Introduzione a
"Ponte rotto"
di Giambattista Lazagna
Edizione a cura del:
Comitato nazionale di lotta contro la strage di stato - Soccorso Rosso
Cari compagni,
ristampare oggi, dopo ventisette anni “Ponte rotto”, non può avere soltanto
un significato commemorativo o rievocativo delle ormai lontane vicende della
guerra partigiana. Non possiamo ignorare oggi un quadro politico che vede il
virulento riemergere del fascismo non più come nostalgia, ma come strumento
di ricatto e di ricambio dell’imperialismo e del capitalismo più reazionario
che ripropongono per mezzo dei servizi segreti lo spettro di un colpo di
stato da attuarsi come in Grecia.
E che fa la sinistra tradizionale ?
Prigioniera delle illusioni riformiste e parlamentariste, incapace di
esprimere una linea rivoluzionaria alternativa al sistema, rinuncia all’uso
politico della rabbia operaia e abbandona alla demagogia fascista lo spazio
politico obbiettivamente rivoluzionario della miseria e della disperazione
del sottosviluppo meridionale.
Ristampare “Ponte rotto” oggi, anche se è cosa modesta, può significare,
certo, un richiamo ai temi della lotta contro il fascismo, non per
riproporre un tipo di lotta attuato in un contesto storico-politico
completamente diverso e quindi irriproducibile, ma per risvegliare la
fiducia dei comunisti, dei rivoluzionari, nelle immense capacità combattive
della classe operaia, dei contadini, del proletariato ed anche del
sottoproletariato urbano, quando siano guidati da una avanguardia
rivoluzionaria ideologicamente unita e agguerrita, capace di una analisi
leninista della situazione politica, capace di battere da un lato l’
opportunismo ed il riformismo e dall’altro il settarismo ed il dogmatismo.
Riaprire alle masse popolari italiane una prospettiva rivoluzionaria,
riproporre l’obbiettivo della presa del potere e della costruzione di una
società comunista dopo tanti anni di “passeggiata intorno al capitalismo” è
oggi a mio avviso l’unico modo per mobilitare le masse e di riprendere il
cammino iniziato con la guerra partigiana per sbarrare definitivamente la
strada al fascismo e tagliarne le radici affondate nel privilegio, nello
sfruttamento, nella corruzione, negli intrighi dei servizi segreti stranieri
che annidano i loro agenti specialmente ai vertici della burocrazia dello
Stato e dei corpi armati.
E perché la lettura di “Ponte rotto” possa avere qualche utilità politica,
vorrei che il lettore, al di là della cronaca degli episodi della vita
partigiana, riuscisse a scorgere la chiave della linea politica seguita dai
combattenti partigiani, riuscisse a scorgere la forza egemone che indicò
questa linea e cioè il partito comunista, partito che seppe giustamente
impostare e vincere le battaglie della lotta di classe e non soltanto contro
il fascismo, ma anche all’interno delle stesse forze della coalizione
antifascista, battendo prima e trascinando poi con sé anche forze
conservatrici, risolvendo favorevolmente il problema delle necessarie
alleanze.
Avrei voluto su questi temi svolgere un più approfondito studio, ma le
circostanze particolari in cui mi trovo a scrivere queste righe, senza
possibilità di consultare libri e documenti, di sentire le testimonianze e
le opinioni di vecchi compagni di lotta, non mi consentono di realizzare
completamente il mio proposito e mi costringono a limitarmi a indicare a
grandi linee i problemi su cui attiro l’attenzione dei compagni.
Il partito comunista che conobbi, come “candidato” alla iscrizione, nell’
autunno del 1942, era un’organizzazione rigidamente clandestina composta da
poco più di un migliaio di militanti in tutta Italia, formatisi nella
durissima lotta cospirativa, nelle galere fasciste, al confino, nella
emigrazione, nella guerra di Spagna, nella resistenza francese.
Insegnava alle sue reclute con pochi testi clandestini e soprattutto
oralmente, i principi fondamentali del marxismo-leninismo e le norme
minuziose del lavoro politico cospirativo.
Il partito era padrone della vita e dei beni dei militanti, decideva quale
lavoro ciascuno dovesse svolgere, ed in quale città, imponeva il segreto su
tutta l’attività anche davanti ai tribunali e sotto tortura della polizia,
vietava qualsiasi atti di debolezza o di sottomissione nei confronti del
potere repressivo, e persino la domanda di grazia in caso di condanna a
morte.
