Biblioteca Multimediale Marxista
La crisi mondiale
L'anno che si è appena aperto mette al primo posto nel
panorama della situazione il problema della crisi mondiale.
Il 1974 è stato caratterizzato, in tutti i paesi dell'occidente capitalistico,
dal più alto tasso di inflazione di questo dopoguerra: si va dal quasi
400 per cento del Cile (che è un utile dato per spiegare alle masse che
cosa significa fascismo) al 7 per cento della Germania Federale, una percentuale
che solo pochi anni fa sarebbe stata ritenuta intollerabile da qualsiasi economista
borghese e che ora invece stupisce tutti per il suo livello estremamente basso.
L'Italia da questo punto di vista si situa a metà strada: ai primi posti
- dopo il Giappone - tra i paesi capitalistici sviluppati, poco al di sotto
della media di quelli sottosviluppati, che ancora una volta sono quelli in cui
i costi sociali dell'imperialismo si scaricano sulle condizioni di vita delle
masse in misura maggiore.
Ma il 1974 si è chiuso anche con il meccanismo della recessione mondiale
ormai innescato. Gli USA, capofila dei paesi imperialisti, dalla cui prosperità
economica è dipeso, in tutto il dopoguerra, lo sviluppo degli altri paesi
occidentali, hanno visto il loro prodotto nazionale lordo diminuire in termini
assoluti, una tendenza che continuerà almeno per tutto il 75. In tutti
gli altri paesi il prodotto nazionale oscilla poco al di sotto o pochissimo
al di sopra dello zero, cioè di una mancanza assoluta di sviluppo, pure
in una situazione di costante crescita della popolazione. Solo la Germania Federale,
ancora una volta, sembra essersi sottratta a questo destino grazie al meccanismo
della esportazione, presentandosi, allo scadere del 74, con la più solida,
se non la più forte, economia del mondo.
Ma è un successo effimero. Le esportazioni della Germania Federale sono
state sostenute dal boom della domanda di beni di investimento che ha accompagnato
il boom dei profitti da inflazione degli anni 72-73.
Fine del boom degli investimenti
Questa ondata di ordinazioni è ormai prossima alla sua
fine. A differenza delle crisi classiche, e grazie al meccanismo dell'inflazione
che è riuscito a tenere alti per qualche anno i profitti a spese del
salario, la crisi mondiale attuale è cominciata prima nel settore dei
beni di consumo che in quello dei beni di investimento; ha colpito prima il
livello di vita delle masse che il ritmo di accumulazione del capitale. Ma le
prospettive di espansione continuano ad essere basse, il mercato mondiale è
in contrazione, lo stimolo all'investimento è venuto meno e mancano sempre
più anche i mezzi finanziari per sostenerlo. La Germania Federale non
resterà ancora per molto al di fuori del circuito della crisi, che dovrebbe
investirla in pieno verso la metà del '75, con conseguenze grandissime
per l'equilibrio politico ed economico di tutta l'Europa. Non a caso il governo
del paese con l'economia più solida del mondo è quello che guarda
con più preoccupazione al protrarsi della recessione.
La contrazione del mercato mondiale, la fine del boom degli investimenti, la
liquidazione delle scorte accumulate nel periodo - ormai finito da un pezzo
- di ascesa del prezzo delle materie prime, hanno cominciato a far sentire il
loro peso sulla occupazione. Negli USA quest'anno i disoccupati saranno almeno
otto milioni e mezzo, in tutti i paesi dell'OPEC, cioè in tutti i paesi
capitalistici sviluppati, non meno di quindici milioni. Ma questi dati non vogliono
dire niente: i capitalisti sono molto diligenti nel registrare le loro merci
ed i loro profitti, ma molto negligenti nel tenere i conti di quella particolare
merce che è la forza lavoro, per lo meno finché non l'hanno assunta
alle loro dipendenze. È parere unanime che i disoccupati reali, tenendo
anche conto dei giovani in cerca di prima occupazione, siano almeno il doppio
di quelli ufficiali.
Saremmo con ciò, già nel corso del 75, non molto lontani dalle
cifre che hanno caratterizzato gli anni duri tra le due guerre mondiali. Il
mito neo-capitalistico della piena occupazione è tramontato per sempre.
L'anarchia capitalistica
La crisi è destinata a durare. La previsione che la
metà del 75 dovesse segnare un primo punto di svolta si è rivelata
un puro espediente propagandistico che i governanti occidentali si scambiano
l'un con l'altro, e che Moro non ha lasciato certo cadere.
Cresce la possibilità che la crisi mondiale assuma un decorso assai più
rapido e improvviso di quello avuto finora: la caduta verticale di alcuni mercati
finanziari - come in questi giorni la borsa di Londra -
il fallimento di molte banche - nel 74 sono state almeno dieci - che ogni volta
rischiano di trascinare in un fallimento a catena tutto il circuito finanziario
a cui sono collegate; il disordine monetario, dovuto all'instabilità
del mercato dei cambi - che funziona da incentivo all'investimento puramente
speculativo - e l'accumulazione di gigantesche risorse finanziarie nelle mani
dei governi dei paesi produttori di petrolio sono tutti fenomeni che spingono
in questa direzione. Dietro il « velo monetario » delle crisi finanziarie
traspare ormai chiaramente l'anarchia e 1'ingovernabilità di fondo del
capitalismo, che né l'intervento dello stato a livello nazionale, né
la cooperazione internazionale sono riusciti a superare, perché, anzi,
ne costituiscono spesso un fattore di esaltazione.
La stagnazione
Gli strumenti di previsione e di intervento rendono più improbabile un vero e proprio collasso della economia occidentale - anche se quando Kissinger nel suo linguaggio imperialista e guerrafondaio parla di « strangolamento dell'occidente » gioca all'equivoco sulle cause, ma dimostra di aver ben presente il pericolo. Ma la fase di recessione dovrebbe durare almeno fino a tutto il '76. Al di là del '76 non è prevedibile alcuna vigorosa ripresa, ma una fase di lunga stagnazione, caratterizzata da brevi e deboli periodi di rilancio e da lunghe ricadute, con un meccanismo analogo a quello che ha dominato in Inghilterra già negli anni passati, e che è stato definito dello « stop and go », un termine che può essere tradotto in italiano con il concetto che per « stimolare » l'economia bisogna prima soffocarla per un po'. All'origine' di questo fatto, dicono gli economisti borghesi, c'è una novità: tutte le economie occidentali sono ormai entrate a far parte dello stesso ciclo; l'espansione in un paese non fa più da contrappeso alla recessione in un altro, ma procede di pari passo con essa, con la conseguenza di dover essere subito soffocata per impedire all'inflazione di salire alle stelle. È una spiegazione monca e superficiale; ma prima di andare a vedere che cosa c'è sotto, dobbiamo affrontare un'ultima questione.
