuale, non lascia spazio a facili condanne morali a posteriori.
Su questo punto Marx ed Engels sono coerenti fino in fondo; l’animalista
che si sentisse offeso dalla loro “insensibilità” nei confronti
della violenza umana sugli animali, dovrebbe riflettere che per entrambi anche
la schiavitù umana obbediva allo stesso tipo di necessità.[30]
Ciò non significa, ovviamente, che non considerassero la schiavitù
un male e qualcosa da abolire; semplicemente però sapevano che la richiesta
generalizzata dell’abolizione della schiavitù fu resa possibile
– e, dunque, “eticamente” necessaria – solo dal superamento
delle condizioni economiche che ne avevano imposto la diffusione. Lo stesso
capitalismo (che, come si sa, non era loro particolarmente simpatico) non
è condannato in quanto aberrazione morale, ma come sistema di produzione
la cui necessità storica è oggettivamente venuta meno. Il singolo
capitalista non è colpevole in quanto agente morale, anzi non è
colpevole affatto.[31] Semplicemente obbedisce a meccanismi sociali che riproduce
inconsapevolemente con la sua stessa esistenza in quanto elemento della produzione.
Non avrebbe alcun senso chiedergli di essere “più buono”
e di non sfruttare gli operai, perché questo vorrebbe soltanto dire
scomparire in quanto capitalista.
Quando Marx ed Engels parlano di necessità storica parlano sempre di
una necessità che, in quanto storica, può essere superata da
successivi sviluppi. Tale necessità è già superata e
superabile in linea di prinicpio sia nei casi (b) che (c). L’utilizzo
dell’animale come forza-lavoro (b) che è di natura puramente
meccanica, motrice – si distingue cioè dalla forza-lavoro qualificata
che è appannaggio della mano umana[32] – è stato infatti
progressivamente sostituto dall’uso delle macchine.[33] L’utilizzo
come bene di consumo (vestiario, divertimento etc.) è, invece, del
tutto accidentale e secondario, soggetto alle fluttuazioni storiche più
diverse. Essendo legato ad un epifenomeno della produzione, nulla osta dal
punto di vista marxista alla sostituzione dei prodotti di origine animale
con prodotti sintetici.
Per quanto riguarda l’alimentazione carnea e la sperimentazione su animali
il discorso è solo apparentemente più complesso. Anche qui l’animale
è considerato un elemento della produzione, ma in modo più astratto
e generale, tanto da suggerire – a prima vista – che questi tipi
di utilizzo da parte dell’uomo non possano essere superati. Marx scrive
infatti che il consumo diretto come mezzo di sostentamento (a) “appare
come parte integrante del fondo originario di produzione”.[34] Ma questo
fondo originario comprende tanto gli animali quanto, soprattutto, i prodotti
dell’agricoltura. L’esistenza di popoli dediti esclusivamente
all’alimentazione vegetariana rende però la necessità
di considerare gli animali parte di questo fondo produttivo del tutto priva
di fondamento. Allo stesso modo nel caso della sperimentazione (d) l’animale
non rientra nella produzione che in forma molto mediata ed indiretta, come
presunta condizione di ripristino delle forze produttive umane. Eppure, società
millenarie sono esistite senza praticare la sperimentazione animale e nulla
impedirebbe ad una società comunista di abolire i test sugli animali
in favore di metodi sperimentali alternativi. È vero che entrambe queste
pratiche vengono giustificate, soprattutto da Engels, con argomentazioni “scientifiche”,
prima ancora che economiche, tuttavia si tratta di argomenti che la ricerca
scientifica posteriore ha definitivamente confutato e che lo stesso Engels
oggi non farebbe fatica ad abbandonare. Non è quindi dal punto di scientistico
e positivistico della Dialettica della natura che un marxista può oggi
affermare la necessità dell’alimentazione carnea e della vivisezione.
Private della loro aurea di “scientificità”, queste pratiche
sono soggette, come le altre, al giudizio dell’evoluzione storica. Come
era insensato, per Marx ed Engels, servirsi ancora di animali (o umani) come
forza motrice quando la macchina a vapore ne sostitusice e perfeziona il lavoro,
lo stesso può dirsi dell’alimentazione carnea. A ben vedere,
le argomentazioni “scientifiche” che Engels propone a giustificazione
del passaggio dell’uomo primitivo all’alimentazione carnea, anche
quando fossero corrette, non implicherebbero che questa necessità debba
proseguire anche in futuro. Anzi, stando all’argomentazione engelsiana
è vero il contrario.[35] Scomparendo la necessità storica della
lotta per la sopravvivenza, un’umanità liberata potrebbe tranquillamente
tornare ad un’alimentazione vegetariana.
3.3 Il vero problema: l’alienazione animale
Ciò che costituisce una difficoltà nello stabilire una connessione
tra marxismo e l’animalismo, dunque, non è tanto che lo sfruttamento
animale venga considerato una necessità storica (poiché ciò
investe, come detto, anche lo sfruttamento umano e perché si tratta
di una necessità temporanea che il progresso sociale può rendere
e ha già in parte reso obsoleta). Il problema è che l’animale
entra nella produzione della società umana solo come elemento esterno
e passivo. Non “partecipa” in nessun modo alla sua costruzione
attiva, e perciò, dice Marx, nemmeno alla sua comprensione strutturale
o alla definizione delle sue categorie. Così, scrive Marx, la “signoria”
in quanto rapporto sociale che implica l’appropriazione di mezzi di
produzione, cioè della condizione sociale per la riproduzione della
vita, si esercita sugli uomini e non sugli animali. “Nei confronti degli
animali, della terra, ecc. non può esistere au fond nessun rapporto
di signoria attraverso l’appropriazione, sebbene l’animale serva.
L’appropriazione di una volontà estranea è presupposto
del rapporto di signoria. Chi non ha volontà dunque, come l’animale
ad es., può bensì servire, ma non fa di colui il quale se ne
appropria un signore”.[36] Anche qui, ribadiamo, non si tratta di negare
la volontà in generale degli animali ma che questa volontà divenga
momento della volontà sociale. La volontà dello schiavo –
o, meglio, la sua remissione della propria volontà – è
invece momento integrante della produzione sociale dell’antichità
e costituisce anche la base del suo possibile rovesciamento. I mezzi di produzione
“costituiscono il necessario fermento dello sviluppo e della decadenza
di tutti i rapporti originari di proprietà e produzione, come pure
ne esprimono la limitatezza”.[37] Da ciò consegue che solo l’uomo
come specie può asservire la natura e gli altri esseri viventi, ma
che tale asservimento “specistico” presuppone sempre l’asservimento
“sociale” dei propri simili. Il dominio sulla natura va pensato,
perciò, come conseguenza di una gerarchia sociale già sviluppata.
