Biblioteca Multimediale Marxista
SULLA TENDENZA DEL MOVIMENTO DI LOTTA
Il centro di una discussione sulla situazione di classe, sui nostri compiti,
non può essere che uno: la condizione reale del movimento di alasse,
la sua forza, l'indicazione di fondo che esso esprime, e che noi dobbiamo saper
riconoscere, sostenere e orientare.
Lo sviluppo della crisi, di nuovi e più profondi strappi che il programma
dei padroni provoca nell'attacco alla classe operaia, non vedono oggi una compiuta
risposta generale. Ma questo non vuol dire né che il movimento di classe
sia fermo, né, tanto meno, che si stia ritirando; e nemmeno che il dato
dominante della situazione attuale sia, come in altri momenti di difficoltà,
di attesa, di preparazione, l'accumularsi di una tensione che non riesce a trovare
gli spazi per esprimersi.
Un dato dominante della situazione sta nel fatto che una enorme accumulazione
di tensione, che attraversa in modo via via più omogeneo l'insieme della
classe operaia e dei settori proletarizzati, sviluppa dal basso una iniziativa
diffusa e articolata, i cui punti di applicazione sono diversi e parziali, ma
che ha dovunque un carattere offensivo nuovo. Non c'è una lotta generale,
c'è una tendenza generale nelle lotte, che ne annuncia e ne prepara uno
sbocco nuovo.
Sarebbe un irrimediabile errore vedere in questo ritorno della lotta all'iniziativa
dal basso, all'articolazione e alla diversificazione di obiettivi e di forme,
una retrocessione rispetto alla tendenza principale degli ultimi anni. In questi
anni, è cresciuta - ed è diventata impetuosa in alcuni momenti,
nello sciopero lungo di febbraio, nella risposta a Brescia - una spinta della
lotta verso una dimensione generale, una spinta a unificare e a far convergere
la forza proletaria verso il centro, verso il potere complessivo dei padroni,
la loro « politica economica », il loro apparato di dominio, verso
il governo e lo stato.
La risposta operaia alla crisi
Unificazione della lotta, costruzione di un programma generale,
rivendicazione di potere politico: l'intreccio di questi aspetti ha dominato
la risposta operaia alla crisi, ha dato un segno nuovo all'arma dello sciopero
generale, ha imposto in alcuni momenti alla direzione sindacale la propria forza.
L un itinerario che va dalla lotta operaia contro Andreotti nel '72, dagli scioperi
contrattuali trasformati in una lotta generale contro il carovita, contro il
fascismo, contro la DC, fino allo sciopero lungo e allo sciopero generale dello
scorso 27 febbraio, fino al referendum, alla risposta a Brescia, e fino allo
sciopero dei fischi di luglio, dove si fa manifesta la contrapposizione tra
un sindacato che ha deciso, dopo averne pericolosamente subito la forza, di
abrogare la dimensione generale della lotta, il suo contenuto di programma e
di potere, e una classe operaia che non accetta di ritirarsi, e si prepara a
dare con le sue forze continuità alla propria iniziativa.
Sta qui, nell'antagonismo con una direzione riformista che accetta teorizza
l'uso capitalista della crisi, e nella nuova e profonda precipitazione dell'attacco
padronale e governativo, la radice della tendenza nuova della lotta. Essa non
è un ritorno all'indietro, un riflusso corporativo e difensivo; non ha
il segno dell'abbandono dei contenuti di programma e di potere. Noi riconosciamo,
nella tendenza generale delle lotte proletarie in questo periodo, la volontà
di esercizio di realizzazione dal basso dei programma e la volontà di
esercizio dal basso della rivendicazione di potere politico come le condizioni
nuove di un più profondo e maturo sbocco generale.
È questo l'insegnamento preciso che ci viene dalle lotte. Noi rifiutiamo
lo schema idillico di chi, nella speranza di allontanare o esorcizzare í
momenti inevitabili di precipitazione della crisi e dello scontro di classe,
non vede altro, nelle lotte di questa fase, se non l'articolazione, la frantumazione
della risposta proletaria in tante puntuali e ordinate risposte. In questo schema,
il carattere prolungato della crisi del capitale viene trasformato in un carattere
gradualista della crisi, per far da alibi a una interpretazione e a una azione
gradualista nella lotta di massa.
Questi ultimi mesi
Basta ripercorrere questi mesi ultimi, che non sono stati segnati
né dalla tregua, né dalla vertenza sindacale, che pure c'è
stata, ma svuotata di ogni credibilità materiale e politica nella coscienza
delle masse e soltanto usata nelle occasioni che il sindacato doveva e deve
offrire all'unità e alla manifestazione della volontà della classe,
fino al 4 Dicembre, all'unica parola d'ordine - « È ora, il potere
a chi lavora; il potere dev'essere operaio » - scandita a Palermo e a
Torino, a Napoli e Bologna da centinaia di migliaia di proletari. Sono stati
segnati, questi mesi dalle lotte operaie delle piccole fabbriche, dalle lotte
dei disoccupati, dalle lotte sui trasporti, dalle lotte per la casa, dall'autoriduzione,
dall'iniziativa di avanguardie di massa contro la ristrutturazione nelle grandi
fabbriche, dalle lotte proletarie degli studenti, e anche dalle caratteristiche
nuove della mobilitazione antifascista, dalla risposta popolare di Savona, dallo
sviluppo dell'attenzione e dell'unità proletaria col movimento dei soldati,
dalla manifestazione iniziale, ma significativa e istruttiva, dell'impegno nella
vigilanza antigolpista di massa.
È, solo a partire dal nostro rapporto con queste esperienze che noi siamo
chiamati a giudicare della forza e della debolezza della nostra organizzazione
e della sua stessa natura. Ogni altro punto di vista, pur essenziale, è
tuttavia secondario e subordinato a questo. Allo stesso modo, è nel rapporto
con queste esperienze di lotta, con 1a tendenza che in esse si esprime, col
loro sbocco più avanzato, la chiave di volta dell'indicazione dei nostri
compiti nella prossima fase.
E' possibile riconoscere questa tendenza generale e comune? E' possibile vedere
le linee di sviluppo?
L'esercizio dal basso del programma
È utile guardare al modo in cui alcuni aspetti di fondo riemergono in queste esperienze di lotta, definendone il segno, l'esercizio dal basso del programma, e, legato ad esso, la costruzione di organizzazione e di forza. È quello che avviene nell'occupazione di case, a Roma o a Torino o a ]Milano, un terreno di lotta sempre più rigorosamente operaio, che la crisi allarga agli strati proletari dei servizi, del pubblico impiego, del cosiddetto lavoro indipendente. Unità proletaria, esercizio del programma, esercizio del contenuto di potere del programma, come esemplarmente a San Basilio, dove la possibilità della rivincita militare dello stato è frustrata e rovesciata prima di tutto dalla forza politica dei proletari. L'attacco della crisi allarga il fronte diretto e la forza politica della lotta per la casa, del movimento dell'occupazione, fino all'obiettivo della requisizione diretta degli appartamenti delle grandi immobiliari, fino allo sciopero degli affitti, la principale e più consolidata forma di autoriduzione e questo non è vero solo per Roma, dove l'anno santo promette di centuplicare l'iniziativa proletaria. Al tempo stesso, si radicalizza la necessità di una risposta repressiva della borghesia e dello stato, mentre è sempre più svuotata la mediazione legalitaria revisionista. Si parla, a Torino, di una possibile risposta poliziesca all'occupazione della Falchera e ciascuno di noi capisce che cosa vorrebbe dire. Esistono, ed esisteranno ancora di più, tutte le condizioni per un'iniziativa dell'avanguardia che rovesci i tentativi di isolamento e di divisione, che organizzi la forza politica della lotta per la casa come forza materiale, che stabilisca nella propria iniziativa autonoma di massa i rapporti di forza sui quali piegare a vantaggio de] proletariato la contraddizione fra revisionismo e bisogni delle masse. Gli stessi aspetti caratterizzano la lotta per l'autoriduzione. Una lotta che, alla sua origine, ha mostrato gravi errori della nostra organizzazione. Errori di schematismo e di debolezza dell'analisi, cioè, in sostanza, del nostro rapporto con le masse: è stato così per la preoccupazione, che abbiamo avuto, di una contrapposizione deviante fra ripresa dell'iniziativa operaia in fabbrica, contro la ristrutturazione e per il salario, e autoriduzione; abbiamo così mancato di iniziativa, abbiamo dato un'indicazione generale debole al nostro lavoro, e siamo stati meno efficaci di altri, come la sinistra sindacale e le forze politiche che ad essa fanno capo, che pur ambiguamente promuovevano l'estensione di questa lotta. (Gli errori sono inutili da denunciare se non se ne individuano le cause: e una, importante, che occorre richiamare a questo proposito come per altri e ricorrenti esempi di lentezza e di ritardo nella nostra capacità di iniziativa e di direzione, sta in una debolezza della nostra struttura, nel fatto che una linea di massa stenta ad attraversare naturalmente l'organizzazione, con una strozzatura, fino a una direzione nazionale che diventa, spesso, un collo di imbuto. È un problema che i lavori del congresso hanno all'ordine del giorno).
L'autoriduzione non é finita
Qual'è il destino dell'autoriduzione nella prossima
fase? Non si può ignorare il fatto che l'accordo firmato dai sindacati
con l'ENEL e il governo ha tentato di retrocedere definitivamente l'autoriduzione
da pratica autonoma del programma proletario a strumento provvisorio (e largamente
vituperato) di trattativa. La firma dell'accordo chiude provvisoriamente gli
spazi aperti dalle contraddizioni interne al sindacato, e soprattutto dà
al governo una copertura per reprimere con maggiore sicurezza un'azione proletaria
illegale non solo rispetto allo stato ma allo stesso sindacato. Già si
moltiplicano i tentativi repressivi in alcuni punti, trovando del resto un'adeguata
risposta di massa, come in questi giorni in alcune zone di Napoli. Più
difficile appare, per queste ragioni, una generalizzazione rapida di questa
azione di lotta. Ma è presente, con una grossa forza potenziale, anche
la tendenza opposta.