I paesi dell'est
In tutti questi anni l'Unione Sovietica e gli altri paesi dell'est
europeo sono rimasti sostanzialmente al riparo dai cicli economici dell'economia
occidentale. Il ritmo del loro sviluppo è andato progressivamente calando,
fino a raggiungere, in alcuni casi, quello di una vera e propria stagnazione;
ma inflazione, disoccupazione, boom e flessiohe degli investimenti, caos monetario
- che hanno dominato l'economia occidentale negli ultimi anni - sembrano non
averli toccati, se non nelle zone periferiche, e più legate all'economia
occidentale come la Jugoslavia ed in parte l'Ungheria.
Quest'ultimo fatto è un'indicazione importante. Nella misura in cui aumenta
l'integrazione di questi paesi nel mercato mondiale - ed essa aumenta ininterrottamente,
non solo e non tanto nel volume degli scambi, quanto nella loro sempre più
stretta complementarietà, che non è niente altro che l'applicazione,
anche a questi paesi, del principio capitalistico della divisione internazionale
del lavoro - i caratteri tipici del ciclo capitalistico sono destinati a propagarsi
nei paesi dell'Est europeo ed in Unione Sovietica, ed a far sentire le loro
conseguenze sociali in un mondo statico, poco assuefatto al cambiamento e per
nulla attrezzato a farvi fronte. Nei prossimi anni assisteremo forse in questi
paesi allo sviluppo di una massiccia lotta di classe e non solo alle manifestazioni
di un antagonismo latente o sopito.
Nuovi sbocchi per l'imperialismo?
Ma possono l'Unione Sovietica ed i paesi dell'est offrire all'economia
occidentale nuovi e grandiosi sbocchi di mercato e di investimento, come l'Europa
capitalistica prima, e in parte il « terzo mondo » poi, li avevano
offerti al capitale USA negli anni passati?
Possono l'Unione Sovietica ed i paesi dell'Est permettere al capitale occidentale
di sottrarsi alla fase di stagnazione in cui sta entrando e di rilanciare una
nuova fase di espansione mondiale, come quella che ha caratterizzato i primi
20 anni di questo dopoguerra?
Ai dubbi che già negli anni passati si erano andati accumulando sopra
questa ipotesi, gli avvenimenti più recenti non hanno fatto che aggiungere
nuove conferme. Cresce l'interscambio, l'interdipendenza e la complementarietà
tra imperialismo occidentale e Unione Sovietica, ma non in misura, o in forme
tali da offrire dell'e alternative concrete agli sbocchi che la crisi sta chiudendo
o atrofizzando nell'occidente capitalistico.
Il « vecchio » modello di sviluppo
Sta giungendo a compimento, in tutti i paesi dell'occidente capitalistico, un ciclo di espansione che ha dominato, in modo pressoché ininterrotto, durante tutti gli ann; del dopoguerra. Stanno venendo meno, cioè, due delle condizioni principali che hanno permesso al capitalismo, durante il corso di questi anni, di contrastare la tendenza intrinseca alla stagnazione dovuta alla caduta del saggio di profitto. Queste due condizioni erano: l'applicazione in massa del tavlorismo, cioè del lavoro parcellizzato a catena nella produzione dei beni di consumo durevoli, che hanno costituito la molla dello sviluppo economico in Europa e in Giappone e, in una prima fase, anche negli Stati Uniti; e la grande rapina delle materie prime, nei paesi del terzo mondo soggetti al dominio imperialista. Il lavoro a catena ha permesso di immettere in produzione, e nel cuore stesso del processo produttivo, grandi masse di lavoratori dequalificati, messi a disposizione dall'emigrazione interna o da altri paesi, ma ha permesso soprattutto di tener basso l'investimento per addetto (cioè, in termini marxisti, la composizione organica del capitale) sia rispetto agli investimenti richiesti dalla più moderna tecnologia - come la petrolchimica o l'aeronautica, ecc. - sia rispetto agli investimenti richiesti in quei settori che avevano costituito la molla dello sviluppo capitalistico in una precedente fase, come la siderurgia. La rapina delle materie prime aveva condotto a un progressivo deterioramento dei termini di scambio con i prodotti industriali (basta pensare che l'attuale prezzo del petrolio, da tutti gli economisti borghesi giudicato « esorbitante », è equivalente, in termini reali, al prezzo che esso aveva all'indomani della seconda guerra mondiale: solo che da allora il prezzo dei prodotti industriali era cresciuto di quattro volte, quello delle materie prime era rimasto fermo o addirittura caduto). L'effetto di questo fenomeno sull'accumulazione del capitale è analogo al precedente: esso riduce il valore delle scorte e quindi il valore dell'investimento per addetto. Poiché il profitto deriva innanzitutto dalla quantità di lavoro vivo, cioè di operai e lavoratori che il capitale sfrutta, e non dall'entità degli investimenti compiuti per mettere questi operai a lavorare, è chiaro che più è basso l'investimento per addetto, più il saggio di profitto per ogni lavoratore occupato è alto. Questo meccanismo - questo « modello di sviluppo » come lo chiamano i revisionisti - ha assicurato all'imperialismo occidentale 20 anni di sviluppo ininterrotto ad un ritmo che non ha precedenti nella storia del capitale, tanto da avere indotto molti economisti borghesi e molti revisionisti a ritenere che l'epoca delle crisi cicliche del capitale, che avevano dominato per tutto il secolo scorso e nella prima metà di questo, fosse tramontata per sempre.
L'inflazione
Contribuiva a questo convincimento il fatto che lo stato capitalistico
ormai disponesse e applicasse massicciamente strumenti di intervento «
anticiclici » (cioè tesi ad attenuare le oscillazioni tra fase
di espansione e fase di recessione ») ed « espansivi » (cioè
tesi a garantire in maniera costante uno stimolo all'investimento).