La lezione di metodo marxiana è fondamentale su questo punto per far
uscire l’animalismo da una concezione astratta, astorica, “etologica”
del rapporto uomo-animale. Tutto ciò che l’uomo fa alle altre
specie lo fa non come rappresentante di una specie, ma come collettivo sociale:
“è invero molto semplice raffigurarsi che un uomo potente, dotato
di una forza superiore, dopo avere in un primo momento catturato gli animali,
catturi quindi gli uomini, per far loro catturare gli animali; in una parola
si serva parimenti dell’uomo come di una condizione naturale preesistente
per la sua riproduzione (sicché il suo proprio lavoro si risolve in
dominio, ecc.) come di qualsiasi altro essere naturale. Ma una simile opinione
è assurda – per quanto possa esser giusta dal punto di vista
di certe organizzazioni tribali o collettività – in quanto essa
parte dallo sviluppo di uomini isolati”.[38] Il contraltare della natura
necessariamente collettiva della signoria è che solo l’umanità
può rovesciare il dominio che essa stessa ha imposto a se stessa e
alla natura.
Mi pare che gli espliciti argomenti di Marx ed Engels contro l’animalismo
dell’epoca siano legati agli aspetti più caduchi e “storicizzabili”
delle loro opere (e probabilmente anche alle forme in cui l’Animal Rights
Movement si presentava allora), e non richiedono una revisione radicale della
loro concezione materialistica della storia.[39] Il problema vero, strutturale,
è che per essi il lavoro animale non produce alienazione. Perché
ciò fosse possibile l’animale dovrebbe essere considerato –
almeno in potenza – anche parte attiva del processo di produzione e,
quindi, anche suo beneficiario. Ciò è indicativo del fatto che
nella prospettiva storico-evolutiva in cui Marx considera l’uomo, il
rapporto con l’animale sia sempre definito dalla bruta violenza. Qui
sorge il circolo vizioso che Stzybel ha intravisto ma non è riuscito
a definire; non che all’uomo sia riconosciuto un semplice privilegio
specistico sugli animali, ma che il suo “divenire uomo” nella
società comunista, il suo abbandonare la lotta naturale per l’esistenza,
non implichi anche la cessazione della lotta contro gli animali. L’uomo
si comporta nei confronti degli altri animali sempre come un animale e mai
come uomo, nel senso cioè di estendere ad essi le aspettative di liberazione
e giustizia che vede sorgere in seno alla sua società. D’altronde,
se la schiavitù dell’uomo può essere considerata un passaggio
inevitabile nella costruzione di una società di liberi e uguali, lo
stesso potrebbe dirsi di quella animale: l’uomo è quell’animale
che attraverso la lotta con altri animali impara a sottrarsi ad essa. Ma in
Marx questo passaggio non è posto in modo esplicito e nulla sembra
preannunciare che l’uomo liberato dal bisogno potrà mollare la
morsa sugli animali che è nata e si è sviluppata proprio nell’epoca
del suo bisogno impellente di sopravvivere in un ambiente ostile.[40] Nemmeno
il fatto che gli animali domestici siano “malgré eux prodotti
di un processo storico”[41] che ha visto trasformati radicalmente i
loro bisogni, il loro ambiente e le loro abitudini ha mai implicato per Marx
ed Engels una qualche forma di continuità relazionale interspecifica.
4. L’apporto della Scuola di Francoforte al marxismo
Perché il collegamento tra lotta socialista e difesa degli animali possa dirsi organico e non accidentale e superficiale, occorre allora riprendere e approfondire lo spunto dell’articolo di Filippi. Ma occorre rendererlo più determinato e preciso, muovere quindi al confronto a partire da una concettualità marxista. Filippi fa un passo decisivo in questa direzione quando allarga la questione che dà il titolo al suo articolo (“può un non vegetariano dirsi comunista?”) formulandola in quest’altro modo: “è possibile ancora oggi non riconoscere che lo sfruttamento degli animali è la premessa e la giustificazione logica dello sfruttamento umano?”[42] Ora, da nessuna parte Filippi mostra in che senso lo sfruttamento animale è “premessa” e “giustificazione logica” di quello umano. Eppure la sua intuizione è giusta.[43] Occorrerebbe mostrare che la violenza sull’animale ha la stessa radice della violenza sull’uomo. Questa radice, come risulta dalle analisi della Scuola di Francoforte citate da Filippi, è il disprezzo di sé in quanto animale. Questo è il senso della frase di Adorno citata da Filippi:
Adorno afferma che “Auschwitz inizia quando si guarda ad un macello e si pensa: sono solo animali”. Con questo, Adorno intendeva dire che il mantener fuori dalla sfera della considerazione etica un’intera classe di esseri senzienti, fornisce non solo la giustificazione etica per le nostre pratiche infernali di trattamento degli animali, ma anche la possibilità ideologica di equiparare dei gruppi umani “indesiderati” agli animali stessi.[44]
Anche qui va però ribadito che la frase di Adorno si riferisce non
alla semplice convinzione etica dei soggetti – cosa che dopo Freud può
tranquillamente definirsi un fenemeno di superificie – quanto ad un
fatto che attiene alla struttura stessa della coscienza umana. Che questa
si percepisca come qualcosa d’altro dall’animale è, infatti,
ciò che deve essere compreso per poter essere cambiato e per fare ciò
non basta la semplice indignazione morale.
Uno dei punti di merito della scuola di Francoforte sta proprio nell’aver
ampliato la concettualità del marxismo fino ad abbracciare il passaggio
evolutivo-storico dall’animale all’uomo. Nella Dialettica dell’illuminismo,
pubblicata da Adorno ed Horkheimer nel 1947 si legge: “L’idea
dell’uomo, nella storia europea, trova espressione nella distinzione
dall’animale. Con l’irragionevolezza dell’animale si dimostra
la dignità dell’uomo. Questa antitesi è stata predicata
con tale costanza e unanimità da tutti gli antenati del pensiero borghese
– antichi ebrei, stoici e padri della Chiesa – e poi attraverso
il Medioevo e l’età moderna, che appartiene ormai, come poche
altre idee, al fondo inalienabile dell’antropologia occidentale”.[45]
Ma la persistenza di questo pregiudizio, la sua continuità attravreso
le epoche, non costituisce certo una spiegazione ed è ciò che
va semmai spiegato. Adorno ed Horkheimer sottolineano come occorra indagare
proprio il distaccarsi dell’uomo dalla sua originaria coscienza animale
o meglio il sorgere della sua coscienza umana in quanto distinta da quella
animale. Non ha senso rappresentarsi la coscienza umana come qualcosa di già
pronto e fatto dall’alba dei tempi (ovviamente qualora si accetti l’origine
naturale di essa); occorre spiegare in che modo sorga e si imponga, invece,
come “ovvia” e “naturale” la scissione che essa porta
al suo interno, il suo contrapporsi al resto del vivente pur essendo parte
di esso.
Questo passaggio non è ovviamente indagabile in forma analitica, poiché
affonda le proprie radici nella più buia preistoria. Ciò che
noi possiamo constatare a posteriori, però, è che l’esercizio
millenario del dominio dell’uomo sulla natura ha prodotto e accresciuto
questa scissione che è sempre tornata a vantaggio del dominio stesso.
“Gli uomini pagano l’accrescimento del loro potere con l’estraniazione
da ciò su cui lo esercitano”.[46] Il dominio che l’uomo
esercita sulla natura, in altri termini, appare contemporanemente come causa
ed effetto del suo estraniamento da essa.