Quando, dopo l’8 settembre 1943, i partiti antifascisti riuniti nei Comitati
di Liberazione Nazionale (C.L.N.) si trovarono a discutere sulla linea
politica da seguire nella lotta contro il fascismo e il nazismo, il partito
comunista dovette affrontare e vincere una prima ed importantissima
battaglia contro quella posizione politica che fu chiamata “attendismo”.
Contro le tesi comuniste di un immediato inizio della guerra partigiana
contro gli occupanti tedeschi e i loro servi fascisti, per costruire nella
lotta l’esercito di liberazione e per chiamare le masse popolari agli
scioperi politici, al sabotaggio della produzione bellica e dei trasporti,
per aprire la strada alla insurrezione nazionale, le forze conservatrici, e
particolarmente i democristiani e i liberali, sostenevano che, essendo ormai
sicura la vittoria delle armi alleate, sarebbe stato inutile e dannoso
scatenare una lotta che avrebbe “provocato” sanguinose rappresaglie,
imprigionamenti e deportazioni da parte delle forze nazi-fasciste.
Sostenevano, queste forze conservatrici, che era più opportuno organizzarsi
per dare il colpo decisivo ai tedeschi e ai fascisti al momento della
offensiva militare alleata: in realtà esse ben comprendevano la minaccia che
ai privilegi di classe e alla pace sociale che, essi difendevano, sarebbe
venuta dal costituirsi, per la prima volta nella storia d’Italia, di una
forza armata degli operai, dei contadini, dei giovani che aspiravano ad un
radicale rinnovamento sociale ed alla edificazione di una società
socialista. Esse naturalmente avrebbero preferito che “all’ordine” degli
occupanti tedeschi fosse sostituito, senza soluzione di continuità, l’”
ordine” degli occupanti anglo-americani.
Il partito comunista rispose a questa linea attendista con la linea d’
assalto dei “Gruppi di azione patriottica” (G.A.P.) e delle brigate d’
assalto “Garibaldi”. Queste forze, ancora con pochi militanti, si gettarono
con estrema decisione nella lotta e fin dall’ottobre 1943 iniziarono a
giustiziare sommariamente per le strade della città aguzzini fascisti ed
ufficiali tedeschi, formarono le prime bande partigiane ed iniziarono il
sabotaggio dei mezzi di comunicazione e delle fabbriche belliche.
Questo bruciante inizio della guerra partigiana ad opera dei comunisti fu
possibile non soltanto per l’esistenza di quadri politici e militari
sperimentati ma soprattutto per la consapevolezza ideologica del partito che
aveva assimilato il principio leninista della trasformazione della guerra
tra paesi capitalisti ed imperialisti in guerra civile rivoluzionaria.
I partiti del C.L.N. si trovarono quindi subito di fronte al fatto compiuto,
alle “provocazioni” ormai poste in atto dai comunisti e dovettero adeguarsi
e adattarsi alla situazione rincorrendo i comunisti per non lasciare loro il
monopolio della lotta armata.
Di fatto però, con la vittoria nella lotta contro l’attendismo, il partito
comunista aveva conquistato una posizione egemone nella condotta politica e
militare della guerra di liberazione ed aveva trascinato con se, in una
necessaria alleanza, le altre forze politiche, anche quelle più riluttanti.
Dopo questa prima e fondamentale vittoria il partito comunista mantenne e
portò più avanti la sua funzione di guida nella condotta della guerra
lanciando e facendo applicare parole d’ordine audaci e giuste come “armarsi
strappando le armi al nemico”, “non dare tregua”, “costruire nella lotta l’
esercito partigiano”, “imporre al nemico lo scontro nel momento più
favorevole e non accettare che il nemico imponga lo scontro” ecc.
Per assolvere la sua funzione dirigente nella lotta armata, fu necessario al
partito comunista reclutare largamente tra i giovani combattenti e formarli
ideologicamente e politicamente anche all’interno delle formazioni
“Garibaldi”, organizzate e dirette dal partito comunista, il partito si
dette una propria organizzazione politica, indipendente da quella militare.
In ogni distaccamento partigiano vi era una cellula comunista che si riuniva
molto spesso per discutere la linea politica del partito e la situazione
politico-militare della formazione.
Le riunioni di cellula erano di regola aperte a tutti i partigiani e
costituirono un importante mezzo di educazione politica e di proselitismo.