L'autoriduzione ha dimostrato di poter essere un terreno preciso di iniziativa
diretta dell'avanguardia, di costruzione dell'organizzazione, di esercizio della
forza; un terreno, anche, di unità delle avanguardie, che deve raccogliere
ogni forza disposta a sostenere la pratica della lotta, senza limitarsi alla
pressione nei confronti del sindacato. La forma che questa iniziativa può
assumere è la più diversa, come ha dimostrato una esperienza che
va dalla copertura sindacale alla promozione diretta della lotta da parte dei
nostri compagni. Tanto maggiore è la forza politica di questa lotta -
e anche questo è già apparso chiaramente a Napoli come a Torino
- per la capacità che essa ha, dando concretezza e unificazione permanente
all'unità generale cresciuta intorno alla parola d'ordine dei prezzi
politici, di raccogliere i settori più ampi del proletariato, fino a
settori di quelli che si considerano « ceti medi », e che ritrovano
qui materialmente il significato della direzione operaia. C'è un modo
di guardare all'autoriduzione che ne fa una lotta precisa, graduale legata a
una copertura istituzionale, sia pure quella dei consigli di fabbrica, e che
la contrappone perciò ad altre forme di lotta, arrivando a teorizzare
la superiorità del suo carattere « costruito » rispetto al
carattere « spontaneo » o « rivoltoso » di altre forme
di lotta. Questo è il segno di una pesante incomprensione. Un filo comune
lega la lotta per l'autoriduzione dei prezzi dei trasporti organizzata dai consigli
di fabbrica, alla lotta sui trasporti che nasce dall'occupazione delle ferrovie
e sviluppa una capillare rete organizzativa, alle dieci giornate di lotta in
piazza degli studenti di Palermo, con la loro dinamica esemplare di costruzione
impetuosa dell'iniziativa di massa. Un filo comune che vede percorrere l'articolazione
e l'organizzazione « costruita » della lotta dalla tensione a uno
sbocco impetuoso e generale, e allo scontro aperto. Non c'è una Palermo
della rivolta, e una Torino dei consigli; e i binari occupati della stazione
di Napoli non sono altra cosa da quelli di Treviglio d'Adda. La tendenza alla
costruzione dal basso della lotta e dell'organizzazione ha dentro di sé,
dovunque, la stessa tensione alla rottura generale. La lotta degli studenti
di Palermo, degli studenti di Trapani, dei cinquecento studenti professionali
di San Giovanni Teduccío che occupano per tre giorni e tre notti il municipio,
non sono che anticipazioni e manifestazioni di un contenuto generale fondamentale
della lotta degli studenti, del suo rapporto con la crisi, con l'attacco all'occupazione
e al reddito proletario, con la classe operaia e con i settori proletari o semiproletari
che la crisi colpisce più spietatamente. Una tendenza comune, e un intersecarsi
del deposito politico e del risultato organizzativo delle lotte diverse: del
comitato dei pendolari e del consiglio di fabbrica, della ronda operaia contro
gli straordinari e del comitato per l'autoriduzione, del comitato di lotta per
la casa e del comitato antifascista. Questo equivale a dire che lo sbocco generale
della lotta non potrà coincidere con l'estensione e la generalizzazione
di una singola forma di lotta attuale; che uno sviluppo generale dell'organizzazione
di massa non potrà coincidere con la generalizzazione di una singola
forma di organizzazione attuale. Essi, viceversa, non potranno che rappresentare
la convergenza e lo sviluppo, dentro uno sbocco generale del movimento, dell'accumulazione
di coscienza, di iniziativa, di organizzazione e di forza che oggi si va realizzando.
In essa, ha un peso grande l'iniziativa antifascista. Sono le condizioni politiche
di questa fase a galvanizzare lo squadrismo fascista - la serie intollerabile
di aggressioni omicide di Roma è l'esempio più evidente - e a
indurre il partito fascista a ricercare uno spazio rinnovato di presenza pubblica.
I fatti di Monteverde insegnano. Su questo terreno, dobbiamo assumere con molta
maggior forza la nostra responsabilità di avanguardia rispetto alla pratica
antifascista, senza di che assai debole sarebbe una campagna per il MSI fuorilegge,
che è certo uno strumento importante di organizzazione di massa, di risposta
alla contraddizione fra linea revisionista e volontà di massa, di acutizzazione
delle contraddizioni interne alla borghesia e allo stato. La forza dell'iniziativa
di lotta sul terreno sociale riflette il carattere generale dell'offensiva capitalista.
Un posto fondamentale assume in essa la lotta dei disoccupati, nella quale siamo
presenti e attivi a volte in modo positivo, come di recente a Siracusa, ma in
generale in modo inadeguato ed episodico. Gli esempi di Napoli mostrano quale
forza di continuità e di organizzazione, oltre che di iniziativa offensiva
sta nella lotta dei disoccupati. Non è un caso che i sindacati abbiano
appena recuperato nella loro piattaforma l'indennità di disoccupazione.
La forza della lotta degli studenti, il legame con l'iniziativa operaia contro
la ristrutturazione e la smobilitazione, rendono enormemente più forte
un'iniziativa sul salario dei disoccupati, per l'abolizione delle discriminazioni
contro i lavoratori stagionali, per la estensione dell'indennità di disoccupazione
ai giovani in cerca di primo impiego, i più brutalmente colpiti dall'uso
padronale della crisi. La lotta su questo fronte è un aspetto fondamentale
della lotta per l'unità del proletariato, e lo è oggi, tanto più
precisamente, di fronte a un progetto padronale di divisione e isolamento attraverso
una caricatura provocatoria della garanzia del salario. Non l'agitazione generale
delle parole d'ordine sulla disoccupazione, che pure è stata ed è
importante, ma l'organizzazione pratica della lotta, nelle diverse situazioni,
contro l'articolazione locale del potere dello stato e de] governo, è
possibile e necessaria.
La forza degli studenti...
Abbiamo visto quale fondamentale punto di forza dello schieramento proletario è rappresentato dagli studenti La partecipazione degli studenti alle scadenze generali della lotta operaia è stata ovunque plebiscitaria la loro disponibilità a darsi scadenze proprie di lotta generale sia sul piano della mobilitazione antimperialista, antifascista, antidemocristiana, come il 5 novembre per la venuta di Kissinger e poi per l'assassinio di Argada, sia sul terreno specifico della scuola, come nello sciopero nazionale del 28 novembre, ha ricevuto quest'anno una conferma superiore alle aspettative. Questa forza straordinaria degli studenti, che in molte situazioni, nelle scadenze generali della lotta operaia, sono arrivati a costituire persino la componente maggioritaria dei proletari scesi in piazza, si è fin dall'inizio dell'anno intrecciata con continuità alla mobilitazione su temi specifici AI movimento, su piattaforme di istituto, di città, di zona a partire dal problema dell'edilizia e dei turni, e della lotta sugli obiettivi sociali che vedevano impegnato il resto del proletariato, come l'autoriduzione, la lotta per i trasporti, ecc. In molte situazioni questo ha messo di fatto la direzione del movimento in mano alla componente più direttamente legata alla vita e ai bisogni del proletariato: gli studenti tecnici e professionali. In molte situazioni ciò ha comportato di fatto l'emergere di un modo nuovo di far politica e di organizzarsi; un modo che mette al centro la meticolosità del lavoro politico, la concretezza degli obiettivi di lotta e l'attenzione per la maggioranza dei propri compagni, in forma assai vicina al modo di operare delle avanguardie di fabbrica; in altre situazioni la spinta alla lotta ha reso di fatto gli studenti protagonisti ed interpreti della tendenza allo scontro frontale e della volontà di arrivare a una resa dei conti che caratterizzano sempre più, in questa fase, tutto il proletariato: se di questo aspetto si sono avute manifestazioni inequivocabili in molte città, da Napoli a Roma, a Milano, sia nelle scadenze di lotta generale, sia nella prontezza della risposta di massa al terrorismo fascista, i dieci giorni di lotta generale a Palermo contro l'aumento del prezzo dei trasporti costituiscono senza dubbio la riprova maggiore sia del ruolo degli studenti e del loro rapporto con il resto del proletariato, sia di una tendenza generale della lotta di massa in questa fase. Non un'eccezione, dunque, ma l'anticipazione di una situazione generale. È significativo che, nelle nuove avanguardie studentesche, il problema della crisi venga messo al centro della discussione e della lotta a partire dalla disoccupazione giovanile, e dall'attacco borghese alla scolarizzazione di massa, che è uno dei tanti mezzi che si affiancano alla ristrutturazione, all'attacco al pubblico impiego al blocco delle assunzioni per tornare a rendere « fluido » il mercato del lavoro.
...e il loro programma
Il modo in cui si articola il programma di lotta degli studenti parte da queste constatazioni e lega alla lotta generale contro la ristrutturazione gli altri contenuti, da quelli contro i costi della scuola, a quelli contro la selezione, a quelli per la democrazia e la libertà di sperimentazione e di insegnamento. Non si tratta di una proiezione meccanica e schematica dei contenuti del programma operaio, come rischiava di accadere ancora negli scorsi anni nel modo in cui certi temi di lotta contro i costi o per la difesa del salario venivano proposti al movimento. Si tratta di una impostazione che si radica direttamente e materialmente nella condizione degli studenti, nella loro provenienza o collocazione sociale, molto spesso operaia, e proletaria, ma, ancor più, nella loro destinazione sociale di disoccupati, sottoccupati, sottosalariati, che la crisi smaschera, accentua e rende generale. Questo fatto evidenzia il rapporto che intercorre tra movimento degli studenti e classe operaia; un rapporto che non è di « alleanza », non è cioè di compagni che percorrono un tratto di strada insieme, sacrificando ciascuno qualcosa del proprio programma e dei propri interessi all'altro, ma è di progressiva omogeneizzazione e di unificazione intorno al programma operaio.