Questi strumenti, che in ultima analisi si riducono a tre, cioè la politica
del credito, la politica fiscale e la politica del deficit di bilancio, sono
la causa principale dell'inflazione: cioè di quel lento e graduale aumento
dei prezzi che, trasferendo in maniera indiretta potere di acquisto dalle mani
della classe operaia a quella dei capitalisti e del loro apparato, ha fornito
all'economia lo « stimolo » necessario allo sviluppo, rimandando
nel tempo una necessaria resa dei conti tra le classi che riportasse il salario
al suo valore di sussistenza.
Sta in questi meccanismi, tra l'altro, la spiegazione dell'enorme crescita che
hanno attraversato in questi anni gli strati sociali legati al pubblico impiego,
e quindi alla spesa pubblica, che sono stati un fattore determinante per l'espansione
di quel mercato interno che ha fornito alla produzione di massa di beni di consumo
durevoli gli sbocchi necessari; come sta in questi meccanismi la sopravvivenza
- che in misura maggiore o minore ha caratterizzato tutti i paesi capitalistici
- di settori produttivi non più competitivi o comunque inadeguati alle
esigenze dello sviluppo, che lo stato capitalistico ha preferito tenere in vita
piuttosto che arrivare ad una resa dei conti con gli operai in essi occupati.
È chiaro che un meccanismo del genere aveva in sé i germi della
propria fine. Sotto la coltre monetaria dell'inflazione cresceva numericamente
e si rafforzava una classe operaia con cui il capitale rimandava un confronto,
preferendo erodere il suo salario in maniera indiretta piuttosto che attaccare
frontalmente salario e occupazione attraverso il meccanismo classico della crisi,
come accadeva nel secolo scorso e nella prima metà di questo.
D'altra parte l'inflazione aveva un effetto cumulativo: di anno in anno gli
« stimoli » forniti all'economia con la politica del credito, con
la politica fiscale e con quella del deficit di bilancio si andavano ad aggiungere
agli « stimoli » precedenti: dalla fine degli anni '50 il ritmo
dell'inflazione non ha fatto che crescere, fino a raggiungere i livelli mostruosi
di oggi in cui l'aumento dei prezzi non costituisce più una erosione
graduale e « indolore » del salario, ma un attacco frontale contro
tutto il proletariato, senza o con ben pochi strumenti di discriminazione -
e quindi di divisione - tra uno strato ed un'altro.
Il « nuovo » modello di sviluppo
Il passaggio ad un « nuovo modello di sviluppo »
era già stato messo in cantiere dal capitale, specialmente negli USA,
a partire dalla fine degli anni '60. All'origine di questo passaggio ci sono
fattori politici che influenzeranno poi, in maniera esplicita, le scelte analoghe
dei paesi europei e del Giappone, quando essi cominceranno a porsi lo stesso
problema. Da un lato c'è il tentativo di raggiungere una relativa autosufficienza
economica che, come vedremo, è stata l'origine occasionale dell'aumento
del prezzo del petrolio, ma dietro ad esso c'è la consapevolezza di non
poter contare su di una inalterata conservazione del potere imperialista sul
resto del mondo. Dall'altro lato, c'è il bisogno di scorporare le grandi
concentrazioni operaie fondate sul lavoro di linea, che anche negli Stati Uniti,
in una situazione di assenza di lotta aperta e generale, creavano da tempo problemi
sociali non indifferenti, clamorosamente venuti alla luce a metà degli
anni '60 nella rivolta dei ghetti negri, ma già evidenziati dall'assenteismo,
dal sabotaggio, dall'atteggiamento dell'operaio di linea verso il proprio lavoro.
Lo scorporo delle grandi fabbriche e il decentramento produttivo fino al rilancio
su grande scala del lavoro a domicilio, che in Italia hanno accompagnato la
crisi negli ultimi anni, sono fenomeni che il capitalismo USA ha già
messo in moto da almeno un decennio, e su scala mondiale, sminuzzando a domicilio
e trasferendo in Messico, in America Latina, nel Sud-Est asiatico il lavoro
meno qualificato applicato alla utilizzazione secondaria delle innovazioni tecniche
della metropoli. D'altronde tutto il progresso degli investimenti USA diretti
ed anche indiretti in Europa non hanno una origine molto differente.
Giocava infine in questa stessa direzione l'esigenza di offrire alla produzione
uno sbocco diverso da quello costituito da un ininterrotto aumento del mercato
interno dei beni di consumo durevole, perché l'aumento dei salari ed
il crescente indebitamento dei consumatori che esso imponeva era al tempo stesso
fattore di accelerazione dell'inflazione e causa di una crescente compressione
dei profitti.
Il ruolo dello Stato nel « nuovo » modello di sviluppo
La soluzione di questi nodi il capitale USA l'ha cercata nella
produzione bellica - che in tutto il dopoguerra è stato il principale
elemento trainante dello sviluppo negli Stati Uniti e, attraverso gli Stati
Uniti, in tutto il resto del mondo - e, all'interno della produzione bellica,
nell'applicazione su scala sempre più larga delle innovazioni tecníche
legate alla « terza rivoluzione industriale », quelle che possiamo
vedere nell'industria aeronautica, elettronica, spaziale, nucleare, ecc.
La caratteristica di questi settori è l'altissimo costo della ricerca
rispetto al numero degli operai occupati in produzione, il.che fa salire l'investimento
per addetto a un livello così alto che, senza un intervento esplicito
e massiccio dello stato a copertura dei rischi, nessuna impresa è in
grado di affrontare la produzione. Ed anche con l'intervento dello stato, i
problemi sono tutt'altro che risolti: basta pensare, per quello che riguarda
l'Europa, - ma esempi analoghi ce ne sono centinaia, da noi come negli USA -
al progetto dell'aereo Concorde, costato centinaia di miliardi in ricerca e
di fatto privo di un mercato di sbocco.