Vi erano poi comitati di partito di brigata, di divisione e di zona, che
agivano pressoché clandestinamente e decidevano le più importanti questioni
della organizzazione del partito, dei rapporti con le popolazioni, dell’
assegnazione delle responsabilità militari e politiche delle formazioni.
Nella stessa zona operativa ligure la grande forza del partito consentì di
elevare ad importanti incarichi di comando militare molti partigiani
senza-partito, prevalentemente cattolici.
Questa giusta politica, coerente ai principi della massima estensione
possibile delle alleanze rispondeva anche (indipendentemente dalle
indiscusse qualità militari dei comandanti non-comunisti) a precise esigenze
di alleanza con le popolazioni contadino-montane dei territori in cui
operavano le formazioni partigiane.
L’appoggio di queste popolazioni, politicamente strettamente controllate dal
clero, fu elemento indispensabile per consentire la nascita e il
consolidamento
delle prime bande partigiane, poco armate ed ancora inesperte
della montagna: in quella fase anche una sola delazione sulla ubicazione
delle bande, poteva essere fatale.
Ma la collaborazione delle popolazioni non mancò mai: sia per l’istintivo e
diffuso antifascismo dei montanari, sia per umana solidarietà, sia per il
rispetto che i partigiani avevano per le persone e le cose dei contadini,
sia infine per la collaborazione del clero, favorita anche dalla presenza di
nostri comandanti cattolici.
Tali rapporti andarono sempre migliorando nel corso della guerra, fino a
giungere ad una stretta collaborazione che si concretò con l’entrata nelle
formazioni di molti giovani contadini e con la costituzione di squadre
ausiliarie armate di villaggio e di vallata.
Naturalmente anche questa collaborazione non fu sempre e dappertutto
perfetta: vi furono difficoltà specie con grossi commercianti e speculatori
di derrate alimentari e vi furono altre questioni di non grande importanza.
Debbo viceversa segnalare un grave episodio di lotta tra comunisti e
democristiani avvenuto nell’inverno 1944-1945.
Alcuni personaggi di primissimo piano del clero e della democrazia cristiana
genovese, forse indotti in errore nella valutazione della forza del partito
comunista nella 6° zona operativa, sopravvalutarono il fatto che alcuni
prestigiosi comandanti erano cattolici o comunque non comunisti.
Essi pensarono di poter far leva sulla presenza e sul prestigio di tali
comandanti per sottrarre le formazioni partigiane garibaldine al controllo
del partito comunista e per trasformarle in formazioni “autonome” e
sopprimere gli incarichi dei commissari politici.
Dopo una fitta trama di colloqui diretti e a mezzo di emissari, fu fatta
diffondere nei distaccamenti una lettera del comandante “Bisagno” nella
quale si invitavano i partigiani a non iscriversi a partiti se non dopo una
almeno triennale meditazione, e si criticavano pretese interferenze
politiche sulla condotta militare della guerra.
La manovra culminò nel tentativo da parte di un distaccamento di far
prigioniero il comando di zona: tale tentativo tuttavia fallì con una
semplice ma dura sfuriata del commissario “Attilio” che rispedì il
distaccamento ribelle al suo accantonamento.
Ho voluto ricordare questo episodio per dimostrare che l’unità della
resistenza non fu il frutto di un idilliaco accordo, ma al contrario il
frutto di una lotta talvolta aperta e talvolta sorda, che altro non era che
manifestazione anche all’interno della resistenza, della lotta di classe.
L’unità si stabiliva dopo la lotta, come conseguenza della posizione
vittoriosa del partito comunista, conquistata a causa della sua giusta
azione militare-politica secondo il ben noto principio che “l’unità si
realizza da uno che va avanti e gli altri che vengono dietro”.
Ed ancor oggi, quando si parla di unità della Resistenza, se non si vuole
tradire la verità, si deve ben specificare che tale unità, allora come oggi,
può esistere solo come frutto e risultato di una lotta politica e della
vittoria della linea più conseguente, più combattiva, più rivoluzionaria.
Spero che sia risultato chiaro da quanto ho scritto, che la funzione di
guida della guerra partigiana ad opera del partito comunista fu dovuta non
soltanto alla disciplina, alla preparazione ed alla combattività dei suoi
quadri, ma anche e specialmente alla prospettiva politica veramente
liberatrice che l’ideologia e la linea politica del partito offrivano alla
classe operaia ed alle classe popolari, per l’abbattimento del regime
capitalista e la costruzione di una società comunista di uomini veramente
liberi ed uguali.