Movimento degli studenti e proletariato
Alla radice di questo rapporto c'è senza dubbio il fatto
che la scolarizzazione di massa ha fatto coincidere in modo sempre più
ampio la figura dei proletario giovane con quella dello studente (oggi gli studenti
della scuola media secondaria sono la maggioranza assoluta dei giovani delle
corrispondenti classi di età) e, ancor più, il fatto che le prospettive
occupazionali sono tali da declassare in modo sensibile anche i figli di quegli
strati « intermedi » che avevano trovato finora un elemento per
sentirsi diversi dal proletariato.
Ma il rapporto tra proletariato e movimento degli studenti non è un fatto
puramente meccanico. Se il rapporto tra movimento e lotte operaie si radica
nella condizione e nella provenienza sociale di una componente decisiva degli
studenti, la forza di attrazione del movimento, della sua direzione rivoluzionaria,
e il fatto decisivo della giovane età degli studenti, che li rende aperti
a scelte radicali, fa sì che l'unità dei movimento si estenda
ben aldilà di questa prima componente, coinvolgendo, intorno ai contenuti
e ai temi dei programma operaio 1a grande maggioranza dei figli dei ceti impiegatizi,
degli strati intermedi, dei lavoratori terziari, dei produttori più o
meno indipendenti, e arrivando persino ad influenzare politicamente e ideologicamente
una componente della borghesia media e alta.
La forza disgregatrice del movimento degli studenti - soprattutto là,
come nei piccoli centri e in molte zone del meridione, dove esso rappresenta
la maggiore forza sociale in lotta - nei confronti dell'unità corporativa
interclassista su cui si reggono l'ideologia e la coesione sociale e politica
dei cosiddetti ceti medi - non sarà mai sottolineata abbastanza. Essa
rappresenta di fatto il principale strumento nelle mani del proletariato - e
della sua direzione rivoluzionaria - per esercitare la sua direzione politica
in un campo su cui altrimenti avrebbe poche occasioni di intervento. Non si
può capire la crisi della D.C., dell'interclassismo cattolico, dell'egemonia
culturale e politica della borghesia sulle forze sociali non operaie, né
si può lavorare ad uno sbocco rivoluzionario e non reazionario di questa
crisi senza contare a fondo sul ruolo e sulle. potenzialità del movimento
degli studenti.
Studenti e soldati
Vogliamo fare alcune annotazioni particolari sul rapporto fra
studenti e soldati. Quando diciamo che la maggioranza dei giovani sta nelle
scuole, diciamo che nelle scuole sta la forza sociale più consistente,
più sensibile materialmente e politicamente alla questione complessiva
delle Forze Armate, del servizio di leva, delle sue condizioni, della sua funzione
ecc. Ogni ulteriore ritardo nel raccogliere questa straordinaria forza è
una gravissima responsabilità della nostra organizzazione. In particolare,
il movimento dei soldati vive un fondamentale passaggio dalla prima fase, quella
di una costruzione di presenza, di collegamenti, di iniziative sostanzialmente
chiuse nell'« istituzione », e articolate verticalmente - coi soldati,
per intenderci, che riuscivano a sapere cosa facevano altri soldati da un'altra
parte, ma non che cosa facevano i proletari nella città in cui stavano;
e, corrispondentemente, con una struttura «separata » del nostro
lavoro esterno - alla fase dell'incontro, e della comunicazione, dell'iniziativa
comune col proletariato del luogo in cui sono di stanza, cioè con la
presenza diretta, anche fisica, nella lotta di classe proletaria - e, corrispondentemente,
a un nostro lavoro che è, e deve essere, sempre meno « separato
» e sempre più integrato nella vita complessiva dell'organizzazione.
In questa direzione la forza sociale degli studenti può avere un peso
gigantesco, che oggi non viene raccolto, e può rappresentare, oltre e
prima delle specifiche occasioni di collegamento politico, la possibilità
di un fondamentale rapporto umano fra i giovani proletari in divisa e i giovani
che vanno a scuola. Questa possibilità riguarda non ristrette avanguardie,
ma la massa degli studenti e la massa dei soldati. Essa deve essere attentamente
e creativamente considerata.
In ultimo luogo, il rapporto fra soldati e studenti può offrire una leva
formidabile per allargare la coscienza politica degli studenti, per ricollegare
nella loro composizione, e nella loro mobilitazione, gli aspetti complessivi
di un'operazione imperialista che si presenta loro direttamente nell'attacco
alla scolarizzazione e nella chiusura degli sbocchi di lavoro, e che si lega
alla ristrutturazione produttiva, all'attacco di fabbrica, e alla ristrutturazione
militare (anche qui, nei termini più elementari, l'attacco alla base
proletaria, alla « rigidità » dei soldati di leva, per la
« mobilità » e la professionalizzazione, per un salto nell'organizzazione
tecnico-militare e nel suo impiego).
Proporre, nelle loro articolazioni concrete, i temi generali dell'internazionalizzazione
della ristrutturazione, della militarizzazione del potere, alle avanguardie
di massa degli studenti, è un compito possibile, ed una condizione feconda
per il loro armamento politico, perché giochino il ruolo che possono
giocare nell'impegno internazionale, nella lotta alla guerra (pensiamo all'eventualità
della guerra in Medio Oriente), nella coscienza antigolpista.
La fabbrica
Ma il cuore dei rapporti di forza tra le classi, e la posta
ultima dello scontro, è la fabbrica. Rimodellare la fabbrica, e rimodellare
lo stato sulla misura della ristrutturazione della fabbrica, questa è
la sostanza del programma padronale. Il grande capitale ha imparato la lezione
di sei anni di lotta, e cerca di voltare pagina. Deve farlo in Italia con maggiore
urgenza, ma anche nella stragrande maggioranza dei paesi industrializzati. Il
grande capitale riconosce la vittoria della classe operaia di linea, dei senza
mestiere, degli immigrati, e sceglie di liquidare un ciclo storico del proprio
sviluppo, e di aprire una nuova fase dello scontro di classe.
1 borghesi parlano di crisi di mercato, di crisi dell'auto, di un ciclo che
doveva in ogni caso finire. Sono argomenti ripresi anche dalla sinistra revisionista,
che riconosce ai movimenti del capitale nella crisi un carattere di ineluttabilità
e di oggettività, e confina al suo interno gli spazi della lotta. A smascherare
questi argomenti bastano le cifre degli investimenti e dei profitti delle maggiori
aziende automobilistiche europee e americane in questi ultimi anni. Calano i
profitti, sotto la spinta salariale, sono drasticamente ridotti gli investimenti
in tutti i paesi industrializzati. 1 grandi padroni lavorano a trasformare il
loro capitale in capitale finanziario, a dirottare investimenti e profitti al
di là dei confini nazionali, ad appropriarsi sempre più direttamente
degli strumenti dello stato, a recuperare le proprie sconfitte con la rapina
dell'inflazione. Le linee principali della ristrutturazione sono determinate
così: da una parte si trasferisce la produzione nei paesi non industrializzati,
e nei quali comunque la classe operaia è più debole per ripercorrere
in quei paesi il cammino di accumulazione compiuto in patria; dall'altra parte
si modifica la struttura produttiva, e si riduce pesantemente la base produttiva,
e in sostanza la classe operaia, per cambiare la faccia della classe operaia.
Per ottenere, col licenziamento, la mobilità, il blocco delle assunzioni,
la riduzione delle commesse, che si sgretolino le basi della unificazione del
proletariato, a partire dalla forza dell'autonomia nei reparti, e per provocare
isole corporative e soprattutto ricatto, paura, lavoro precario, lavoro nero.
Non si ha la forza di uccidere il pesce, e si cerca di togliergli l'acqua. E'
un progetto che, dopo aver attraversato alcuni settori industriali, dai tessili
ai chimici, è diventato generale, ha investito i rapporti complessivi
fra capitale e lavoro. E' la scelta chiara che Agnelli guida in Italia, e che
sta investendo nel mondo tutti i grandi monopoli dell'auto. La Volkswagen di
cui i giornali scrivono che « è costretta a licenziare »,
ha prodotto nell'ultimo anno il numero più alto di « maggiolini
» di tutta la sua storia. Solo che li produce tutti in Brasile, dove un
operaio costa 29.000 lire al mese per 10 ore al giorno, con sette giorni di
ferie all'anno e gli scioperi vietati.
1 profitti ricavati in Brasile non li investe nell'auto, ma nell'allevamento
del bestiame, sempre in Brasile. E in Germania gli operai turchi e jugoslavi
e italiani sono espulsi in nome di una crisi che deve permettere domani di sfruttare
meglio chi resta, gli operai tedeschi. Partono anche gli operai portoghesi,
marocchini, algerini delle grandi fabbriche francesi - e per loro non vale il
salario garantito di Giscard -. Il padrone ha riconosciuto l'antagonismo irriducibile
che lo oppone all'operaio di linea, e su questa lezione spinge a fondo il suo
uso della crisi. Per chi a questo antagonismo non ha mai creduto, o voluto credere,
è d'obbligo la ricerca affannosa di soluzione alla crisi: maggiore professionalità
diversificazione produttiva, investimenti al Sud, nuovi modelli e via dicendo.