Soltanto una concettualità scientifica allergica alla lezione marxiana
potrebbe però definire questo un circolo vizioso. La sua circolarità
è la stessa che regola il ricambio tra individuo e società.
Il sorgere della coscienza umana nel senso ora descritto, infatti, non può
spiegarsi in termini antropologici o biologici – cioè come qualcosa
che attenga all’uomo in quanto essere naturale, alla sua costituizone
individuale-specifica – bensì intermini socio-economici. È
qui che occorre trovare l’origine di quel dominio progressivo e inarrestabile
che l’umanità esercita sulla natura, un dominio che coincide
quasi totalmente con la sua storia[47] e non è certo “deducibile”
dalla sua costituzione fisica.
Il desiderio insaziabile dell’uomo di estendere il suo potere in due infiniti, il microcosmo e l’universo, non ha radici nella sua natura bensì nella struttura della società. Come gli attacchi delle nazioni imperialistiche al resto del mondo si spiegano con le loro lotte intestine più che nei termini del loro cosiddetto carattere nazionale, così l’attacco della razza umana a tutto ciò ch’essa considera diverso da sé si spiega con i rapporti fra gli uomini più che con le innate qualità umane.[48]
Tali rapporti sono, come Marx ed Engels non si sono stancati di ricordare,
conflittuali e determinano non solo la produzione materiale della società
ma anche quella spirituale, condizionandone lo sviluppo successivo. È
quindi attraverso l’organizzazione sociale che la coscienza “umana”
sorge e si stabilisce come qualcosa di rigido e contrapposto alla natura.
Anzitutto perché l’elevazione e il perfezionamento dello spirito
umano è possibile solo laddove esiste il privilegio dell’esclusione
dal lavoro materiale.[49] In secondo luogo perché, dato il suo rapporto
di dipendenza dalla società, il singolo possiede l’immagine di
sé che questa elabora e diffonde attraverso il proprio sviluppo economico
ed ideologico. “Nel dominio sulla natura è incluso il dominio
sull’uomo. Ogni soggetto non solo deve cooperare con gli altri per soggiogare
la natura esterna, umana e non umana, ma per fare questo deve soggiogare la
natura dentro di sé”.[50] L’uomo interiorizza perciò
come singolo il dominio che esercita sulla natura esterna come specie, imparando
a domare l’animale che egli stesso è.
L’uscita dell’uomo dall’animalità diviene un presupposto
dell’esistenza stessa della società a cui nessun individuo può
sottrarsi. La sua imposizione all’individuo diviene una costante necessità
sociale, poiché minaccia lo stadio di sviluppo cui la società
di volta in volta è giunta.
L’esistenza naturale, animale e vegetativa, era per la civiltà l’assoluto pericolo…Il ricordo vivo della preistoria, già delle fasi nomadi, e tanto più delle fasi propriamente prepatriarcali, è stato estirpato dalla coscienza degli uomini, in tutti i millenni, con le pene più tremende…L’umanità ha dovuto sottoporsi a un trattamento spaventoso, perché nascesse e si consolidasse il Sé, il carattere identico, pratico, virile dell’uomo, e qualcosa di tutto ciò si ripete in ogni infanzia.[51]
L’autoconservazione della specie attraverso l’individuo trapassa,
per mezzo dell’organizzazione sociale, nell’autoconservazione
del collettivo, il quale asserve a sé il destino dei singoli individui.
Su questa impotenza dell’individuo sorvolano immancabilmente tutte le
teorie morali. Esse dimenticano che la divisione del lavoro, il sorgere di
funzioni dirigenti e caste sacerdotali (“i primi rudimenti della forza
dello Stato”[52]) trasformano gradatamente l’organizzazione della
società in un essere super-individuale, qualcosa che si contrappone
agli individui e, al tempo stesso, li struttura dall’interno secondo
i propri bisogni. “Ciò che tutti subiscono ad opera di pochi,
si compie sempre come sopraffazione di singoli da parte di molti: e l’oppressione
della società ha sempre anche il carattere di una oppressione da parte
del collettivo”.[53] L’inganno e l’ “accecamento”,
come lo chiamano Adorno ed Horkheimer, è di tutti e di nessuno.
Il dominio dell’uomo sulla natura non deve essere concepito come l’opera
di un essere innaturale, ciò che restaurerebbe l’opinione religiosa
sul carattere “trascendente” dell’essere umano. L’oppressione
che la società umana esercita sulla natura interna all’uomo non
meno che su quella esterna, si fonda infatti sull’illusione della separazione
ontologica tra spirito e natura. Ciò significa non solo che l’essere
“altro” della natura è solo un nome della sua degradazione,
ciò di cui lo spirito ha bisogno per potersi ergere sopra di essa,
ma che esso nasconde l’inganno di cui si nutre lo spirito umano inconciliato:
il suo perpetuare la violenta lotta intestina della natura. L’uomo non
fa altro che riprodurre a un livello più alto una violenza che esso
eredita dalla lotta naturale per l’esistenza.
Tutto il sofisticato meccanismo della società industriale moderna è solo natura che si dilania…La natura in sé non è buona, come voleva l’antico romanticismo, né nobile, come pretende il nuovo. Come modello e mèta, rappresenta l’antispirito, la menzogna e la bestialità; solo in quanto è conosciuta diventa l’impulso dell’esistente alla propria pace, la coscienza che ha animato, fin dall’inizio, la resistenza inflessibile contro i capi e il collettivo. Ciò che minaccia la prassi dominante e le sue alternative ineluttabili, non è certo la natura, con cui essa piuttosto coincide, ma che la natura venga ricordata.[54]
La consapevolezza materialistica che l’uomo sia, nonostante tutto,
ancora un animale è la precondizione di ogni uscita dallo stato di
barbarie in cui versa il pianeta. Questo stadio coinciderebbe per lui con
il suo divenire propriamente uomo, secondo la formulazione di Engels, e quindi
con l’abbandono della lotta per l’esistenza sia all’interno
della società umana che all’esterno: una possibilità che
lo sviluppo delle forze produttive ha oramai messo all’ordine del giorno.
Solo attraverso il ricordo della natura che esso stesso è, lo spirito
umano può risolvere gli antagonismi che lo dilaniano e che lo contrappongono
al resto del vivente. uQuesto “Nella coscienza che lo spirito ha di
sé come natura in sé scissa, è la natura che invoca se
stessa”.[55] Con buona pace dei sostenitori dell’estinzione umana
(i quali troveranno probabilmente in Matrix la propria Bibbia), l’avventura
storica dell’uomo è l’avventura stessa della natura che,
internamente lacerata, desidera uscire dalla propria condizione di violenza
e accedere ad uno stadio di pacificazione che solo l’uomo, con tutta
la brutalità di cui è stato capace da millenni, può garantirle.
La ragione umana non è solo lo strumento che freddamente pianifica
il massacro, ma anche l’arma di cui la sollecitudine verso i deboli
non può fare a meno. L’uomo ha certo dichiarato una guerra senza
pari ai suoi fratelli non umani e all’ambiente che lo circonda. Ma la
natura che invoca se stessa all’interno della sua coscienza pronuncia
tramite l’uomo anche una parola che prima non conosceva: pace.