Tutti i compagni che erano o che entravano nel partito nel corso della
guerra partigiana consideravano la lotta contro i tedeschi ed i fascisti
soltanto come una prima battaglia della liberazione dal capitalismo e dall’
imperialismo: tale battaglia doveva proseguire in forme e modi e tempi che
non potevamo ancora prevedere ma che speravamo in rapida successione con l’
insurrezione nazionale antifascista che stavamo preparando.
Nell’autunno del 1944 il commissario politico della 6° zona operativa,
compagno Anelito Barontini (Rolando) andò a Roma alla direzione del partito,
attraversando la linea del fronte nei pressi di Massa Carrara e ritornò tra
noi dopo circa un mese, paracadutato. Riunì i quadri del partito e svolse
una relazione che nei suoi termini essenziali, suonava così:
“Non dobbiamo illuderci sulla possibilità a breve scadenza per il partito e
i suoi alleati di prendere il potere. La presenza in Italia di un governo
militare alleato e di numerose truppe anglo-americane e gli accordi
internazionali renderebbero impossibile un simile tentativo: in Grecia, il
rifiuto dei partigiani di consegnare le armi all’esercito inglese si è
risolto in un massacro.
La politica del partito dopo la liberazione dai tedeschi, sarà ancora e per
un lungo periodo di tempo, quella di ottenere che il governo sia espressione
dei partiti antifascisti che hanno condotto la guerra di liberazione nei
C.L.N.
Occorre quindi potenziare al massimo il prestigio e la forza dei C.L.N.
anche come organi del potere locale ed assicurare la direzione politica in
senso decisamente antifascista”.
Ripeto che ovviamente non posso citare le parole esatte di Rolando, ma sono
convinto che questo fosse il senso del suo discorso.
Per i compagni che speravano in un rapido succedersi delle battaglie
rivoluzionarie, la prospettiva delineata da Rolando fu assai deludente: ma
ci consideravamo ed eravamo disciplinati militanti di un reparto dell’
esercito comunista, avevamo piena fiducia nello spirito e nella capacità
rivoluzionaria dei nostri dirigenti e sapevamo che essi potevano e dovevano
valutare meglio di noi, come comandanti di un esercito quale fosse il
momento della offensiva e quale il momento della difensiva.
Continuammo a portare avanti disciplinatamente i compiti militari e politici
che ci erano assegnati. Dopo la insurrezione vittoriosa del 25 aprile 1945,
la prima preoccupazione di ogni comandante e di ogni militante comunista
(poiché non si poteva rimanere armati e poiché non consideravamo finita la
lotta) fu quella di nascondere la maggior quantità possibile di armi.
Negli anni successivi lottammo secondo le indicazioni del partito comunista
per gli obbiettivi della repubblica e dell’assemblea costituente. Le forze
conservatrici avevano frattanto scatenato, guidate dall’imperialismo
americano, una violenta offensiva contro il movimento popolare,
perseguitando i partigiani, infamandoli e gettandoli in galera per i fatti
della guerra partigiana.
Cercavano di sobillare e contrapporre ai partigiani i soldati reduci dalla
prigionia, ricostruirono l’apparato repressivo, polizia esercito e
magistratura, secondo l’ordinamento e con i quadri fascisti.
Delusa con la elezione del 18 aprile 1948 la speranza di una affermazione
elettorale del Fronte Popolare, la collera dei comunisti, degli operai e dei
partigiani esplose, il 14 luglio 1948 in occasione dell’attentato a
Togliatti nel quale le masse popolari individuarono giustamente il tentativo
di schiacciare definitivamente il movimento operaio.
Fu proclamato lo sciopero generale e gli operai, i partigiani, i comunisti
scesero immediatamente nelle piazze: tutta l’Italia del nord fu, nel giro di
poche ore, nelle mani del popolo insorto che costruiva ovunque barricate.
A Genova i portuali disarmati si impadronirono di cinque autoblindo della
polizia intatte che furono poste a difesa degli insorti.
I dirigenti politici dei partiti operai si adoperarono per ristabilire la
calma, argomentando così:
“Gli americani sono ancora in Italia, sbarcheranno altre truppe. Il Sud non
segue il movimento, rischiamo la guerra civile, il massacro”.