E di questo passo basta qualche balla raccontata da Agnelli, e si scatena il
core, trionfale della fine del taylorismo, della grande vittoria operaia del
nuovo modo di produrre; e poi basta qualche misero investimento al sud finanziato
per di più dallo stato, per immaginare e decantare la fine del divario
fra nord e sud. Sono le cose che sentivamo appena un anno fa! Alla scelta che
il grande capitale oggi spinge a fondo si oppongono contraddizioni insuperabili.
Molti dei paesi che dovevano essere al riparo della forza operaia diventano,
al contrario, i paesi più investiti dalla lotta operaia: è così
per l'Argentina, per la Spagna. In ltalia si tratta di fare i conti con la classe
operaia più forte del mondo.
I compagni guardano alla FIAT
Alla FIAT l'attacco mosso con la cassa integrazione e con la
drastica riduzione delle commesse a tutto il ciclo dei fornitori, mirava e mira,
in primo luogo, a spezzare l'unità della classe operaia. Le mobilitazioni
generali di novembre e poi dello sciopero generale dei 4 dicembre hanno mostrato
il grado più alto di unità e di tensione politica di tutti gli
ultimi anni. Da questa coscienza di unità e di forza nascono le innumerevoli
lotte operaie che nelle condizioni nuove di maturazione ripropongono non obiettivi
di difesa corporativa, ma la linea del 69, la linea dell'egualitarismo e del
rifiuto del modo di produzione capitalista.
A fronte di questo, sta una politica sindacale che segna, questa sì,
una vittoria dei grande capitale, l'approdo di una svolta nel ruolo del sindacato
verso ciò che vogliono farne i grandi padroni e lo stato. Il sindacato
legittima la crisi, accetta di trattare l'uso della crisi, di contare le macchine
sui piazzali o le lavatrici nei magazzini, di trasformare i delegati in caricature
di amministratori delegati. A che cosa miri la manovra padronale verso il sindacato
è chiaro: da una parte all'abbandono del terreno di fabbrica, che il
sindacato era stato costretto a occupare dalla forza dell'autonomia operaia;
dall'altra alla complicità con le scelte imperialiste delle grandi multinazionali.
E vengono le approvazioni agli scorpori di società, e gli accordi sui
ponti.
La fine del processo sarebbe la corporativizzazione più subalterna del
sindacato In cambio di che cosa, quando nessuno più può prendere
sul serio la speranza, per ora come in futuro, di « nuovi meccanismi di
sviluppo »?
«Bisogna rifare come nel '69»
Quale deterrente continui tuttavia a costituire l'autonomia
operaia, lo mostra lo stesso andamento dell'attacco di Agnelli, teso a non superare,
né con forti riduzioni di salariato, né con misure clamorose contro
l'occupazione la soglia della rivolta operaia. E' un gioco pericoloso che ottiene
dei risultati parziali tua pesanti, ma che ha spazi sempre più ridotti.
Un gioco che dovrà presto smettere le vesti della trattativa continua
che ancora oggi, con le fabbriche vuote, ostenta, per indossare quelle dello
scontro frontale. Uno scontro le cui caratteristiche stanno simbolicamente nella
frase operaia: « bisogna rifare come nel '69 ».
Soprattutto nell'ultimo anno dopo l'accelerazione prodotta dalla crisi de] petrolio,
l'attacco all'occupazione operaia si è manifestato in Italia con due
tendenze, apparentemente contraddittorie: da un lato la smobilitazione di piccole
fabbriche e il blocco delle assunzioni nelle maggiori concentrazioni industriali,
che ha portato a una riduzione netta degli occupati, specialmente se si considerano
oltre agli operai che se ne vanno, quelli che non hanno la possibilità
di entrare, in particolare le donne e i giovani; dall'altro lato, un aumento
pauroso de] lavoro « nero », dell'appalto, del lavoro a domicilio,
non solo nei settori tradizionali, ma anche in quello meccanico, elettronico,
ecc., e perfino in strati di impiegati. La deflazione, la stretta del credito,
la riduzione delle commesse delle grandi industrie, colpisce più direttamente
la piccola industria, cioè la classe operaia della piccola industria
che è la grande maggioranza della classe operaia italiana.
Questa classe operaia aveva sviluppato da pochi anni una gigantesca forza di
lotta, favorita dalla condizione del mercato del lavoro e soprattutto dallo
scambio continuo, anche diretto, con le grandi fabbriche, con i loro obiettivi
e le loro forme di lotta e di organizzazione (nel marzo 73 sull'onda di Mirafiori
sono decine di piccole fabbriche torinesi che vengono occupate simultaneamente).
Nelle piccole fabbriche come nelle grandi: una dimensione generale
La continuità di questo interscambio è ancora
oggi una condizione determinante (e si consideri la linea di abbandono del sindacato
verso le piccole fabbriche!) La risposta all'attacco padronale c'è, ed
è in molti punti fortissima. Sono innumerevoli le occupazioni di piccole
fabbriche contro i licenziamenti, le lotte aperte contro la ristrutturazione
— in molti casi vincenti — le lotte per il salario. Dovunque gli
operai delle piccole fabbriche sono i protagonisti in ogni occasione di lotta
e di mobilitazione generale, ma soprattutto, nella lotta di fabbrica, sono il
centro di un'iniziativa che si rovescia all'esterno, che suscita energie, collegamenti,
organizzazione, che trasforma una debolezza strutturale in forza politica. Le
piccole fabbriche sono un anello determinante della risposta alla ristrutturazione
e della stessa ripresa generale della lotta operaia. Gran parte dei nuovi operai
che entrano nelle nostre file in questa fase sono delle piccole fabbriche. Ma
questo dato è solo in alcuni casi il risultato di una nostra azione efficace:
in altri casi, è il risultato di un rapporto parassitario fra la nostra
organizzazione e la crescita autonoma di lotta e di politicizzazione delle piccole
fabbriche. L'insufficienza del nostro impegno è tanto più grave
nelle zone, e sono molte, in cui più ridotte sono le condizioni materiali
e politiche della risposta operaia. Nelle grandi fabbriche, i trasferimenti,
il blocco delle assunzioni, le trasformazioni tecniche e organizzative tese
a ridurre gli organici, hanno inciso sulle condizioni di partenza e di propagazione
della lotta interna. E vanno di pari passo l'aumento selvaggio della repressione
e dello sfruttamento e un ulteriore processo di dequalificazione e degradazione
del lavoro. Cresce, spesso esplode, nei reparti e nelle officine, la tensione
contro le condizioni di lavoro, contro la gerarchia di fabbrica, e più
in generale per la difesa del salario e contro la restaurazione della dittatura
padronale sull'uso della forza-lavoro. La coscienza della necessità,
contro il carovita come contro la stessa dimensione generale della ristrutturazione,
della lotta generale è un patrimonio profondo della classe operaia, e
sta dietro l'impegno nella lotta sociale. Essa mette all'ordine del giorno obiettivi
generali, dalla rivendicazione della riduzione dell'orario di lavoro a parità
di salario e di occupazione a quella di forti aumenti salariali egualitari,
a quelle legate alla difesa della « rigidità » operaia obiettivi
che sono già presenti in molte situazioni (nei chimici, nella siderurgia
e che si saldano con la rivendicazione dell'anticipazione di tutti i contratti
di lavoro. Ma è fondamentale, in questa fase, far vivere quegli obiettivi
e quella rivendicazione generale nella lotta interna, nella mobilitazione e
nell'iniziativa diretta dei settori operai di avanguardia nella sconfessione
pratica, con la lotta, della linea della cogestione della crisi: sarebbe un
grave errore abbandonare la lotta politica sui e nei consigli, nel momento in
cui sul loro esautoramento politico totale si vuole far passare perfino formalmente
una definitiva normalizzazione burocratica: ma certo i consigli di fabbrica
non hanno oggi, nelle situazioni decisive, la forza di dirigere la lotta di
fabbrica, e tanto meno di far da tramite alla generalizzazione della lotta.
È significativa e feconda la spinta, che va diffondendosi e precisandosi,
alla ricostruzione nei reparti della rappresentanza operaia, in funzione dell'iniziativa
diretta di lotta e di una nuova comunicazione di direzione in fabbrica a partire
dalle avanguardie reali.
La crescita di questa tendenza, il suo scontro con i consigli e gli esecutivi
e il suo legame con ciò che è vitale nell'organizzazione dei delegati
è un obiettivo preciso di questa fase. Gli esempi iniziali di un intervento
organizzato delle avanguardie operaie a partire dai picchetti contro gli straordinari
(che sono oggi insieme alla reintroduzione massiccia delle paghe « nere
», lo strumento fondamentale di divisione operaia all'esterno della fabbrica
e con un collegamento tra fabbriche diverse, costituiscono una importante indicazione.
Vertenza sindacale e governo
L'andamento della vertenza sindacale è messo in forse: dalle tensioni dentro il governo e i partiti della maggioranza. La promessa di Lama - « chiuderemo entro Natale » - è finita in soffitta. Nelle posizioni assunte dal governo, nessuna soluzione è stata proposta sulla « garanzia del salario », sulle pensioni e sulla contingenza. Tutto è fermo alla richiesta governativa del blocco dei salari. Queste posizioni hanno praticamente obbligato alla convocazione dello sciopero un sindacato che avverte con paura la tensione nel movimento di massa. L'irrigidimento dell'attacco padronale - sostituzione della trattativa sulla contingenza con quella sugli assegni familiari, che spettano solo agli operai stabilmente occupati; liquidazione degli scatti di anzianità, ormai diventati da strumento dell'« affezione » operaia, intralcio alla mobilità -, la manovra di drastica divisione salariale tra nord e sud, la pesante riduzione del salario nel pubblico impiego, sono altrettanti elementi di aggravamento delle tensioni. Il governo Moro unifica, nella sua composizione e nella sua pratica, i tratti dell'offensiva del grande capitale con quelli espliciti e provocatori della reazione.