Il caso dell'industria energetica è analogo. La spinta all'aumento del
prezzo del petrolio è stata data dagli Stati Uniti non solo per mettere
alle strette la concorrenza europea e giapponese, ma anche perché solo
così era possibile rendere economicamente profittevoli le nuove fonti
di energia che avrebbero reso gli USA autosufficienti, come l'estrazione del
petrolio dalla sabbia, le nuove trivellazioni, l'energia atomica, ecc. Si tratta
anche qui di investimenti di migliaia di miliardi che nessuna impresa è
in grado di assumersi in proprio e che, anche con l'aiuto dello stato, potrebbero
rivelarsi un gigantesco e catastrofico fallimento se solo il prezzo del petrolio
scendesse oltre una certa soglia.
Aumento delle spese di ricerca e sviluppo, aumento del prezzo delle materie
prime, a partire da quello dell'energia, spingono necessariamente in alto la
composizione organica del capitale, cioè l'investimento per addetto,
e comprimono quindi il saggio di profitto, al punto che nessun investimento
è più conveniente se lo stato non interviene per sostenerlo, integrarlo
e garantirlo contro i rischi.
Lungi dal risolvere i problemi creati da quello « vecchio », questo
« nuovo » modello di sviluppo non fa che aggiungere nuovi inconvenienti
e rendere sempre più difficile la salvaguardia dell'espansione. Troviamo
qui comunque la spiegazione di tre fenomeni tipici di questa ultima fase.
Tre fenomeni tipici di questa fase
Il primo fenomeno è l'intervento crescente dello stato,
in tutti i paesi capitalistici, non più solo in funzione « anticiclica
» di stimolo della domanda, per garantire cioè degli sbocchi alla
produzione industriale, ma direttamente in sostegno della produzione e dell'investimento,
addossandosi una parte dei costi. Il nuovo rapporto che si è venuto a
creare fra stato borghese e gruppi capitalistici, in cui quella che una volta
era « libera concorrenza » sul mercato si è andata trasferendo
sempre più nell'accaparramento e nella lottizzazione del potere politico,
ha qui la sua origine.
Il secondo fenomeno sta nel fatto che questo meccanismo esalta ulteriormente
il ruolo della spesa pubblica, del deficit di bilancio e quindi dell'inflazione.
Trova qui almeno in parte la sua spiegazione il balzo impressionante che l'inflazione
mondiale ha compiuto negli ultimi anni. Ad un ritmo simile l'inflazione non
rappresenta più un semplice contenimento della dinamica salariale reale,
come era stata nei primi 20 anni del dopoguerra, ma un attacco ai livelli storici
del salario, teso a riportarli al livello di sussistenza. Basta pensare d'altra
parte che in testa alla graduatoria dell'aumento dei prezzi ci sono i beni-salario
indispensabili: gli alimentari, la casa, i prodotti tessili. Ciò è
d'altronde reso possibile dal fatto che la produzione dei nuovi settori tecnologici
non ha più nel mercato di consumo interno il suo sbocco naturale. Il
salario non serve più a sostenere la domanda: quindi può e deve
essere ridotto all'osso.
Il terzo fenomeno deriva dai precedenti; privo del mercato interno e forte del
sostegno statale assai più che un tempo, il capitale è portato
ad acutizzare al massimo la concorrenza internazionale, ad esigere barriere
protezionistiche per difendere il proprio mercato, a farsi finanziare dallo
stato per invadere quelli altrui, ad esasperare al massimo la propria aggressività
in un ritorno alle forme classiche della concorrenza interimperialistica che
la riunificazione del mercato mondiale sotto l'egemonia USA dopo la seconda
guerra mondiale sembrava aver sepolto per sempre. Crisi monetaria, trattative
GATT (sulle tariffe doganali), crisi energetica ed ora crisi alimentare sono
fasi successive - o contemporanee - di questa guerra commerciale. È questo
il quadro di fondo in cui si è sviluppata negli ultimi anni la congiuntura
politica internazionale, che ne costituisce una conferma.
Attacco al salario
I caratteri generali di questo processo di ristrutturazione e il suo rapporto con la crisi fissano alcuni tratti uniformi di un violento attacco contro le condizioni di vita del proletariato che attraversa tutti i paesi capitalistici. La crisi, con il suo intreccio di inflazione e di recessione, esalta da un lato la tendenza a riportare i livelli storici del salario operaio a quelli della mera sussistenza, un processo che accomuna tanto le economie più deboli, come quella italiana, quanto quelle più forti, e prima tra esse quella degli Stati Uniti; dall'altro lato accresce enormemente il numero dei disoccupati ed opera, anche per questa via, un taglio netto della massa salariale complessiva su cui si ripartiscono le fonti di sussistenza dell'intero proletariato.
Ristrutturazione
Ma il cuore di questo processo è dato ovunque dal tentativo di riconquistare il comando e la piena disponibilità sulla forza lavoro: con la scomposizione della classe operaia nella sua attuale struttura, con lo scorporo o il trasferimento delle maggiori concentrazioni, con una diversa ripartizione tra lavoro stabile e lavoro precario, con nuove forme di organizzazione del lavoro che esaltano la mobilità della forza lavoro.
La risposta operaia
La risposta a questo attacco assume in forme sempre più
definite i tratti di un ciclo omogeneo di lotte operaie, a livello mondiale:
un ciclo che ha nell'attacco al salario e all'occupazione gli effetti della
crisi con cui confrontarsi in modo più diretto, ma che tende ad individuare
nella indisponibilità al comando capitalistico il cuore e la posta in
gioco dello scontro.
Da un punto di vista generale, gli USA sono il paese in cui la lotta
operaia potrebbe presentare quest'anno le maggiori novità: sia per le
conseguenze che essa non mancherebbe di avere su tutta l'economia capitalista,
e quindi sui tempi e sugli sviluppi della crisi mondiale, sia perché
in questo paese la ripresa della lotta operaia presenterà quasi sicuramente
dei tratti originali e avanzatissimi, dato che essa si confronta con la più
forte borghesia del mondo. Riprende con forza la dinamica salariale che Nixon
era riuscito a congelare nel 1971 con la sua politica economica, una politica
che nei primi tempi aveva funzionato egregiamente per il capitale, rendendo
possibile un boom eccezionale di profitti ottenuti pressoché unicamente
a spese del salario, attraverso il meccanismo dell'inflazione. Ma è prevedibile
che ciò abbia caricato di altrettanto il potenziale della risposta operaia.