Gli insorti tornarono dopo qualche giorno alle loro case e si scatenò una
repressione inaudita: secoli di galera furono distribuiti generosamente.
Si discusse a lungo sul 14 luglio, sulla divisione del mondo in due campi e
sul fatto che noi eravamo nel campo americano, sul dovere internazionalista
dei comunisti di tutto il mondo di sconfiggere la politica americana.
L’aggressione atomica contro l’URSS per preservare il paese dal socialismo,
lo stato guida della rivoluzione mondiale comunista, per consentirgli di
ricostruire
la sue forze esauste dalla guerra, per consentire ai paesi dell’
Europa orientale di costruire il socialismo, per consentire il
consolidamento della rivoluzione in Cina.
Passarono anni di lotte difensive, di dura repressione poliziesca contro il
movimento operaio, di lotte sindacali per mantenere il livello di vita degli
operai nei limiti consentiti dal sistema capitalista.
In molti paesi i movimenti di liberazione nazionale lottavano e riuscivano a
liberarsi dalla oppressione coloniale; in altri, in Vietnam, in Guinea, in
Mozambico, in Angola, interi popoli conducono ancora la loro guerra di
liberazione nazionale e rivoluzionaria ad un tempo.
Cuba ha fatto la sua rivoluzione socialista e nonostante la logica della
divisione del mondo in due campi è riuscita a farne imporre il rispetto.
Verrà anche per i comunisti, per i rivoluzionari italiani il momento di
uscire dalla difensiva, di far straripare dal quadro permesso dal sistema la
volontà rivoluzionaria degli operai, dei contadini poveri del Sud, degli
studenti ?
E’ quanto da anni e anni ci chiediamo, attenti a cogliere i segni dei tempi,
attenti alla necessità di ricostruire lo strumento politico che sappia
unificare e guidare le masse popolari in una linea strategica
rivoluzionaria.
Il compagno Pietro Secchia, pochi mesi or sono, chiudeva un dibattito sul
tema della lotta al fascismo pressappoco con queste parole: “Compagni, la
lotta per il salario, la lotta per la casa, la lotta per la salute, sono
tutte lotte sacrosante che noi dobbiamo combattere tutti i giorni.
Ma con la coscienza che fino a quando non avremo conquistato le riforme che
ci consentano di controllare la polizia, la magistratura e l’esercito,
pilastri fondamentali dello Stato, tutte le nostre conquiste saranno
temporanee, effimere ed illusorie”.
E porsi il problema di queste “riforme” significa, da comunisti, porsi in
termini rivoluzionari il problema della presa del potere.
Milano, S. Vittore, 10 maggio 1972.
G.B. LAZAGNA
Retro di copertina di
"Il caso del partigiano Pircher"
di Giambattista Lazagna,
ed. La Pietra, 1975
Giambattista Lazagna, nato a Genova nel 1923, avvocato, prese contatto con l
’organizzazione comunista clandestina fin dagli anni dell’Università, nel
1942, e dopo l’8 settembre 1943 partecipò alla Guerra di liberazione,
divenendo commissario politico della Brigata “Oreste” e vicecomandante della
Divisione Garibaldi “Pinan-Chichero” operante in Liguria.
Gravemente ferito in combattimento e decorato di medaglia d’argento al valor
militare, nel dopoguerra, lavorò alla redazione genovese del “l’Unità”, fu
tra i dirigenti della federazione provinciale del PCI e segretario del
Comitato regionale di solidarietà democratica per la Liguria (1949-56) che
si occupava della difesa dei partigiani perseguitati dai governi
democristiani dell’epoca.
Occupò successivamente varie altre cariche nelle organizzazioni democratiche
liguri e fu presidente dell’ANPI di Novi Ligure finché, nel 1970, coinvolto
nella questione Feltrinelli, venne arrestato.
Rilasciato dopo 5 mesi di carcere, nell’ottobre 1974 fu nuovamente arrestato
in connessione all’inchiesta sulle Brigate Rosse.
Autore nel 1946 del libro di memorie partigiane "Ponte rotto" (più volte
ristampato nel 1964, 1968 e 1972), ha pubblicato nel 1974 una nuova opera
dal titolo "Carcere, repressione, lotta di classe", sintesi della sua
esperienza di studioso e di antifascista militante di fronte ai problemi
della repressione giudiziaria.