5. Conclusione: può un animalista non essere comunista?
Il movimento per i diritti animali non sembra considerare una necessità
compiere uno sforzo (anche teorico) per l’unificazione della sua prospettiva
con quella del socialismo rivoluzionario. Esso è spesso anzi convinto
che l’idea di una società comunista (razionale, giusta, egualitaria
e democratica) non implichi la cessazione dello sfruttamento degli animali
né, tantomeno, il riconoscimento dei loro “diritti”. Nella
misura in cui questa convinzione rispecchia concezioni molto diffuse nel marxismo
“ufficiale” essa è giusta e ho cercato di mostrare perché.
Ma ho anche mostrato come il marxismo, correttamente inteso e sviluppato nella
propria concettualità, superi questo limite e si spinga a realizzare
un ordine sociale in cui la lotta contro il mondo animale cessi definitivamente.
Una volta cessati gli antagonismi economici interni alla società umana
che spingono questa ad un’accelerazione costante della capacità
produttiva, ad una corsa folle verso uno status di benessere sempre procrastinato,
la riduzione generale dell’orario di lavoro e l’allentamento della
pressione sociale sui singoli aprirebbe le porte anche ad un rapporto più
sano ed equilibrato con sé e con l’ambiente circostante. Ciò
non implicherebbe ancora la diffusione generalizzata del vegetarismo e la
cessazione della sperimentazione animale, ma la fine delle diseguaglianze
distributive e la conseguente razionalizzazione nell’uso delle risorse
porrebbe fine almeno all’allevamento intensivo come lo conosciamo e
alla perversione “commerciale” che domina e distorce la ricerca
scientifica. Infine, uno stato di cose in cui la propaganda capitalistica
ha cessato di dominare l’orizzonte dei media costituirebbe terreno fertile
per una presa di coscienza animalista anche più avanzata.
La questione è ora se l’animalismo è pronto a ripensare
la propria concettualità e i propri mezzi moralistici di difesa degli
animali per assumere una dimensione propriamente politica. Il sostenitore
dei diritti animali dovrebbe cioè rispondere alla domanda: è
possibile pensare una società emancipata dalla violenza sugli animali
che non abbia posto fine anche alla violenza dell’uomo sull’uomo?
A questa domanda ho risposto negativamente cercando di delineare una visione
teorica che accomuni animalismo e marxismo. Intendo ora sostenere che la lotta
per i diritti animali, al di fuori di questa prospettiva unificante, è
illusoria.
Mi interessa qui, ovviamente, solo l’animalismo “radicale”,
l’unico che possegga i requisiti per un aggancio con la prospettiva
marxista. Di fronte alla sofferenza inaudita, insensata, cieca e muta di miliardi
di animali appare infatti ragionevole e nient’affatto “estremista”,
la richiesta di un cambiamento immediato delle loro condizioni. Il problema
è come si intende questo cambiamento. Una volta posti di fronte alle
molteplici forme di sfruttamento e distruzione della vita animale, che hanno
origini storiche e funzioni sociali diverse, il modo più diretto e
semplice di dare unità alla richiesta di una loro cessazione immediata
è quello della richiesta di diritti. Questa è anche la forma
generale assunta dal movimento in difesa degli animali, in base all’assunto:
riconoscimento di diritti = protezione. Vorrei accennare ad alcuni problemi
che sorgono da questo assunto.
Anzitutto, il diritto costituisce un modo astratto e unilaterale di unificazione
delle diverse problematiche animaliste e non tiene conto delle molteplici
forme in cui il rapporto uomo-animale si è articolato storicamente
e socialmente. Questo rapporto varia talmente da questo punto di vista da
non poter essere ricondotto a definizioni astratte e universali. L’uomo
riesce a nutrirsi di formiche, serpenti e cani, e non solo di maiali, polli
e vitelli. L’uomo ha considerato sacri gatti e mucche, prima di trasformarli
in schiavi da compagnia e mocassini. Se si prescinde allora dai casi particolari
storici e geografici in cui determinati animali hanno rivestito una qualche
utilità per l'uomo – se si sostituisce, cioè, a “serpente”,
a “cane”, a “vitello” un essere universale indeterminato
chiamato “animale” – scompaiono anche i motivi concreti
che “giustificano” il rapporto tra uomo e animale (nutrizione,
abbigliamento, superstizione etc.). La richiesta generalizzata di diritti
per gli animali non si articola in una serie di comportamenti positivi degli
uomini verso di essi (poiché essi non entreranno a far parte automaticamente
della società umana e non si vedranno automaticamente estesi tutti
i diritti che spettano agli umani), ma è la semplice negazione del
trattamento che noi riserviamo loro oggi. L’unità giuridica sotto
cui l’animalismo sussume gli obblighi nei confronti degli animali è
un’unità negativa[56] conseguente al fatto che gli animali, soggetti
passivi dell’ordinamento giuridico, devono divenirne soggetti attivi
senza potersi automaticamente identificare con gli attuali soggetti attivi
di esso (gli umani), problema che ovviamente non avevano gli abolitori della
schiavitù.
Ciò fa sorgere una riflessione. La tentazione giuridica dell’animalismo
non è probabilmente casuale. È infatti il trionfo di una forma
di vita storica specifica (eurocentrica, capitalistica e tecnologica) a dare
allo sfruttamento sugli animali un carattere universale e uniforme –
provocando in risposta l'animalismo come forma universale di difesa degli
animali. Ciò fa sì che il problema della violenza sugli animali
sia posto sub specie aeternitatis. Non a caso Singer scrive: “Focalizzo
il mio interesse sull’Occidente non perché le altre culture siano
inferiori (è vero il contrario per quel che riguarda l’atteggiamento
verso gli animali) ma perché durante i due o tre secoli passati le
idee occidentali si sono propagate partendo dall’Europa fino a che al
giorno d’oggi sono arrivate a costituire il modo di pensare della maggior
parte delle società umane, sia capitaliste che comuniste”.[57]
Il trattamento iper-efficientizzato e sistematico che il capitalismo[58] riserva
gli animali rende oggi talmente evidente la loro nullità di fronte
all’uomo da provocare in risposta la richiesta indignata del riconoscimento
di un loro valore intrinseco.
Benché però gli animali abbiano ora un rapporto distorto con
noi, improntato alla violenza e alla sopraffazione assoluta, si tratta pur
sempre di un rapporto reale. La richiesta di diritti ci costringe invece ad
articolare questo rapporto reale (che è di solito complesso sia nelle
motivazioni storiche e nelle concrete forme di manifestazione) nella forma
astratta del rapporto giuridico. L’idea che ci si fa del rapporto uomo-animale
in una società che riconosca diritti fondamentali agli animali non
umani è, di conseguenza, vago e nebuloso. E non potrebbe essere altrimenti.