Vale la pena di delineare un quadro della lotta operaia durante gli ultimi anni
che, per quanto costruito con la grossolanità delle statistiche borghesi,
nondimeno può contribuire non poco a mutare le nostre opinioni sul mondo.
Una rivista inglese ha pubblicato una tabella dei giorni persi per scioperi
negli anni 1968-1972 - in un periodo antecedente, dunque, alla fase più
recente della crisi - per ogni mille operai. Al primo posto c'è l'Italia,
con 1912 giorni, al secondo il Canada, con 1724, al terzo posto gli USA con
1534, al quarto l'India con 1264. Seguono nell'ordine la Gran Bretagna (968),
l'Irlanda (964), la Finlandia (916), l'Australia (900), la Francia (per la quale
però non vengono contati gli scioperi del maggio '68, che l'avrebbero
altrimenti messa al primo o secondo posto: 277 giorni); il Belgio (414), la
Nuova Zelanda (354), il Giappone (226), la Danimarca (68), l'Olanda (56), la
Germania (74), la Svezia (62), la Norvegia (18); e la Svizzera (2).
Il quarto mondo
Abbiamo scritto all'inizio che i paesi « sottosviluppati » sono quelli nei quali il peso della crisi si scarica con più violenza sulle condizioni di vita delle masse. Il modo in cui gli effetti della crisi energetica si sono sovrapposti a quelli della crisi mondiale nell'aprire una divaricazione drastica all'interno dei paesi del cosiddetto « terzo mondo » è indicativo. Accanto a pochi paesi che ne hanno beneficiato, in misura maggiore o minore, fino al caso limite dell'Abu Dabi che oggi ha il reddito pro-capite più alto del mondo, la stragrande maggioranza dei paesi sottosviluppati, molto spesso quelli più popolati del mondo, sono piombati in una situazione in cui il prosciugamento delle loro tradizionali fonti di credito ed il deficit aperto dalle importazioni di petrolio si sommano con il ricatto alimentare attuato dagli USA. Se la rivoluzione militare in Etiopia e il rovesciamento di un regime che faceva da baluardo all'imperialismo USA in tutto il continente africano sono uno dei primi frutti di questo aspetto della crisi, la situazione di tensione e di lotta aperta che si è venuta a creare nel subcontinente indiano è certamente, per la sua importanza e le sue dimensioni, quella più gravida di frutti. Tutti e quattro i paesi del subcontinente (Pakistan, India, Bangla-Desh e Ceylon) sono oggi in stato di assedio, nel tentativo di prevenire e stroncare militarmente i moti provocati dalla fame, ma anche la guerriglia e la lotta operaia.
USA e URSS
Nei rapporti USA-URSS il processo di distensione segna il passo
da tempo. L'incontro al vertice di Vladivostok è da questo punto di vista
esemplare. Sia Ford che Breznev ne avevano bisogno per ragioni di carattere
interno, cioè per consolidare sul piano internazionale un potere tutt'altro
che solido e incontrastato, e questa è l'unica ragione per cui è
stato fatto. Per il resto la questione di maggior rilievo, quella mediorientale,
che di li a poco sarebbe arrivata sull'orlo della guerra, non è stata
nemmeno affrontata, perché le condizioni di un accordo evidentemente
non c'erano. Sotto silenzio è passata pure un'altra questione cruciale,
che a suo tempo, durante il primo viaggio di Kissinger a Mosca, aveva costituito
l'oggetto di un grande baratto; il Vietnam. La continuazione dell'aggressione
USA in aperta violazione degli accordi di Parigi e la recente intensificazione
di questo intervento militare mostrano come l'imperialismo, anche ferito e colpito
a fondo come in Vietnam, non può rinunciare neppure a una briciola del
proprio dominio. Un anno fa era stato d'altronde il golpe cileno, oggi clamorosamente
smascherato all'interno stesso degli Stati Uniti come una operazione voluta
e organizzata dal boia Kissinger e dalla CIA, a dimostrare come l'imperialismo
non sia disposto a lasciar mettere in discussione la propria « egemonia
» e l'influenza internazionale anche quando dietro a questo fatto non
c'è un confronto diretto tra due campi, ma un processo sociale del tutto
autonomo. Il golpe cileno non ha interrotto comunque i buoni rapporti USA URSS,
né lo ha fatto la massiccia ripresa dell'aggressione in Vietnam. L'aggressività
imperialista comunque toglie sempre più terreno alla possibilità
che la collusione tra USA e URSS su determinate questioni corrisponda ad un
processo effettivo di distensione nel mondo.
Per quanto riguarda l'Europa la cosa non sta in termini differenti: chiusa con
la caduta di Brandt la fase dell'ostpolitik tedesca, cioè di una politica
di riavvicinamento con l'Unione Sovietica gestita in maniera diretta dai governi
europei, gli USA tendono oggi ad imporre l'allineamento più rigido dell'Europa
alle direttive imperialistiche, a gestire essi, per conto di tutti, i rapporti
con il blocco sovietico e addirittura a fare della NATO, cioè di uno
strumento di aggressione militare per eccellenza, la sede dove gestire «
in comune » questa politica atlantica. Anche di questo a Vladivostok non
si è parlato. Si è parlato poco o niente della Cina, anche se
la città prescelta per l'incontro aveva di per sé il carattere
di una provocazione anticinese che Breznev non ha mancato di sottolineare pochi
giorni dopo l'incontro, parlando ad Ulan Bator.
Questo fatto, comunque, come le voci non confermate di una ripresa degli scontri
sul fronte dell'Ussuri, non sembrano avere interrotto un processo che complessivamente
appare di distensione dei rapporti cino-sovietici, e che pare confermato soprattutto
dall'alleggerimento della pressione sovietica sulle frontiere orientali e dal
più che sintomatico aumento della sua presenza militare sui confini europei.