La natura del governo Moro
La sua natura ambiguamente reazionaria sta sotto a gli occhi
di tutti, ed esige una risposta aperta. Siamo di fronte alla mostruosa possibilità
che Freda e Ventura siano scarcerati, mentre è una possibilità
imminente la scarcerazione di Miceli. Avocazione (e affossamento) delle inchieste
antigolpiste; accelerazione della ristrutturazione delle FF.AA. e spaventosi
aumenti del bilancio militare, su ordine diretto degli americani; realizzazione
del fermo di polizia sotto le mentite spoglie del decreto sulle armi improprie:
non sono che alcuni anelli di una catena impressionante che salda attacco antioperaio
e attacco antidemocratico. Si tratta, per la D.C., di prendersi la rivincita
sui risultati della mobilitazione antifascista degli ultimi anni, e di restaurare
il controllo e la compattezza dell'apparato centrale dello stato - dall'uso
della cassazione di Colli alla magistratura romana; dal rilancio delle revisioni
costituzionali alle regalie provocatorie a una ristretta cerchia di superburocrati;
dai poteri di polizia alle spese militari.
Abbiamo detto « ambiguamente reazionario » e in realtà il
governo Moro nasce su questa ambiguità e su essa si appoggia. Immaginato
come il governo di una D.C. sbilanciata a sinistra, costretto a scegliere un
rapporto esclusivo col PSI, il governo Moro diventa subito quello della astensione
dei liberali, dei ricatti di Tanassi, delle firme democristiane per il fermo
di polizia. Si mescolano in questo governo i tratti di componenti, dal PSDI
al centro della DC, apertamente reazionarie con quelli di componenti, come il
PSI, ridotte a ostaggio non più solo della DC, ma della manovra reazionaria
della DC. II giudizio che noi stessi abbiamo dato sul personaggio Moro ne esce
confermato e precisato: non un democratico ma un manipolatore di democrazia,
nemico infastidito e spaventato delle ingerenze popolari sugli affari dello
stato, servitore devoto della solidità e dell'autorità di uno
stato nei cui corpi va ricondotta e sciolta ogni contraddizione. Come il vecchio
Giolitti, al quale gli piace di assomigliare, mescola malavita e lusinghe mediatrici,
teme le «forze inorganiche » - la lotta di classe - e ama quelle
organiche come i sindacati su cui inventa costruzioni pluralistiche alle quali
il governatore della Banca d'Italia s'incarica di dare il solido contenuto corporativo
che occorre. Che questa ambiguità minacci costantemente il governo dal
suo interno è un fatto: bolle la destra democristiana, e i socialisti,
bontà loro, devono ricominciare a brontolare. La rissa nei corpi separati
è assopita, ma cova furibonda. Il « compromesso storico »
a Venezia, la giunta di sinistra a Mantova e il minaccioso approssimarsi delle
elezioni regionali (che molti, nella DC, vorrebbero sostituire con quelle politiche,
dove, in termini di potere materiale, contano di perdere di meno) sono altrettanti
fattori di fragilità del governo. I sindacati - e anche il Corriere della
Sera - hanno le maggiori ragioni per essere preoccupati. Da una parte c'è
la paura di una situazione sociale vista come una polveriera (nell'ultima riunione
confederale arriva un burocrate della CISL e dice: « le federazioni dei
pensionati stanno discutendo il blocco dei nodi ferroviari »; quello dei
ferrovieri dice che tutti vogliono lo sciopero di 24 ore, e così via);
dall'altra, la sensazione di un tradimento - « il governo ha una posizione
imprevista », dice la CISL - che rischia di mandare a carte 48 gli ambiziosi
progetti di ridistribuzione dei poteri interni e di accordi quadro E' una riprova,
più rapida delle previsioni ,dell'acutezza della crisi democristiana
e della pesante inerzia delle contraddizioni nel regime con cui il programma
di ristrutturazione si scontra. Scricchiola il controllo sugli enti locali,
sui dipendenti pubblici; e le conseguenze sul sud della politica economica fanno
temere l'esplosione.
Governo Moro e centralità democristiana
La crisi del 5° governo Rumor era stata salutata dal grande capitale con l'annuncio della cassa integrazione alla FIAT; la nascita del governo Moro con l'accordo sul ponte e sullo stoccaggio. In queste date è sintetizzata in modo emblematico la natura del governo Moro. Esso ha potuto fare suo non il programma di un « rilancio » della economia, per impegnarsi in una donchisciottesca battaglia contro i mulini a vento della crisi mondiale, ma il programma di assecondare la crisi fino in fondo, perché il grande capitale era ormai pronto ad affrontarla con una ristrutturazione generale. Il governo Moro è il governo della Confindustria; il suo programma è quello di imprimere pienamente alla bestione della crisi il segno del grande capitale. Ma il governo Moro è, anche, il governo della difesa e del rilancio della centralità democristiana, perché il grande capitale ha dimostrato, e dichiarato, di non saper gestire la crisi senza la DC. Ristrutturazione della DC e ristrutturazione economica dovrebbero così marciare di pari passo nelle scelte pratiche come nelle linee programmatiche del governo: in questa operazione, tesa a riunificare gli strumenti del regime democristiano con la Confindustria, il fascismo di stato con il grande capitale, che la crisi e la lotta di classe avevano rischiato di dividere, stanno la forza ed insieme la fragilità del governo Moro. La forza è la rete di ricatti e di minacce fatte pesare sui vertici del PCI e sul movimento sindacale per costringerli ad assistere impotenti o a rendersi conto di una operazione di ridimensionamento, anche istituzionale, del peso dell'opposizione, cui Moro lavora da tempo con la sua « strategia dell'attenzione ». La debolezza sta nel fatto che le sorti di una gestione capitalistica della crisi sono sempre più strettamente e irreversibilmente legate alle sorti della DC. Questo vuol dire innanzitutto che oggi il governo Moro, la sua pratica scopertamente reazionaria come il suo programma apertamente padronale, rappresentano nella loro sostanza non una scelta di breve respiro per tirare a campare qualche mese in più, ma una scelta generale, a cui sono legate le sorti della gestione capitalistica della crisi. Che questo governo sia debole e minato al suo stesso interno è un segno della forza operaia e della acutezza a cui è giunto lo scontro di classe, ma questo non toglie che esso oggi rappresenti il nemico principale con cui la forza operaia si trova a dover fare i conti. Senza il soccorso del grande capitale italiano e internazionale la crisi della DC sarebbe ormai esplosa in una aperta spaccatura al suo interno. Senza l'unità e la adesione della DC e del suo regime, ristrutturare, cioè colpire al cuore, innanzitutto dentro la fabbrica, la forza della classe operaia, sarebbe, per il grande capitale impossibile. Per questo le scadenze che la DC si trova di fronte, dalle elezioni regionali alla tesa dei conti tra le sue componenti, sono questioni centrali per la lotta di classe e per la lotta operaia. In particolare, se è vero che le elezioni sono un terreno impegnativo di verifica della misura in cui Moro, o chi gli succedesse in un ennesimo riaggiustamento, sarà riuscito ad arginare la crisi democristiana, non va dimenticato che i risultati elettorali non sono che il riflesso, certamente non meccanico, della misura in cui lo scontro di classe è arrivato a colpire e disarticolare il regime democristiano. In particolare, di fronte a queste scadenze, la questione decisiva sarà se la DC ci arriva sconfitta dal movimento di massa, o comunque impegnata a fare i conti in campo aperto con la forza della classe, o se ci arriverà avendo segnato dei punti decisivi sul terreno della ristrutturazione, dell'attacco al salario e all'occupazione E' la lotta insomma che decide, e decide anche del voto.
La sconfitta della D.C.
Quali sbocchi si possono aprire sul terreno istituzionale di
fronte alla possibilità che la crisi della DC vada verso una precipitazione?
Su questo problema, più che mai, dobbiamo evitare di ragionare come se
questi sbocchi dipendessero da noi, dalle nostre scelte, o addirittura dalle
nostre preferenze, e non invece dalla dinamica della lotta di massa, dalle tendenze
di un movimento che a noi spetta riconoscere, assecondare e cercare di dirigere,
perché sia più forte, perché vada fino in fondo, perché
sia vincente. Quello che ormai da più di un anno noi dibattiamo come
il problema del governo, o anche, molto più spesso, come il problema
del PCI al governo, si pone esattamente in questi termini. La verità
è che il governo Moro, e dietro ad esso la DC, e con la DC tutto il regime
che ha dominato l'Italia per conto del grande capitale negli ultimi 30 anni,
si trovano stretti tra la crisi generale del capitalismo e la forza di un movimento
di massa capaci di determinarne il tracollo. Questa prospettiva non è
affatto certa, ma è necessario riconoscere che la sua possibilità
sta nella realtà del movimento, e che adesso dobbiamo lavorare perché
il fatto che non si realizzi non può ormai che coincidere con una sconfitta
storica della classe operaia.
La consumazione della crisi della DC come perno dell'attuale regime segnerebbe
in modo drastico il passaggio ad una nuova fase della lotta di classe in Italia,
mentre esso costituisce l'obiettivo politico centrale di questa fase. La crisi
e il collasso della DC non mettono all'ordine de] giorno la presa del potere.
Nelle nostre tesi abbiamo riportato - una delle poche - una vecchia frase di
Mao che dice: « La possibilità di aprire un processo rivoluzionario
nei paesi europei vi sarà quando la borghesia sarà veramente ridotta
all'impotenza, e quando la maggioranza del proletariato sarà decisa a
condurre l'insurrezione armata ed una guerra ». Noi siamo convinti che
la crisi della DC inibisca, in misura certo non definitiva, ma sostanziale,
le possibilità di gestione capitalistica della crisi, ma questo non significa
certo che la borghesia è ridotta all'impotenza. Si può e si deve
mettere all'ordine del giorno questa sconfitta storica della DC, e sull'onda
di una lotta di massa di cui oggi distinguiamo i segni premonitori, ma questo
non significa che la maggioranza del proletariato sia preparata a condurre un'insurrezione
armata e la guerra. Stanno in questi limiti i compiti della lotta di massa e
della sua direzione rivoluzionaria nella prossima fase: ridurre la borghesia
all'impotenza, conquistare, materialmente e non solo ideologicamente, la maggioranza
del proletariato alla prospettiva della rivoluzione.