In genere ci immagina che in un simile futuro “dovremmo lasciare in
pace gli animali”, lasciarli alla “loro” vita. In realtà
non si fa altro che immaginare la nostra società attuale senza gli
animali, quasi che sia possibile pensare già la semplice assenza di
questi ultimi dalle nostre città e il funzionamento delle nostre industrie
senza le materie prime che essi, purtroppo, sono. Difficile anche solo da
immaginare come potremmo spartire il pianeta con loro. Cosa quindi voglia
dire in concreto, cosa implichi questo “lasciare gli animali in pace”,
nessuno riesce a dirlo. Chi pensa così in realtà non fa altro
che sancire un non-rapporto tra uomini e animali.
Non è detto che il riconoscimento dello status giuridico di soggetto
all’animale sia qualcosa che si possa compiere all’interno degli
attuali ordinamenti legislativi. E non è ancora dato sapere quali modificazioni
questi sistemi costitutivamente antropocentrici dovranno subire per rendersi
omogenei e coerenti con l’insieme di norme che gli animalisti vorrebbero
introdurvi. Ma è abbastanza evidente che si tratta di un rivolgimento
radicale se non si lascia nemmeno immaginare nella sua portata (“il
suo successo esige nientemeno che una rivoluzione nel pensiero e nella prassi
della nostra cultura”[59]). Sia chiaro: questo non viene detto per “confutare”
la giustezza della pretesa di imporre quelle norme agli attuali ordinamenti.
Anzi, la radicalità con cui questa richiesta è avanzata costituisce
il suo principale punto di onore. Quanto detto finora vuole solo suggerire
l’oggettiva impraticabilità della via istituzionale al riconoscimento
di quei diritti.
Chi immagina che il cambiamento debba essere effettivamente profondo (“uguali
diritti per uomini e animali”) e non superficiale (“miglioramento
delle condizioni animali”) non può certo pensare che esso avvenga
dall’oggi al domani. E, infatti, il movimento per la difesa degli animali
si preoccupa, per lo più, di combattere una battaglia di lungo periodo
per il cambiamento delle coscienze. Ma tale obiettivo, più che far
presagire una rivoluzione, annuncia, evidentemente, un cambiamento epocale
(la “fine dello specismo”). La richiesta di “immediata”
cessazione della sofferenza si perde pertanto nelle nebbie di un futuro lontano,
assume tinte messianiche. E la cosa non cambia per chi si immagina un più
pragmatico cambiamento “graduale”, cioè di poter instaurare
l’uguaglianza giuridica tra uomo e animale attraverso piccoli aggiustamenti
del sistema: nessuna somma di aggiustamenti parziali potrà realizzare
l’uguaglianza giuridica se manca la norma fondamentale che esplicitamente
dà al precetto dell’eguaglianza valore normativo.
Ora, io ritengo che questa posizione si scontri contro un limite intrinseco
che rende non solo utopica la possibilità di un’abolizione graduale
dello sfruttamento animale, ma oggettivamente irrealizzabile se percorsa per
via legale. Questo limite è costitutivo di una richiesta di diritti
che tende, per sua natura, a sconquassare gli attuali ordinamenti giuridici.
Le difficoltà non sono soltanto di natura tecnica e formale o, meglio,
sono dovuti alla natura squisitamente tecnica e formale della scienza giuridica.
Il diritto è, di fatto, la formalizzazione e generalizzazione di comportamenti
sociali che la prassi ha già stabilito e sanzionato. La teoria dei
diritti animali passa sopra la vecchia, ma non per questo confutata, nozione
secondo cui il diritto è una sovrastruttura. Esso è l’espressione
di determinati rapporti di potere e di una ben precisa organizzazione economica.
Non è il diritto che può sovvertire questi ultimi, poiché
esso ne è, fino in fondo, creatura. È un segreto di pulcinella
il fatto che il riconoscimento dei diritti umani non abbia diminuito affatto
la violenza dell’uomo sull’uomo. E ciò non va inteso solo
nel senso banale che la sofferenza e l’oppressione umana è ancora
una realtà nonostante il diritto, di modo che un animalista potrebbe
obiettare: “il riconoscimento dei diritti animali è solo il primo
passo verso un’equità di trattamento reale”. Esso va inteso
nel senso che in nessun caso il riconoscimento del diritto è stato
la causa di una diminuzione generalizzata della sofferenza umana, poiché
il diritto non fa che confermare una situazione che la realtà sociale
ha già sancito nella prassi reale, in primis economica.
Tom Regan afferma che “non è in alcun modo possibile sostenere
la causa dei diritti degli animali senza sostenere la causa dei diritti degli
esseri umani”.[60] Ma il compito che si è prefisso in quanto
filosofo morale è quello di offrire una fondazione razionale di entrambi,
non certo di fare in modo che questi diritti vengano effettivamente applicati,
il che richiederebbe la rimozione delle cause che ne impediscono la realizzazione.
Regan è convinto che “la filosofia morale non è un surrogato
dell’azione politica. Tuttavia può contribuire ad orientarla”.[61]
Ciò può sembrare vero solo a chi ritiene vere queste condizioni:
1) che il progresso politico risulti da una discussione razionale in cui l’argomento
più convincente ha la meglio; 2) che la discussione sia effettivamente
libera e non venga manipolata. Nessuno di questi due presupposti mi sembra
anche solo vagamente verosimile. Regan afferma che le questioni che stanno
a cuore al movimento per i diritti animali “sono tutte questioni, in
larga misura, politiche”.[62] Subito dopo, però, specifica: “la
gente deve cambiare le sue convinzioni prima di cambiare le sue abitudini”.[63]
E questa è la precisa descrizione di una politica borghese, legalistica,
che mai e poi mai potrà superare i limiti che il capitalismo impone
al diritto. Credere che il cambiamento reale consegua ad un cambiamento delle
coscienze è ingenuo e, alla fine, controproducente.
L’opinione di Singer sulla funzione politica dell’animalismo è
formulata diversamente ma è in fondo la medesima di Regan: “Il
problema non è tanto quello di trasformare l’opinione della gente.
C’è piuttosto da disperdere una gran quantità di ignoranza,
ma, una volta che la gente verrà a sapere come vanno le cose, con ogni
probabilità disapproverà, e lo farà energicamente”.[64]
Le proposte politiche di Singer sono infatti le stesse di Regan e non portano
molto lontano. Dopo aver suggerito metodi di protesta e boicottaggio e tentativi
di soluzione come l’instaurazione di una commissione scientifica “imparziale”
che decida dell’utilizzo di fondi nella ricerca scientifica (cosa che
in realtà presuppone già una vittoria politica dell’animalismo),
Singer ammette: “ma il problema più grande rimane lo specismo;
finché non lo si estirpa, neanche il resto può essere risolto”.[65]
Qui si instaura evidentemente una circolarità tra diagnosi e cura che
è il vero punto debole dell’animalismo etico: dalla sofferenza
animale si deduce lo specismo e lo specismo è posto al di sopra della
storia come la causa della sofferenza animale[66]; di conseguenza, diminuire
la sofferenza animale significa contrastare lo specismo ma, a sua volta, la
riduzione della sofferenza è possibile solo a partire da un arretramento
della coscienza specista dell’uomo.
Ma la verità è che i nostri attuali ordinamenti giuridici non
verranno sovvertiti finché non verrà abbattuto il capitalismo.