L'inconcludenza delle conferenze per la cooperazione e sicurezza europee e per
la riduzione multilaterale bilanciata delle forze in Europa sono d'altronde
una conferma di questa tendenza; anch'esse non sono state oggetto di discussione
a Vladivostok. Gli « affari » conclusi o preparati da Ford e Breznev
non risultano rilevanti; siamo comunque radicalmente al di fuori dell'entità
dell'interscambio prospettata solo qualche anno fa. D'altronde la concessione
all'URSS della clausola della nazione più favorita da parte del senato
americano è stata funestata dall'incidente con cui il governo sovietico
ha reso noto di non aver affatto promesso in cambio a Kissinger il via libera
all'emigrazione degli ebrei russi, come quest'ultimo aveva sostenuto. Un incidente
a cui non deve essere stata estranea la necessità, per i sovietici, di
non guastare ulteriormente i propri rapporti con gli arabi.
Un accordo di guerra
L'unico terreno reale di accordo sembra essere dunque quello
militare, e la cosa è esemplare. A dieci anni dalla firma del trattato
di non proliferazione, ed alla vigilia del suo rinnovo, sembrava d'obbligo che
i due capi di stato si interrogassero reciprocamente sulle ragioni della eccezionale
proliferazione nucleare avvenuta in questi anni con l'assistenza diretta dei
due massimi firmatari: sono oggi oltre 20 le nazioni in grado di costruire ordigni
nucleari. Niente di tutto ciò. L'accordo siglato rappresenta, a detta
di tutti gli esperti, e dello stesso Kissinger, che l'ha dovuto ammettere, un
vero e proprio incentivo alla corsa agli armamenti; fissa una precisa tabella
di marcia e stabilisce nella cifra iperbolica di 1300 ciascuno i MIRV (vettori
con testate nucleari multiple) che USA e URSS dovranno avere entro il 1980;
ciò esige una accelerazione rispetto allo stesso ritmo attuale della
corsa agli armamenti.
Va qui ribadito con forza che le armi servono per essere usate; che la logica
secondo cui si muove l'imperialismo è una logica di aggressione e di
morte; che per ciascun uomo sulla faccia della terra è già pronto
un potenziale nucleare corrispondente a 15 tonnellate di tritolo; che il capitalismo,
insomma, ha trasformato il mondo in una immane polveriera che è compito
del proletariato e della lotta di classe disinnescare e distruggere perché
l'umanità possa sopravvivere.
Il « terzo mondo »
Una contraddizione certo secondaria, ma che nel corso degli
ultimi anni è andata via via crescendo di peso, è lo schieramento
di paesi che si sono raccolti intorno alle indicazioni della Cina Popolare su
alcune questioni di politica internazionale.
Tra esse quella che ha avuto minor successo pratico, e che la crisi ricaccia
ulteriormente indietro, è il tentativo di costruire, sull'esempio dell'OPEC,
alcuni cartelli di paesi del terzo mondo produttori di materie prime: un terreno
che ha visto l'Algeria particolarmente impegnata.
Quella che ha avuto maggior successo è invece l'azione diplomatica all'ONU
(anche in questo caso favorita dal fatto che l'Algeria ha quest'anno la presidenza
dell'assemblea), che ha ormai costituito intorno a posizioni antimperialiste
una stabile maggioranza, che ha già ottenuto l'espulsione della delegazione
razzista del Sud Africa e che non ha mancato di sollevare le proteste indignate
degli USA e dei paesi europei, tradizionali spadroneggiatori dell'ONU, che oggi
lamentano di trovarsi di fronte a maggioranze « precostituite ».
A metà strada si situano alcuni successi diplomatici, con un valore per
ora puramente di principio, ma anch'essi sintomo delle difficoltà crescenti
a cui va incontro l'imperialismo USA: quelli ottenuti nelle conferenze internazionali
sull'alimentazione, sulle acque territoriali e sulla popolazione.
La solidità e la forza di questi fronti non va esagerata, anche in considerazione
del carattere tutt'altro che progressista di molti dei regimi che vi prendono
parte. Tuttavia è certo che una delle ragioni per cui gli USA si sentono
sempre più impegnati a rompere, anche con la forza e le minacce, il cartello
dell'OPEC, è il valore esemplare ed il richiamo che esso esercita in
molti altri campi.
L'Europa mediterranea
Nell'Europa occidentale l'effetto più evidente della
crisi è quello di bloccare e rovesciare la tendenza alla unificazione
economica ,e politica, presente in tutto il periodo dello sviluppo capitalistico
del dopoguerra, e di mettere in moto un processo di differenziazione tra i singoli
paesi e di polarizzazione tra « aree forti » e « aree deboli
» del capitale in Europa. Questa differenziazione crescente, che è
stata accelerata dall'offensiva dell'imperialismo americano degli ultimi anni
e dalla crisi del petrolio, ha però la sua ragione di fondo nei rapporti
di forza tra le classi in ciascun paese europeo. In paesi quali il Portogallo,
la Spagna, l'Italia, la Grecia, la Turchia, le conseguenze della crisi e della
tendenza alla « disgregazione » dell'impero si sono manifestate
in modo assai più ampio e drammatico su tutti i terreni, economico, sociale
e istituzionale. Sono questi gli « anelli deboli » del sistema imperialista
in questa zona del mondo, quelli che più preoccupano gli strateghi americani.
Sono i paesi in cui la crisi e i cambiamenti di governo tendono a coincidere
con la crisi dei regimi e degli stati borghesi in quanto tali. Il grado di interdipendenza
tra le contraddizioni che investono questi paesi non è mai stato tanto
evidente come oggi. Basti pensare al rapporto tra le prospettive della rivoluzione
in Portogallo e la situazione della Spagna, o a come la crisi di Cipro si sia
ripercossa sulla situazione interna e sulla collocazione internazionale sia
della Grecia che della Turchia.
Gli Stati Uniti hanno finora gestito la crisi cercando di scaricarne gli effetti
sui paesi capitalistici europei, al fine di riconquistare su di essi una piena
supremazia; a questo obiettivo era d'altronde finalizzata, finché non
è loro scoppiata in mano, la gestione della crisi medio-orientale.
Ma proprio questa politica, se da un lato ha ottenuto il risultato di imporre
l'allineamento più o meno esplicito dei vari governi europei sulle posizioni
americane, ha nello stesso tempo esaltato i conflitti di classe in ciascun paese
e le spinte centrifughe che hanno non più nelle velleità autonomistiche
delle borghesie europee, ma nella forza del proletariato, il loro motore; ha
contribuito a logorare definitivamente e a travolgere i regimi fascisti che
nel Mediterraneo avevano costituito fino ad oggi i più saldi puntelli
dell'egemonia americana.