Crisi della D.C. e situazione internazionale
È questa una prospettiva resa concreta dalla situazione storica in cui si sta consumando la crisi della DC. Questa situazione è caratterizzata da una crisi mondiale del capitale che porta al pettine i nodi accumulati nei 30 anni dello sviluppo postbellico sotto l'egemonia dell'imperialismo USA. Una crisi che ha nella forza della classe operaia il risvolto costante e che con molta probabilità, già a partire da quest'anno, arriverà ad intaccare quello che finora è stato il principale baluardo della stabilità economica, della presenza Nord americana e della identità politica della borghesia europea: la Germania. Una crisi destinata ad acutizzare al massimo l'aggressività e la tendenza alla guerra dell'imperialismo, come già oggi e siamo solo agli inizi, possiamo constatare per il medio oriente, e che deve vedere i rivoluzionari e i proletari di tutto il mondo impegnati a mobilitarsi ed a lottare per fermare la mano dell'imperialismo, dei suoi servi, per sottrarsi con la forza alla prospettiva altrimenti certa di subire questa logica di guerra. Una crisi infine che tra recessione e inflazione ha già provocato nel Mediterraneo, in Grecia e in Portogallo, il crollo di due regimi una volta ritenuti tanto solidi quanto reazionari, ed ha messo in moto in Portogallo un processo che, pur traendo origine da fenomeni come il colonialismo, estranei alla situazione italiana, mostra però in modo esemplare quali sono le condizioni attraverso cui è necessario passare perché la borghesia sia ridotta all'impotenza ed il proletariato conquistato ad una prospettiva concreta di lotta armata: 1a disgregazione dell'apparato statale, fino al suo nucleo centrale costituito dalle Forze Armate, sotto la spinta della lotta di massa. Di fronte al collasso della DC, le prospettive aperte sul piano istituzionale non sarebbero molte: una svolta reazionaria, golpista o comunque apertamente reazionaria, che si appoggi sa quello che è il nucleo del regime e dello stato, le forze armate, che la crisi della DC coinvolge e al tempo stesso rende progressivamente autonome; oppure un mutamento di regime, che abbia nel PCI l'asse di un nuovo schieramento governativo. Noi riteniamo che, ad onta di un processo di adeguamento « tecnico » e politico delle Forze Armate ai loro « nuovi compiti » che procede a tappe forzate, una risposta generale di massa, che metta in campo la forza e la maturità politica e organizzativa del proletariato, ha la possibilità di sventare o battere un, colpo di stato in Italia o il tentativo di una svolta apertamente autoritaria. Noi diciamo che il colpo di stato può essere battuto, e non che esso non è possibile. La differenza è decisiva. La prima cosa è un impegno a mettere questo problema all'ordine del giorno, per affrontarlo politicamente nella vera sede dove deve essere affrontato: con le masse, dentro il lavoro di massa. Le parole d'ordine di carattere generale sulla messa fuorilegge dell'MSI, sull'organizzazione democratica dei soldati ecc. e la loro articolazione pratica, sono strumenti precisi di orientamento c di armamento politico delle masse su questo terreno. L'esperienza dei primi giorni di novembre, ricca di lezioni, ha fatto emergere la divergenza fra un modo di affrontare la possibilità del colpo di forza reazionario (magari proclamando demagogicamente che è impossibile) dandone per scontata la vittoria e preoccupandosi di salvaguardare la sopravvivenza dell'organizzazione, e un modo di affrontarla offensivo, che chiami all'azione le masse, la loro coscienza, la loro conoscenza.
Il mutamento di regime
Un cambiamento di regime che abbia il suo asse nella presenza
del PCI al governo significherebbe, per il processo stesso di cui sarebbe lo
sbocco, una riduzione drastica della possibilità di una gestione capitalistica
della crisi. Questo è il modo in cui noi guardiamo ad una simile prospettiva,
riconoscendovi una accresciuta possibilità della gestione operaia della
crisi, di una lotta diretta a ridurre la borghesia all'impotenza e a conquistare
il proletariato all'insurrezione.
Opposta evidentemente sarebbe la prospettiva di una borghesia costretta dalla
forza delle masse e dall'inadeguatezza delle alternative politiche a consegnare
nelle mani del PCI alcune leve del governo, in attesa di ripristinare le condizioni
per mettere in moto la macchina della ristrutturazione e per riassumere in prima
persona la repressione. E opposta sarebbe anche la prospettiva del PCI stesso.
Nel dibattito su questi temi, molti, fuori da noi, sembrano temere Che prevalgano
in una situazione di questo genere i pericoli insiti nel ruolo repressivo del
PCI. Un ruolo indubbio e ineliminabile di repressione connaturato all'organizzazione
revisionista non riesce a prevalere oggi nei confronti dell'autonomia delle
masse, e ben difficilmente potrebbe imporsi su un movimento di massa uscito
da una offensiva vittoriosa. Questa è la nostra opinione, che non sottovaluta
la natura revisionista ma si rifiuta di sottovalutare la forza delle masse;
e tuttavia il problema non è questo. Il problema è che se pensiamo
che la crisi della DC non possa avere un esito diverso (se non per una sconfitta
storica del movimento, come nel caso di una vittoria reazionaria) allora - per
i rivoluzionari - si tratta di lavorare perché l'autonomia delle masse
dalla direzione riformista e revisionista sia la più forte possibile.
Noi non vediamo la validità e la possibilità di altre ipotesi.
Le formulazioni su un « governo delle sinistre » in cui sembra affiorare
un riequilibrio di forze fra uno schieramento composito - fra socialisti, e
certe forze cattoliche, e certi settori della sinistra rivoluzionaria - hanno
tutti i connotati di un'operazione (che ha d'occhio soprattutto il sindacato)
candidata a sostituire, possibilmente senza troppe scosse, la DC nella gestione
della crisi e della ristrutturazione. È comunque una velleità
stretta fra la forza della crisi e quella della classe, senza alcuna possibilità
di successo. Così com'è una velleità, oltre che una profonda
mistificazione della natura della direzione revisionista, la formula della «
nuova opposizione », buona solo fintantoché il regime democristiano
tiene, senza di che non si capisce di quale governo le sinistre, dal PSI in
giù, vorrebbero essere opposizioni.
Sulle altre organizzazioni della sinistra
C'è un aspetto nel processo in atto nelle forze della
sinistra rivoluzionaria, comprese alcune minori di natura locale, che dev'essere
considerato positivamente, come un frutto — ben più maturo in Italia
che in altri paesi europei — della forza e della ricchezza politica del
proletariato. È la progressiva caduta di demarcazioni astratte e ideologiche,
e la corrispondente tendenza al confronto con la realtà e i problemi
che dalla realtà nascono. Questo processo costituisce il fondamento di
un rapporto nuovo e positivo fra noi e queste forze, che superi le chiusure
o l'empirismo tradizionale. Io credo che dobbiamo dare importanza a questo processo,
e alle occasioni che obiettivamente offre, più che alle soluzioni che
esso riceve e che sono spesso delle più negative. L'unificazione fra
PDUP e Manifesto sembra aver sommato le debolezze complementari di queste formazioni,
mettendo in moto una dinamica accelerata verso la parlamentarizzazione, sempre
più organica e indiscussa, di una linea riformista sulla crisi. In Avanguardia
operaia sembra dominante un vuoto pesante di indicazioni di linea che, se non
è nuovo, esprime tuttavia una disponibilità nuova di fronte al
crollo dell'impalcatura dottrinario-burocratica che tradizionalmente, in questa
organizzazione, aveva avuto il ruolo di mascherare e colmare quel vuoto. Non
affrontare organicamente il rapporto con queste forze, che non stanno, nel loro
corpo sociale, fuori dal movimento di classe, ma al suo interno, equivale a
subire questo rapporto. Noi abbiamo fino ad oggi in alcune occasioni sviluppato
la battaglia politica con queste forze; in altre occasioni realizzato forme
di unità d'azione. La verità è che nella maggior parte
dei casi abbiamo fastidiosamente subito sia la necessità di condurre
una battaglia politica, sia un'unità d'azione povera, casuale logorante.
Non può continuare così. Le divergenze di fondo che ci separano
da queste organizzazioni escludono dal nostro orizzonte ogni possibilità
di accettare una linea di aggregazione di partito. Questa indiscutibile convinzione
non chiude tuttavia il problema reale di questa fase, che è quello di
sollecitare metodicamente queste forze a una positiva unità d'azione.