Ora, è possibile pensare che il capitalismo ponga fine alla sofferenza
degli animali, che si ristrutturi attorno alle richieste degli animalisti,
senza porre fine a sé stesso? In tal caso sarebbe possibile pensare
ad una cessazione della violenza sugli animali senza che sia posto fine alla
violenza sull’uomo. Nel caso in cui si pensi, invece, che il riconoscimento
dei diritti animali implichi il rovesciamento del capitalismo, occorrerebbe
spiegare in che modo questo rivolgimento possa accadere. Riesce infatti difficile
immaginarsi che ciò che scioperi generali e manifestazioni imponenti
in tutto il mondo non hanno potuto, lo possano petizioni e boicottaggi. Occorre
rovesciare la questione e rendersi conto che l’abbattimento del capitalismo
e l’instaurazione di un’organizzazione sociale più equa
e giusta è la conditio sine qua non di ogni diminuzione generalizzata
dello sfruttamento animale. E questo perché un cambiamento di coscienza
è possibile solo laddove la base reale dell’esistenza dei singoli
è cambiata.
Da questo punto di vista, il marxismo esprime in sé l’ideale
di un superamento della scissione e della contrapposizione uomo-natura, in
una forma generale che può ospitare sia le aspirazioni della coscienza
animalista, sia quelle della coscienza ecologista.[67] Queste, in un certo
senso, anticipano il momento della sua realizzazione ma non possono, da sole,
compierlo perché è ormai chiaro che l’anarchia e la violenza
del capitalismo non si lasciano imbrigliare e condurre né da visioni
apocalittiche, né, tantomeno, da discorsi moraleggianti. Se si pensa
che la cessazione immediata della sofferenza umana e animale “è
possibile ora” e ci si rifiuta di concedere altro tempo al sistema dello
sterminio attraverso l’attendismo giuridico, non resta che una strada
da percorrere. Tale strada conduce inevitabilmente e coerentemente alla rivoluzione
politica.
Note
[1] M. Filippi, “Può un non vegetariano dirsi comunista?”, da Rinascita Animalista. Officina della theoria, 25/01/03, disponibile su http://www.liberazioni.org/ra/ra/officina004.html)
[2] In realtà si tratta di una mera rivendicazione sindacale e, quindi, nient’affatto marxista: “nell’ottica del miglior profitto, i lavoratori dei macelli sono tra i lavoratori peggio pagati, con minore tutela sindacale e con il maggior tasso di incidenti gravi sul lavoro. I lavoratori delle grandi catene distributive non stanno meglio (i loro contratti lavorativi sono tipicamente flessibili e limitati nel tempo). Vista la scarsa specializzazione richiesta, questa tipologia di lavoratori è reclutata tra gli emigrati di recente arrivo, per definizione, privi di diritti, e spesso anche incapaci di parlare la lingua del paese ‘ospitante’.” M. Filippi, “Può un non vegetariano dirsi comunista?”, cit.
[3] D. Sztybel, “Marxism and Animal Rights”, in Ethics and the Environment 2 (1997), pp. 169-85 (disponibile su http://sztybel.tripod.com/Marxism.html).
[4] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 19682, p. 111.
[5] D. Sztybel, “Marxism and Animal Rights”, cit.
[6] K. Marx, Manoscritti, cit., p. 185.
[7] D. Sztybel, “Marxism and Animal Rights”, cit.
[8] K. Marx, Manoscritti, cit., p. 77.
[9] Sztybel è così lontano dal marxismo che per lui il fatto che l’appropriazione della natura da parte dell’uomo costituisca un fatto sociale è una mera tautologia. Sztybel cita Marx: “l’essenza umana della natura esiste soltanto per l’uomo sociale: infatti soltanto qui la natura esiste per l’uomo come vincolo con l’uomo, come esistenza di lui per l’altro e dell’altro per lui, e così pure come elemento vitale della realtà umana, soltanto qui essa esiste come fondamento della sua propria esistenza umana” (K. Marx, Manoscritti, cit., p. 113). E poi gli attribuisce un circolo vizioso, commentando: “[Marx] tenta di mostrare che il significato umano della natura esiste solo per l’uomo sociale e i suoi motivi per affermare questo è che solo nel caso dell’uomo sociale c’è, in effetti, un vincolo di interdipendenza con altri uomini”. Sztybel non capisce che l’affermazione gli appare circolare solo perché ha cancellato il riferimento al lavoro, che per Marx è la forma base e ineliminabile del rapporto tra l’uomo e la natura, del loro continuo scambio. Questa interdipendenza tra uomo e natura si mostra però sempre come socialmente determinata, legata cioè non alla vaga “interdipendenza” tra uomo e uomo, ma alla specifica organizzazione sociale, ovvero ai rapporti di produzione dominanti.
[10] D. Sztybel, “Marxism and Animal Rights”, cit.
[11] La citazione prosegue così: “affermiamo per contro, che ogni teoria morale sinora esistita è, in ultima analisi, il risultato della condizione economica della società di quel tempo”. F. Engels, Anti-Dühring, Editori riuniti, Roma 19712, p. 100. È chiaro che questa conclusione deve essere apparsa incomprensibile Sztybel.
[12] Si badi che il marxismo non assume per questo una teoria morale relativistica, ma si pensa come movimento teorico e politico che spiega l’origine delle morali universalistiche e astoriche, propondone il superamento pratico attraverso la modificazione della realtà storica. Ciò non implica che Marx ed Engels non agissero in base a un qualche orientamento morale, ma si tratta di tendenze personali che non entrano nella definizione della teoria che essi hanno elaborato.
[13] Si tratta di ripicche vacue e tautologiche, perché Szytbel non fa altro che accusare di “specismo” ogni definizione marxiana volta alla determinazione della specificità umana, partendo dall’arbitrario assunto che tale definizione serva da appoggio ad una teoria morale antropocentrica.
[14] Nella Dialettica della natura, d’altronde, Engels ammette esplicitamente che tutte le qualità che sono proprie dell’uomo si ritrovano entro un certo grado anche negli animali: autocoscienza, linguaggio, intelligenza, capacità di agire secondo un fine etc. Cfr. F. Engels, Dialettica della natura, Editori riuniti, Roma 19784, pp. 183 e sgg. In quanto essere “naturale” l’uomo non possiede caratteristiche soprannaturali che lo distinguono dagli animali. È il lavoro e il fatto che attraverso il lavoro egli faccia la propria storia che mostra la differenza essenziale, la qualità emergente, rispetto agli altri animali da cui occorre partire per definirne la natura.
[15] K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori riuniti, Roma 20005, p. 8.
[16] “In questo modo, in un certo senso, l’uomo si separa definitivamente dal regno degli animali e passa da condizioni di esistenza animali a condizioni di esistenza effettivamente umane”. F. Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, Laboratorio politico, Napoli 1992, p. 93.
[17] D. Sztybel, “Marxism and Animal Rights”, cit.