L'Europa centrale e l'emigrazione
Nei paesi capitalistici del centro Europa gli effetti della
crisi sono stati assai meno profondi; ne è un segno il fatto che la instabilità
istituzionale ed il cambio dei governi, in paesi come la Germania o anche la
Francia, non hanno sostanzialmente intaccato la capacità dello stato
di porsi con coerenza alla guida del processo di ristrutturazione. Questa forza
è dovuta principalmente a due fattori, entrambi assai precari: la capacità
di mantenere sostanzialmente intatto, malgrado la recessione, il controllo di
una quota rilevante del mercato internazionale (che nel caso della Germania,
col 12 per cento delle esportazioni mondiali, è quasi pari a quello degli
USA: 12,5 per cento), e il fatto di poter contare su un mercato del lavoro molto
più ampio e articolato di quello degli altri paesi. Non è un caso
che i paesi di immigrazione sono quelli che meglio riescono a controllare la
crisi, mentre in quelli di emigrazione gli sconvolgimenti sono più profondi.
Il primo fattore non pare destinato a durare; il controllo del mercato del lavoro
invece, che, attraverso il ricorso massiccio e selezionato alla forza lavoro
proveniente dalle aree del sottosviluppo europeo e mediterraneo, è stato
nel passato il principale fattore di sviluppo e di espansione imperialista del
capitalismo tedesco e francese, continua ad essere, nella crisi, il terreno
principale sul quale si gioca la stabilità futura di questi paesi.
La ristrutturazione si presenta qui più ancora come intervento, guidato
dallo stato, sul mercato del lavoro che come modifica dei processi di produzione:
con tutti i vantaggi che derivano ai padroni dalla possibilità di scaricare
i maggiori costi politici, economici, sociali, della recessione e dei licenziamenti
fuori dei propri confini, nei paesi dai quali proviene la forza lavoro immigrata.
Il margine di manovra di cui i padroni tedeschi, svizzeri, francesi, olandesi
possono oggi disporre per portare avanti il loro attacco alla classe operaia
multinazionale si è tuttavia enormemente ridotto rispetto al passato.
Non solo perché il fenomeno dell'emigrazione della forza lavoro ha assunto
proporzioni gigantesche: dieci milioni di operai emigrati in Europa, 2,5 milioni
nella sola Germania Federale; ma perché il ruolo da essa occupato nella
produzione è ormai insostituibile, e i compartimenti che separano fin
dentro il processo produttivo le diverse componenti nazionali della classe operaia
sono ormai definitivamente abbattuti. Il ghetto dei « negri d'Europa »,
degli operai turchi, spagnoli, italiani, portoghesi, jugoslavi, arabi, che è
stato spezzato dentro la fabbrica, non potrà facilmente essere ricostruito
fuori della fabbrica.
Lavoratori emigrati e non
Il blocco dell'immigrazione in tutti i paesi europei, l'espulsione
di una quota crescente di lavoratori emigrati, non può bastare a rendere
nuovamente mobile e intercambiabile il proletariato multinazionale: al contrario,
queste misure sono destinate ad aumentare, per molti aspetti, là rigidità.
Quello che si presenta come un attacco rivolto specialmente contro i lavoratori
emigrati, è in realtà il tentativo di indebolire, ricattare, colpire
tutto il proletariato multinazionale, per interrompere quel processo di unificazione
che è andato maturando nelle lotte degli anni passati. Il legame strettissimo
tra le prospettive della rivoluzione in Italia, Spagna, Portogallo, e la rottura
di quel meccanismo sul quale si fonda la solidità capitalista dei paesi
d'immigrazione, è fisicamente rappresentato da milioni di operai: da
quelli che oggi tornano come da quelli che restano. La crisi dei regimi fascisti
nel Mediterraneo, la entrata in campo degli operai portoghesi e spagnoli, non
sono che elementi di un processo di riunificazione del proletariato, che ha
dimensioni continentali. È su questa prospettiva che si misura oggi,
nei vari paesi europei, la crescita del partito rivoluzionario e la pratica
di un nuovo internazionalismo.
La crisi energetica...
All'origine della guerra del Kippur e della crisi energetica,
così come esse erano state messe in moto poco più di un anno fa
da Nixon, c'era il progetto di avvalersene come una nuova arma per ottenere
un ridimensionamento della concorrenza dei paesi europei ed un loro drastico
allineamento con le direttive atlantiche.
Tutta la politica energetica degli USA, dalla conferenza di Washington al piano
Kissinger, passando attraverso al rilancio della NATO come organizzazione economico-militare,
era ed è finalizzata a questo obiettivo.
Oggi la minaccia di una nuova guerra in Medio Oriente torna a presentarsi, in
un intreccio della questione energetica con altri fattori, sia di carattere
locale che internazionale. L'aumento del prezzo del petrolio è stato
promosso o assecondato dagli Stati Uniti, come abbiamo già detto, per
rendere utilizzabili a costi competitivi fnti alternative - e interne - di energia.
Le entrate dei paesi produttori non differiscono in nulla da una normale rendita
differenziale - la rendita che deriva dalla differenza tra i più alti
ed i più bassi costi di uno stesso prodotto venduto a prezzi
costanti - con la novità che invece di essere le compagnie ad incassarle,
come era accaduto in gran parte negli anni passati, esse vengono riscosse interamente
- o quasi - dai governi produttori. Vero è che il prezzo del petrolio
è stato aumentato anche al di là di quanto gli USA ritenessero
necessario, grazie alla temporanea posizione di monopolio di cui si avvalgono
i paesi dell'OPEC, che permette loro di percepire, oltre alle rendite differenziali,
anche una vera e propria rendita assoluta - la rendita che si incassa per il
fatto di avere il monopolio di una determinata merce - anche se si avvertono
già ora i primi segni di una possibile incrinatura del cartello dell'OPEC.
Quello che però ha maggiormente sollevato preoccupazione negli Stati
Uniti non è tanto il prezzo del petrolio in sé quanto l'indipendenza
manifestata dai paesi dell'OPEC nel gestire ed utilizzare le somme incassate;
anche se è contro il prezzo che gli USA protestano maggiormente, fingendo
di parlare a nome di tutti i « consumatori », in realtà hanno
spesso ammesso che un suo abbassamento oltre una certa soglia non sarebbe né
auspicabile né opportuno.