La battaglia politica contro queste forze sui temi più generali della
autonomia operaia, del programma, del partito, del processo rivoluzionario non
deve essere il surrogato, ma lo strumento di una costante proposta positiva
di unità nella lotta. L'egemonia nella lotta su queste forze è
un compito che ci spetta, e che dobbiamo curare con un'attenzione specifica,
senza considerarlo un risultato meccanico della nostra iniziativa, e senza ritenere,
peggio ancora, che la sua assenza sia un bene, che le scelte sbagliate di queste
forze siano un bene. Queste forze non sono destinate a scomparire, né
noi possiamo lavorare sull'ipotesi di una loro scomparsa. Queste forze sono
destinate a sopravvivere, perché sono espressione di tendenze, posizioni
parziali e domande presenti nel movimento. Non è nemmeno discutibile,
per noi, la possibilità di subordinare il nostro lavoro di massa all'unità
con queste forze. Il problema è il grado di intelligenza politica e di
impegno pratico che dedichiamo a perseguire un'egemonia, che non può
che andare a vantaggio del nostro stesso lavoro di massa. Questo è possibile,
è reso possibile proprio dall'opportunismo e dalla fragilità politica
di queste forze, oltreché dal fatto che molti loro militanti sono sensibili,
per la loro stessa collocazione nelle masse, alla pressione delle masse. Esperienze
recenti, dai decreti delegati (per una mancanza di iniziativa nostra, dovuta
al ritardo con cui abbiamo sciolto questo nodo) alle lotte per la casa, all'autoriduzione,
all'antifascismo, mostrano una grossa debolezza nella nostra capacità
di egemonia, e ne mostrano anche le conseguenze non positive. Su problemi importanti
come il lavoro nelle forze armate la nostra capacità di egemonia è
rilevante, ma dovrebbe e potrebbe essere maggiore, se più attenzione
le venisse dedicata. Su temi di mobilitazione generale antifascista, com'è
oggi per la mobilitazione contro le avocazioni delle inchieste, contro la Cassazione,
contro la legge sulle armi ecc., l'unità con queste forze è un
obiettivo utile e possibile. Così è per campagne specifiche come
quella per l'aborto, sulla quale c'è un preciso consenso. In generale,
noi dobbiamo alzare il tiro della battaglia politica per alzare il tiro dell'unità
di azione, e armare meglio, nel rapporto con i militanti di queste forze, tutti
i nostri militanti. Nella battaglia politica, non dobbiamo trascurare l'utilità
del nostro intervento sulle contraddizioni che si aprono all'interno di queste
forze, per contribuire a indebolire o a impedire scelte che consideriamo sbagliate
e dannose. La discussione sulla presentazione elettorale è un esempio
attuale, ma non il solo.
Noi abbiamo fiducia nelle masse, abbiamo fiducia nella nostra linea politica:
queste sono ottime ragioni per impegnare ogni militante di Lotta Continua nella
battaglia politica e nella proposta di unità d'azione verso i militanti
delle altre organizzazioni, comprese quelle minori di natura locale; per impegnarci
senza reticenze, e senza superbie.
Le elezioni
Nell'affrontare la questione delle scadenze elettorali il punto
di partenza non può essere che la riaffermazione del fatto che la partecipazione,
diretta o indiretta, o l'astensione elettorale non costituiscono per noi delle
discriminanti di principio, bensì scelte tattiche subordinate a un giudizio
determinato in ciascun momento.
In questa fase, noi siamo contrari all'ipotesi, proposta invece da altre organizzazioni,
di una presentazione elettorale da parte della sinistra rivoluzionaria. Non
si oppone a questo, lo ripetiamo, né una ragione di principio, né
la considerazione, pur fondata ma superabile, delle forti differenze e divergenze
tra organizzazioni della sinistra rivoluzionaria. La nostra posizione dipende
dal giudizio sulla fase attuale. In una scadenza elettorale, che ci vedrà
pienamente impegnati, come e più che nel referendum, noi metteremo al
primo posto due obiettivi principali fra loro saldamente legati: il rafforzamento
dell'unità e dell'autonomia della classe sul programma dei bisogni proletari
contro la crisi, e la sconfitta della DC e del suo regime. Sul primo aspetto
noi fondiamo l'autonomia del nostro impegno in una scadenza elettorale, facendone
un'occasione importante per la generalizzazione e l'articolazione della direzione
operaia, facendone il terreno fondamentale del nostro rafforzamento di partito
e di scontro con il programma revisionista. Al secondo aspetto leghiamo la scelta
di indicare il voto al PCI, nella convinzione che essa raccolga nel modo più
favorevole l'unità del movimento di massa, che è la garanzia maggiore
contro ogni scioglimento a destra della contraddizione istituzionale che in
questa fase continua a opporre la DC al PCI. Le ragioni addotte in favore di
un uso della scadenza elettorale che allarghi il riconoscimento della nostra
presenza attraverso il voto sono, a nostro parere, largamente inferiori alle
ragioni di una azione che faccia crescere nella lotta, nell'organizzazione,
nel programma delle masse la nostra presenza, e su quella assicuri al tempo
stesso l'uso della contraddizione tra borghesia e revisionismo, e l'autonomia
strategica dal revisionismo.
Questa nostra posizione - come è ampiamente detto nelle tesi - deriva
da un giudizio preciso sul partito revisionista. Noi non facciamo dipendere
la opportunità di indicare un voto per il PCI dall'evoluzione della linea
politica del PCI. A differenza di altri, noi non nutriamo illusioni sulla linea
politica del PCI, che l'approfondirsi della crisi e della radicalità
dello scontro di classe influenza necessariamente nel senso di un crescente
cedimento alla gestione capitalistica della crisi, di una crescente, e spesso
brusca, divaricazione dai bisogni e dalla volontà politica delle masse.
Le contraddizioni tattiche, pur presenti e probabilmente destinate ad accentuarsi,
nel gruppo dirigente e nella linea revisionista non costituiscono affatto- per
noi, il fondamento di una tattica nei confronti del PCI. La crisi, dal luglio
'70 al compromesso storico, all'attuale tentativo di sistemazione di una linea
autorizzata dagli equilibri imperialisti, non ha fatto che provocare una serie
di strappi a destra nella linea del PCI, spingendola verso una compiuta socialdemocratizzazione,
sciogliendo progressivamente le mediazioni fra gli elementi piccolo-borghesi,
medio-borghesi e grandi-borghesi nel senso di una subordinazione esplicita della
« politica delle alleanze » al programma del grande capitale. Era
prevedibile che ciò avvenisse, e noi l'abbiamo costantemente previsto.
La crisi è sempre il banco di prova fondamentale per le forze del movimento
operaio, lo è fino alle ultime conseguenze, quando la forza dell'autonomia
di classe, l'indipendenza della lotta di classe dall'evoluzione del ciclo economico
rivela, come è oggi, e da cinque anni, la natura e la profondità
nuova della crisi sul piano internazionale come su quello nazionale. (Questo
vale oggi, fra l'altro, per il giudizio su altre forze politiche minori, contraddittoriamente
schierate in questi anni all'interno dell'area rivoluzionaria, nelle quali sempre
più forte si fa la spinta all'opportunismo e alla liquidazione dell'ipotesi
rivoluzionaria).
Le contraddizioni del revisionismo
Ma il revisionismo non può essere definito solo per
la sua linea politica, o per la sua ideologia, bensì anche per la sua
base sociale (intesa nel senso più ampio, e non nella sola accezione
di partito). Se il revisionismo fosse solo la sua linea politica, non esisterebbe
come tale; e non esisterebbe come tale se fosse solo la sua base operaia e proletaria.
Qualunque analisi del revisionismo che abolisca uno dei due termini abolisce
in realtà la contraddizione, e non è capace di fondare materialmente
sulla contraddizione il confronto col revisionismo. Si capisce così che
chi ignori o sottovaluti questa contraddizione, sia portato o a identificare
strategia e tattica, o a definire la tattica come rapporto fra rivoluzionari
e classe, quasi che la classe fosse una lavagna bianca, e che nella classe non
ci fosse il peso complesso della composizione strutturale, della composizione
politica, dello scontro e dell'incontro fra il nuovo e il vecchio.
Che cosa, se non il carattere specifico di questa contraddizione in Italia ha
costituito l'ostacolo principale a una socialdemocratizzazione del PCI compiuta
e riconosciuta dalla borghesia; che cosa, se non la diversa composizione, il
diverso patrimonio storico, e soprattutto la diversa forza dell'autonomia della
classe operaia italiana rispetto a quella della Germania, rendono diverso il
PCI dall'SPD, che pure ha una base operaia?
1 rivoluzionari non possono fare affidamento su una trasformazione della strategia
revisionista; non possono fare affidamento sull'ipotesi e sull'attesa di scissioni
verticali nel PCI; e non possono fare affidamento a un passaggio rapido e permanente
della base sociale influenzata dal riformismo e dal revisionismo nelle loro
file.
Queste sono le premesse con cui i rivoluzionari fanno i conti, per assolvere
al loro ruolo, battendosi contro ogni tendenza minoritaria e immobilista, contro
ogni tendenza a rinviare al futuro il loro impegno di direzione generale. 1
rivoluzionari sanno che è nel rapporto di forza realizzato nella classe,
nella sua lotta, la condizione per affrontare il revisionismo. Ma se La sconfitta
della direzione revisionista sulle masse è il problema di tutta una fase
della lotta di classe; se, in ogni occasione di lotta, dalla più particolare
alla più generale, questo problema si ripropone, e l'espressione dell'interesse
autonomo di classe riesce a imporsi al revisionismo, ma non lo espelle definitivamente
dalla scena, bensì lo vede permanere e ricomparire, dentro e al di là
della lotta; se tutto questo è vero il problema è esattamente
quello del costo che il revisionismo paga a questa contraddizione in termini
di controllo reale delle masse, di unità delle masse, di autonomia di
programma delle masse, di rafforzamento dell'egemonia e della conquista diretta
di avanguardie del partito rivoluzionario. La crisi rafforza la divaricazione
fra direzione revisionista e bisogni e coscienza autonoma della classe, e questa
è la tendenza fondamentale la base materiale dei nostri compiti e della
nostra crescita. Ma non è la sola tendenza. Nel revisionismo non c'è
solo il rapporto di fiducia e di identificazione strategica, che pure c'è,
ma si riduce sempre di più nello sviluppo della lotta fra settori operai
e proletari e direzione revisionista; c'è il rapporto, rafforzato dalla
crescente coscienza proletaria della natura generale dello scontro, col carattere
generale dell'organizzazione revisionista, e l'assenza sostanziale di un'organizzazione
generale alternativa, il che equivale a dire che agli occhi della maggioranza
del proletariato lo sbocco istituzionale della lotta anche più radicale
contro la crisi e il regime governativo della crisi si identifica con la prospettiva
della sconfitta democristiana, e di un governo col PCI; c'è il rapporto
legato alla coscienza di massa della portata generale dell'antifascismo, che
porta non alla subalternità, ma certo alla utilizzazione della contraddizione
reale fra reazione borghese e revisionismo; c'è il rapporto alimentato
nei comportamenti sociali, nei modi di pensare, nella spinta alla democratizzazione,
dalla liberazione di consistenti forze sociali dal controllo clericale e democristiano
- c'è tutto questo. E tutto questo significa che il ruolo maggioritario
del PCI si fa più contraddittorio e vulnerabile, ma che non tende puramente
e semplicemente a scomparire. E un governo col PCI non scioglierebbe meccanicamente
questa duplice tendenza, ma al contrario la esalterebbe, radicalizzando la contraddizione
fra PCI e programma dei bisogni proletari da una parte, e la contraddizione
fra PCI e reazione borghese dall'altra.