[18] “La sporcizia, questo impantanarsi e putrefarsi dell’uomo, la fogna (in senso letterale) della civiltà, diventa per l’operaio un elemento vitale. Diventa un suo elemento vitale, il completo e innaturale abbandono, la natura putrefatta. Nessuno dei suoi sensi esiste più, non solo nella sua forma umana, ma anche in una forma disumana, e quindi neppure in una forma animalesca. […] L’uomo non solo non ha più bisogni umani; ma in lui anche i bisogni animali vengono meno. L’irlandese conosce soltanto più il bisogno di mangiare, o meglio soltanto più il bisogno di mangiare le patate, o meglio ancora soltanto più il bisogno di mangiare le patate della qualità più scadente.”. K. Marx, Manoscritti, cit., p. 129.
[19] “La possibilità di assicurare, per mezzo della produzione sociale, a tutti i membri della collettività una esistenza che non solo sia completamente sufficiente dal punto di vista materiale e diventi ogni giorno più ricca, ma che garantisca loro lo sviluppo e l’esercizio completamente liberi delle loro facoltà fisiche e spirituali: questa possibilità esiste ora per la prima volta, ma esiste”. F. Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, cit., pp. 92-93.
[20] “L’idea che tutti gli uomini hanno qualche cosa di comune e che essi sono anche eguali nei limiti di questo elemento comune, è ovviamente antichissima. Ma assolutamente diversa da tutto questo è la moderna rivendicazione dell’eguaglianza; questa consiste invece nel dedurre da quella proprietà comune dell’essere umano, da quell’eguaglianza degli uomini in quanto uomini, il diritto ad un eguale valore politico e, rispettivamente, sociale…Prima che da quella originaria idea di una eguaglianza relativa si sia potuta trarre la conclusione di un’eguaglianza di diritti nello Stato e nella società, prima ancora che questa conclusione sia potuta apparire qualcosa di naturale e ovvio, dovevano passare millenni, e millenni sono passati”. F. Engels, Anti-Dühring, cit., p. 109.
[21] K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca, cit., p. 25.
[22] Ibid., p. 24.
[23] All’aumentare del salario “l’operaio mangia più carne. Soddisfa più bisogni”. K. Marx, Storia dell’economia politica. Teorie sul plusvalore II, Editori riuniti, Roma 19932, pp. 4-5. Cfr. anche, in generale, F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, Editori riuniti, Roma 19784.
[24] “Col permesso dei signori vegetariani, l’uomo non si sarebbe formato senza alimentazione carnea; e se è pur vero che l’alimentazione carnea ha prima o poi, per un certo periodo, condotto tutti i popoli a noi conosciuti all’antropofagia (gli antenati dei berlinesi, i Veletabi o Velsi, mangiavano i loro genitori ancora nel X secolo) la cosa ormai non ci tocca più”. F. Engels, Dialettica della natura, cit., p. 189.
[25] “Da quando sto qui ho cominciato a prendere The Daily News invece dello Standard. È anche più stupido, se è possibile. Predica l’antivivisezionismo!” Lettera di Engels a Marx, Bridlington Quay, Yorkshire, 11 agosto1881. Cfr. anche la lettera di Engels a Bebel, Londra, 24 novembre 1879.
[26] F. Engels, Sulle origini del cristianesimo, Editori riuniti, Roma 20004, pp. 24-25.
[27] F. Engels, Dialettica della natura, cit., p. 192.
[28] M. Filippi, “Può un non vegetariano dirsi comunista?”, cit.
[29] “Gli uomini, appena nelle origini emergono dal mondo animale (in senso stretto), fanno il loro ingresso nella storia”. F. Engels, Dialettica della natura, cit., p. 190.
[30] “Solo la schiavitù rese possibile che la divisione del lavoro tra agricoltura ed industria raggiungesse un livello considerevole e con ciò rese possibile il fiore del mondo antico: la civiltà ellenica. Senza la schiavitù non sarebbero esistiti né lo Stato, né l’arte, né la scienza della Grecia; senza la schiavitù non ci sarebbe stato l’impero romano. Ma senza le basi della civiltà greca e dell’impero romano non ci sarebbe l’Europa moderna. Non dovremmo mai dimenticare che tutto il nostro sviluppo economico, politico e intellettuale ha come suo presupposto uno stato di cose in cui la schiavitù era tanto necessaria quanto generalmente riconosciuta. In questo senso abbiamo il diritto di dire che senza l’antica schiavitù non ci sarebbe il moderno socialismo”. F. Engels, Dialettica della natura, cit., p. 192.
[31] “Non ritraggo per niente le figure del capitalista e del proprietario fondiario in luce rosea. Ma qui si tratta delle persone solo in quanto sono la personificazione di categorie economiche, che rappresentano determinati rapporti e determinati interessi di classe. Il mio punto di vista, che considera lo sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale, non può assolutamente fare il singolo responsabile di rapporti da cui egli socialmente proviene, pure se soggettivamente possa innalzarsi al di sopra di essi”, K. Marx, Il capitale, Newton, Roma 1996, I, p. 43.
[32] F. Engels, “Parte avuta dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia”, in Dialettica della natura, cit., pp. 185 e sgg.
[33] Da ciò deriva “l’usanza giunta fino a noi di esprimere in forza di cavalli la forza meccanica”. K. Marx, Il capitale, Newton, Roma 1996, I, p. 280.
[34] K. Marx, Forme economiche precapitalistiche, Editori riuniti, Roma 19672, p. 94. È infatti evidente che esiste una circolarità indissolubile tra produzione e consumo (ogni società produce per consumare e consuma per produrre) che però, spiega Marx, non deve far dimenticare che la produzione – l’elemento attivo, creativo, generativo – costituisce, in ultima analisi, “il momento egemonico”. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Firenze 19973,vol. I, p. 18.
[35] Stando ad Engels l’alimentazione carnea “abbreviò
i tempi della digestione…e portò con ciò ad un acquisto
di tempo, di sostanze, di energia…portò due nuovi progressi di
importanza decisiva: l’uomo imparò a servirsi del fuoco ed addomesticare
le bestie”. F. Engels, Dialettica della natura, cit., p. 189. Si tratta,
come si vede, di necessità contingenti, storiche, che il successivo
sviluppo dell’umanità ha reso anche rispetto alle argomentazioni
engelsiane totalmente supreflue.
[36] K. Marx, Forme economiche precapitalistiche, cit., pp. 105-106.
[37] Ivi.
[38] Ibid., p. 99. “Non è da tutti possedere uno schiavo. Per potersene servire bisogna avere a disposizione due cose: in primo luogo gli strumenti e gli oggetti per il lavoro dello schiavo e in secondo luogo i mezzi necessari per il suo mantenimento. Quindi, prima che la schiavitù diventi possibile bisogna che sia raggiunto un certo livello nella produzione e che sia comparso un certo grado di diseguaglianza nella distribuzione”. F. Engels, Anti-Dühring, cit., p. 171.
[39] Che, anzi, fornisce elementi importanti anche per una storia critica della visione umana dell’animale. Qualcosa su cui Marx ha, purtroppo, lasciato cadere solo qualche osservazione casuale: “osserviamo di sfuggita che Cartesio definendo gli animali come pure e semplici macchine, vede con gli occhi del periodo della manifattura, che sono molto differenti da quelli del Medioevo, quando si considerava l’animale come ausilio dell’uomo”. K. Marx, Il capitale, cit., p. 290n.