... ed i suoi risvolti finanziari
Il fatto è che l'improvvisa ricchezza affluita nelle
riserve dei paesi produttori, invece di essere avviata a finanziare direttamente
gli investimenti delle compagnie nella ricerca di nuove risorse energetiche,
per essere « riciclata » - cioè rimessa in circolazione sotto
il controllo delle Banche statunitensi - tende a prendere altre vie.
La prima è quella degli armamenti, e questa è indubbiamente una
« boccata di ossigeno » per l'industria USA, anche se la concorrenza
europea tende a farsi pesante, ed il fatto in sé non è privo di
risvolti politici, evidenziati dalla crescita della autonomia militare di determinati
stati, primo tra essi l'Iran.
La seconda via è quella dell'industrializzazione - spesso impostata al
di fuori del controllo e di un accordo preventivo con gli USA e privilegiando
il rapporto diretto con l'Europa.
La terza è quella di un ulteriore ingorgo dei mercati finanziari, che,
se per tutto il periodo è servito agli USA per tenere sotto pressione
il capitale europeo, ora tende a presentarsi come una minaccia per l'equilibrio
economico di tutto il mondo imperialista.
L'ultima via, e indubbiamente la più temuta, è la tendenza di
alcuni paesi produttori a creare un proprio circuito finanziario mondiale indipendente,
che alcuni recenti dati sembrano confermare.
Comunque la si rivolti, la questione energetica rimanda, in ultima istanza,
alla necessità degli USA di mantenere ed irrigidire il proprio controllo
sugli alleati europei e di non permettere che vengano loro offerte occasioni
per una politica estera alternativa.
L'importanza della posta in gioco spiega in abbondanza perché, a più
riprese, sia Ford che Kissinger abbiano sentito il bisogno di minacciare la
guerra per il petrolio.
Il Medio Oriente
I fattori locali, che si sommano a quelli generali e che contribuiscono
a rendere meno programmabile e più aleatoria la politica USA in campo
energetico, sono costituiti innanzitutto dalla situazione interra di Israele,
dove ad una esplosione di lotta operaia e proletaria contro i1 ritmo intollerabile
dell'inflazione corrisponde una radicalizzazione a destra della politica istituzionale
che ha nella ripresa della guerra il suo sbocco obbligato. Ma anche nei paesi
arabi, ed in particolare in Egitto, la recente esplosione di lotta operaia e
studentesca può avere come effetto quello di costringere il governo a
cercare di mantenere il controllo della situazione accentuando i toni del nazionalismo
interclassista.
Il secondo elemento che gioca a favore della guerra è l'attuale squilibrío
delle forze in campo. Esso rimanda alle contraddizioni interne alle classi dominanti
USA, che hanno alimentato una campagna di riarmo a tappe forzate che permette
oggi ad Israele di disporre di un potenziale bellico triplo riapetto ad un anno
fa, così come rimanda alle contraddizioni interne ai gruppi dominanti
dell'URSS, in cui deve essersi aperto uno scontro sull'atteggiamento da tenere
nei confronti del « cambio di campo » operato dall'Egitto un anno
fa e del suo attuale cauto e contraddittorio tentativo di riaccostamento. Fatto
sta che, oggi, Israele si è riarmata fino ai denti mentre il governo
del Cairo è rimasto al punto in cui lo ha lasciato la guerra del Kippur.
Cresce per queste ragioni la tendenza di Israele di approfittare di questo temporaneo
vantaggio per dividere i fronti e scatenare una guerra separata alla frontiera
settentrionale.
Concorre infine la situazione di stallo a cui è arrivato il processo
di distensione e che può spingere ciascuno dei contendenti in Medio Oriente
a cercare di forzare la mano al proprio alleato.
Sono chiare a tutti le dimensioni che una nuova aggressione israeliana non mancherebbe
di avere. Essa metterebbe innanzitutto in forse, se non nell'immediato, certamente
in un periodo non lungo, non solo la esistenza stessa dello stato di Israele,
ma anche quella di gran parte della sua popolazione.
Per questo la minaccia di un intervento diretto nord americano, a cui per altro
le truppe USA si stanno esercitando, non appare affatto inverosimile, nonostante
che le sue conseguenze sull'equilibrio mondiale siano gravissime.
Analogamente non è affatto priva di fondamento la minaccia di un intervento
antiisraeliano dell'Iran, che con la maggiore popolazione ed il più forte
armamento del Medio Oriente, punta ormai ad una egemonia più o meno diretta
sul resto del mondo arabo.
Non va infine dimenticato che gli USA avranno grosse difficoltà ad utilizzare
la base portoghese delle Azzorre, che avevano usato per il ponte aereo messo
in atto durante l'ultimo conflitto; dispongono meno
che mai delle basi greche, sicché l'utilizzo diretto del suolo italiano
o tedesco come retrovia di una eventuale aggressione in M.O. appare obbligata.
Uscire dalla NATO
La vigilanza e la mobilitazione contro il coinvolgimento diretto
o indiretto dell'Italia o di altri paesi europei, in un conflitto che rischia
di estendersi e propagarsi a macchia d'olio, è dunque più che
mai attua
le; esse si legano direttamente alla campagna contro il governo Moro e la Democrazia
Cristiana, per l'uscita dell'Italia dalla NATO, per l'indipendenza nazionale,
che noi consideriamo punti qualificanti della lotta antifascista e del programma
di governo del proletariato.
La situazione che si è venuta a creare nei paesi del Mediterraneo dopo
la caduta del fascismo in Grecia e in Portogallo, dopo lo scoppio di una guerra
guerreggiata tra due paesi membri della NATO, dopo il
ritorno di Makarios a Cipro, dopo le ferme prese di posizione del governo jugoslavo
sul problema dell'indipendenza nazionale e, infine, nel pieno dello sfacelo
del regime franchista sotto la pressione della lotta di classe in Spagna, mette
in chiaro come una lotta del genere sia già oggi nella realtà
delle cose e come la parola d'ordine della uscita dalla Nato e la rivendicazione
della neutralità di tutti i paesi europei del Mediterraneo non siano
né astratte né velleitarie.