La tragica frase dell'operaio cileno (« È un governo di merda,
ma è il mio governo ») varrebbe anche nella nostra situazione,
anche se altri sono da noi i rapporti di forza e la maturità raggiunta
dall'autonomia operaia. Il problema è di non restare imprigionati in
questa contraddizione, fino a consentire che si compia il destino di disarmo
e di disfatta che il revisionismo assicura alla classe operaia. È un
problema al quale sfugge chi semplicemente lo ignora.
La forza del partito
E' questo il problema del partito. E' il problema di radicarsi
nei punti più alti dell'antagonismo di classe, di conquistare lì
la maggioranza, di far leva sull'iniziativa dei punti più alti per conquistare
nella lotta la maggioranza del proletariato, di rovesciare contro la direzione
revisionista e riformista, che è forte dell'isolamento delle lotte, il
suo rapporto generale con la classe. E' solo confusione una certa abituale distinzione
fra azione d'avanguardia e azione di massa, dove si riduce la concezione dell'azione
d'avanguardia a quella dell'azione di partito, e, per di più, di un partito
organicamente separato dalla classe. Da qui nascono molte propensioni a porre
in termini soggettivisti, di forzatura, di anticipazione, di esemplarità
i compiti del partito. In ultima istanza, è un partito di questo tipo,
e una concezione di questo tipo, che porta a immaginare una resa dei conti fra
il potere militare della borghesia e il potere militare del partito. Avanguardia
e massa sono termini che non si esauriscono nel rapporto tra partito e classe,
ma penetrano nella classe, nella sua composizione oggettiva, nella sua composizione
politica. Dal singolo reparto fino al confronto generale fra le classi, vive
una dialettica costante fra avanguardia e massa, e vive tanto più organicamente
quanto più organico è il rapporto fra, i due termini, quanto più
la classe, appunto, è l'acqua, e i suoi combattenti di avanguardia i
pesci. Opporsi al soggettivismo minoritario del partito, rafforzare la capacità
di iniziativa del partito, fare del partito una organizzazione di combattimento,
coincide per questo con una costruzione del partito adeguata a una teoria e
un programma d'avanguardia -- la teoria dell'autonomia operaia, della direzione
operaia sull'unificazione del proletariato -, capace di percorrere la dialettica
avanguardia-massa, iniziativa-unità, nel movimento reale, e non di rappresentarla
parassitariamente.
Questo dicono le nostre tesi sul partito, questo vuol dire l'affermazione che
il centralismo democratico regola, nella sostanza, il rapporto fra partito e
classe. A questa costruzione del partito è legata la possibilità
di assumere l'iniziativa, fino al momento in cui il problema dell'iniziativa
è destinato a presentarsi nei suoi termini decisivi - e il Cile insegna.
Questo dice la tesi sulla forza, dove afferma che « la linea di massa
deve essere applicata rigorosamente al problema della forza; questo principio
vale in qualunque circostanza particolare dell'azione rivoluzionaria ».
Come giudichiamo la nostra organizzazione?
Dicevo, all'inizio di questa parte della relazione, che all'analisi e al giudizio
sullo stato del movimento si lega l'analisi e il giudizio sulla nostra organizzazione,
la risposta alla domanda « quanti siamo ». A questo deve legarsi
la nostra autocritica, e la nostra indicazione di prospettiva sul radicamento
fra le masse, sul reclutamento fra le masse. lo credo che possiamo dare una
risposta positiva, senza evitare di sottolineare le debolezze, gli errori, le
cose da fare.
Credo però che possiamo dare una risposta positiva, e sottopongo al giudizio
e alla critica del congresso questa affermazione impegnativa. La commissione
che si chiama col brutto nome di « verifica poteri » ci darà
una serie di cifre, tanti militanti, tante sedi, tante città, tanti operai,
tanti studenti, e così via. Anche quelle cifre aride esprimeranno un'indicazione
politica, ma certo bisogna saper andare dentro quelle cifre. Sapere quanti siamo
e chi siamo alla FIAT e all'Italsider, quanti siamo e chi siamo nelle piccole
fabbriche in lotta, quanti siamo e chi siamo a San Basilio o alla Falchera,
quanti siamo e chi siamo negli istituti tecnici di Palermo e nelle caserme,
e così via. E anche dove non siamo, o dove siamo male, e perché.
Il lavoro congressuale ci ha messi di fronte a noi stessi: ed è uno dei
suoi risultati più importanti. lo credo che possiamo dare un giudizio
positivo, credo che il congresso rende più forte ciascuno di noi, credo
che d da questo parziale punto d'arrivo, con una modestia e una consepevolezza
maggiori, possiamo orientare l'estensione e il radicamento del nostro intervento.
Possiamo, cioè, costruire con più successo il partito, seguendo
il filo dell'attacco della borghesia e della risposta operaia e proletaria.
Da un errore dobbiamo guardarci dallo schematismo di un'analisi che vede la
risposta operaia corte la rincorsa speculare, il rovesciamento puntuale dell'attacco
capitalista. Esso non può essere spezzato inseguendone i passaggi, e
smarrendone la dimensione complessiva. Ben diverse sono le forme dell'iniziativa
operaia da quelle dell'esercizio del potere padronale. La ristrutturazione è
un esempio. Guai se noi abbandonassimo la lotta più intransigente a partire
dalle articolazioni più particolari dello attacco padronale, dalle squadre,
dai reparti, dalle officine. Ma da questa lotta, all'attacco padronale c'è
un salto che non può essere colmato attraverso un percorso graduale dal
reparto ai rapporti sociali complessivi. A una ristrutturazione che non è
più solo di fabbrica e di settore, ma che investe globalmente la composizione
della classe operaia, non si può rispondere adeguatamente se non con
un'iniziativa generale ed esplicitamente politica della classe operaia. Tutte
le battaglie devono essere combattute, molte possono essere perse, ma bisogna
guardare alla guerra. Abbiamo a visto nelle lotte alcuni effetti della dinamica
della crisi sulla classe, sulle sue componenti. E non solo e non tanto nella
forma delle lotte, ma nel loro contenuto. Abbiamo visto la qualità nuova
di una lotta operaia sul terreno sociale che raccoglie e usa la sfida dell'inflazione.
Abbiamo visto la qualità muova di una lotta degli studenti che sta in
rapporto diretto con la crisi, con la ristrutturazione e la violenza padronale
sul mercato del lavoro. Abbiamo visto, attraverso varchi diversi, aprirsi la
strada in modo nuovo il proletariato femminile. La crisi scompone struttura
e comportamenti sociali, modifica i rapporti reciproci fra i diversi settori
proletari, manda alla ribalta nuovi contenuti e forme di lotta. E' a questa
analisi che dobbiamo affidare con maggiore organicità il nostro intervento.
E tuttavia dobbiamo guardarci da una unilaterale, e quindi falsa, teoria, che
rincorre le modificazioni strutturali, e ad esse di volta in volta piega e riduce
l'organizzazione, ignorando così di fatto l'autonomia che pure esalta;
se è vero, come noi crediamo e vediamo nella pratica, che l'autonomia
rovescia la dipendenza della lotta dal ciclo economico, questo vuol dire soprattutto
che l'autonomia non è un fantasma metafisico, ma è il patrimonio
di coscienza, di esperienza, di forza e di organizzazione accumulata dalla classe
operaia. Se Mirafiori è dura a morire, se Mirafiori non cessa di stare
all'avanguardia la ragione è questa. È questa anche la ragione
della continuità e della saldezza nella costruzione del partito, che
noi rifiutiamo fermamente di ridurre a espressione mutevole di diversi momenti
e forme di lotta, secondo una teoria del « suicidio dell'organizzazione
» che ha già condotto altre organizzazioni al suicidio, e che oggi
pretende di ritrovare spazio. Noi non siamo né vogliamo essere il partito
di alcuni strati operai, di alcune forme di lotta, bensì il partito della
classe operaia e del proletariato, il partito che fa i conti con le condizioni
complessive del processo rivoluzionario, con la vittoria della rivoluzione.
Buon lavoro
Questo congresso é per noi un importante appuntamento
di lavoro. Con la preparazione del congresso, abbiamo potuto conoscerci meglio
e conoscere meglio l'insieme della nostra organizzazione, le sue difficoltà,
i suoi problemi. Ci siamo contati, e abbiamo verificato quanto e come contiamo
nella vita e nella lotta delle masse. Siamo un'organizzazione di poche migliaia
di militanti, che lavora per una rivoluzione di milioni di donne e nomini. Ci
siamo riuniti qui per lavorare, per portare a compimento un lavoro che ha risolto
alcuni problemi, che ne ha affrontati positivamente altri, che altri ancora
ne ha lasciati aperti. Ogni tono trionfalista sarebbe fuori luogo. Buon lavoro.