[40] F. Engels, Dialettica della natura, cit., pp. 187 e sgg.
[41] K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca, cit., pp. 58-59.
[42] M. Filippi, “Può un non vegetariano dirsi comunista?”, cit.
[43] Anche se espressa in modo ancora troppo generico: essa si lascia intendere o in senso astorico (“la violenza che l’uomo ha sempre esercitato sull’animale è il presupposto della violenza che l’uomo ha sempre esercitato sull’uomo”), oppure nel senso ingenuamente storico che abbiamo già visto criticato da Marx (“a un certo punto l’uomo, dopo aver soggiogato gli animali, ha cominciato a soggiogare altri uomini”).
[44] M. Filippi, “Può un non vegetariano dirsi comunista?”, cit..
[45] Th. W. Adorno – M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 19974, p. 263.
[46] Ibid., p. 17.
[47] “L’assenza di ragione non ha parole. Parole ha solo il suo possesso, che domina la storia manifesta. La terra intera testimonia la gloria dell’uomo. In guerra e in pace, sull’arena e nel macello, dalla lenta morte dell’elefante sopraffatto da orde umane primitive in base alla prima pianificazione, fino allo sfruttamento sistematico del mondo animale oggi, le creature irragionevoli hanno sempre dovuto intender ragione”. Ibid., p. 263.
[48] M. Horkheimer, Eclissi della ragione, p. 97.
[49] “Il distacco del soggetto dall’oggetto, premessa dell’astrazione, è fondato nel distacco dalla cosa, a cui il padrone perviene mediante il servitore”. Th. W. Adorno – M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 21.
[50] M. Horkheimer, Eclissi della ragione, p. 84.
[51] Th. W. Adorno – M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, cit., pp. 38-41. Scrive Adorno nella Dialettica negativa: “Un proprietario di albergo, di nome Adamo, uccideva con un bastone i topi che uscvano da fori nel cortile davanti agli occhi del figlio, che gli voleva bene; a sua immagine il bambino si è fatta quella degli altri uomini. Il fatto che ciò venga dimenticato, che non si capisca più quel che si è provato un tempo davanti alla macchina dell’accalappiacani, è il trionfo, e il fallimento, della cultura”. Th. W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1975, p. 331.
[52] F. Engels, Dialettica della natura, cit., p. 191.
[53] Th. W. Adorno – M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 30.
[54] Ibid., pp. 271-272.
[55] Ibid., p. 47.
[56] Non a caso il riconoscimento dei diritti inalienabili comporta come necessaria conseguenza la cessazione dell’alimentazione carnea e lo smantellamento degli allevamenti intensivi e la chiusura o la riconversione delle industrie di pellicce e di quelle per la produzione dei capi in pelle e l’abolizione della vivisezione e la fine dell’industria del divertimento tramite animali (zoo e circhi etc.). Da questa serie di “e…” giustapposti, non è (ancora) possibile tracciare una teoria giuridica positiva del rapporto uomo-animale; essi sono reciprocamente indifferenti. Non c’è, difatti, contrariamente a quanto solitamente si dice, un rapporto di implicazione tra l’imposizione del vegetarismo, ad esempio, e lo smantellamento degli allevamenti intensivi. Entrambi conseguono, ma in maniera autonoma, dallo stesso riconoscimento di un diritto intrinseco alla vita.
[57] P. Singer, Liberazione animale, ed. LAV, Roma 1987, p. 189.
[58] Quelle che Singer definisce società comuniste sono, in realtà, i paesi in cui il capitalismo di stato e il burocratismo stalinista hanno trionfato usurpando il nome del marxismo e della rivoluzione socialista. È vero che l’Unione Sovietica non sviluppò una legislazione animalista, ma è necessario ricordare che – prima dell’avvento di Stalin – essa considerò suo dovere difendere la natura e non soggiogarla al dominio strumentale dell’uomo nonostante le enormi pressioni di natura economica cui era sottoposta. Cfr. Douglas R. Weiner, Models of Nature: Ecology, Conservation, and Cultural Revolution in Soviet Union, Indiana Univ., 1988 e AAVV, The Greening of Marxism, Guilford, 1996.
[59] T. Regan, I diritti animali, Garzanti, Milano 1990, p. 533.
[60] Ibid., p. 20.
[61] Ibid., p. 533.
[62] T. Regan, “Il caso dei diritti animali”, in P. Singer (a cura di), In difesa degli animali, Lucarini, Roma 1987, p. 28 (corsivo mio).
[63] Ivi.
[64] P. Singer, Liberazione animale, cit., p. 80.
[65] Ibid., p. 83.
[66] “Non dobbiamo ritenere queste pratiche aberrazioni isolate: infatti le possiamo interpretare correttamente solo se le consideriamo come manifestazioni dell’ideologia della nostra specie, vale a dire come l’atteggiamento che noi, animali dominanti, abbiamo verso altri animali”. Ibid., p. 189. Ma l’uomo non è affatto in sé un animale dominante. La sua evidente debolezza fisica rispetto agli altri animali dice, anzi, palesemente il contrario. L’uomo diviene animale dominante e, lo abbiamo visto, lo diviene solo come essere collettivo e non come “specie”. In che modo la coscienza specista si articoli in comportamenti specisti è una questione che non può essere posta in generale ma riguarda la storia dell’uomo e solo qui può trovare un’articolazione adeguata. Conseguentemente all’eclissi della dimensione sociale che è propria dell’etica borghese, la “breve storia dello specismo” abbozzata da Singer in Animal Liberation non è una storia materiale, ma una storia di “idee”. Singer cita alcuni pensatori che durante la storia hanno proposto questa o quella concezione dell’animale, come se la storia reale fosse fatta dai filosofi, come se la produzione spirituale non avesse il suo ancoraggio necessario nella produzione materiale della società.
[67] E di quella femminista. Nella prospettiva teorica che abbiamo delineato, la continuità della lotta di liberazione della donna e quella animale è un fatto oggettivo e una necessità teorica prima ancora che pratico-strategica. Nella misura in cui il ruolo sociale della donna passava in secondo piano, la coscienza e la razionalità si andavano definendo sempre più come attributi maschili. La donna diventa così automaticamente l’anello di congiunzione tra la ragione umana e la sensibilità animale, trovandosi spesso in contiguità con questa (l’informe “natura”, la yle, che essa dovrebbe rappresentare di contro alla spiritualità, alla razionalità formatrice del maschio). “La donna non è soggetto. Essa non produce, ma cura i produttori, documento vivente dei tempi da lungo scomparsi dell’economia domestica chiusa. La divisione del lavoro, ottenuta e imposta dall’uomo, è stata poco propizia alla donna. Che è assurta a incarnazione della funzione biologica, a immagine della natura, la cui oppressione era il titolo di gloria di questa civiltà. Dominare senza fine la natura, trasformare il cosmo in un immenso territorio di caccia, è stato il sogno dei millenni: a cui si conformava l’idea dell’uomo nella società civile. Era questo il senso della ragione di cui andava fiero”. Th. W. Adorno – M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 265. Ciò che Marx scrisse della donna vale oggi forse, a maggior ragione, per gli animali.