Biblioteca Multimediale Marxista
PREMESSA [5]
Dalle poche pubblicazioni in cui si riconosce un sentimento della differenza
tra i sistemi filosofici di Fichte e Schelling, emerge più la preoccupazione
di aggirarla o di nascondersela che non la chiarezza della coscienza di tale
differenza. Né l'immediata visione dei due sistemi, come essi stanno
innanzi al pubblico, né, tra l'altro, la risposta di Schelling alle obiezioni
idealistiche di Eschenmayer contro la filosofia della natura hanno portato il
discorso su quella differenza. Al contrario Reinhold, per esempio, ne ha avuto
talmente poco sentore, che anzi la completa identità dei due sistemi,
assunta come nota una volta per tutte, ha distorto il suo punto di vista sul
sistema di Schelling anche su questo argomento. Questa confusione di Reinhold,
più che la minacciata, o ancor più annunciata come già
accaduta, rivoluzione della filosofia attraverso la sua riduzione alla logica,
costituisce l'occasione di questa trattazione. Alla filosofia di Kant era necessario
che il suo spirito fosse separato dalla lettera, e che il puro principio speculativo
fosse estratto dalla parte restante, che apparteneva alla riflessione raziocinante
o poteva essere utilizzata per essa. Nel principio della deduzione delle categorie
questa filosofia è autentico idealismo, ed è questo principio
ciò che Fichte ha estratto in forma più pura e rigorosa ed ha
chiamato lo spirito della filosofia kantiana. Che le cose in sé - con
cui è espressa oggettivamente solo la vuota forma dell'opposizione, siano
state nuovamente ipostatizzate e poste come assoluta oggettività, come
le cose del dogmatico -, che le stesse categorie siano state trasformate in
parte in settori immobili e morti dell'intelligenza, in parte nei più
alti principi, per mezzo dei quali potesse essere distrutta l'espressione in
cui viene esposto lo stesso assoluto, come per esempio la sostanza di Spinoza,
e così il raziocinare negativo potesse porsi come prima al posto del
filosofare, solo, con più pretenziosità, sotto il nome di filosofia
critica; tutte queste circostanze stanno tutt'al più nella forma della
deduzione delle categorie kantiana, non nel suo principio o nel suo spirito,
e se noi non avessimo della filosofia kantiana altra parte che questa, quella
trasformazione sarebbe [6] quasi incomprensibile. In quella deduzione delle
forme dell'intelletto il principio della speculazione, l'identità di
soggetto e oggetto, è espressa nel modo più fermo; questa teoria
dell'intelletto è stata tenuta a battesimo dalla ragione. Al contrario
quando Kant pone questa stessa identità, come ragione, a oggetto della
riflessione filosofica, l'identità scompare a se stessa; se l'intelletto
era stato trattato con la ragione, al contrario la ragione viene trattata con
l'intelletto. Qui diviene chiaro a quale grado subalterno era stata compresa
l'identità del soggetto e dell'oggetto. L'identità del soggetto
e dell'oggetto si limita a dodici, o meglio solo a nove pure attività
del pensiero, poiché la modalità non dà alcuna determinazione
veramente oggettiva, la non identità del soggetto e dell'oggetto consiste
essenzialmente in essa; al di fuori della determinazioni oggettive per mezzo
delle categorie rimane un immenso regno empirico della sensibilità e
della percezione, una assoluta aposteriorità per la quale non è
indicata alcuna apriorità se non una massima soggettiva del Giudizio
riflettente. Ciò vuol dire che la non-identità viene elevata ad
assoluto principio, come non poteva non avvenire dopo che all'idea, il prodotto
della ragione, era stata sottratta l'identità, cioè il razionale,
ed essa era stata assolutamente contrapposta all'essere; dopo che la ragione,
come facoltà pratica, era stata rappresentata non come assoluta identità,
ma nell'opposizione infinita, come facoltà della pura unità intellettuale
come deve essere pensata dal pensiero finito, cioè dall'intelletto. Da
ciò ha origine il risultato contrastante che per l'intelletto non sono
affatto presenti determinazioni oggettive assolute, mentre per la ragione sono
presenti. Il puro pensiero di sé, l'identità del soggetto e dell'oggetto,
nella forma Io = Io è il principio del sistema fichtiano, e se ci si
attiene immediatamente a questo solo principio, così come nella filosofia
kantiana al principio trascendentale che sta a fondamento della deduzione delle
categorie, allora si ha, audacemente espresso, l'autentico principio della speculazione.
Ma appena la speculazione fuoriesce dal principio che essa pone di se stessa,
e si costituisce in sistema, essa abbandona se stessa e il suo principio e non
ritorna in esso; essa rimette la ragione all'intelletto e trapassa nella catena
delle finitezze della coscienza, dalle quali essa non si ricostituisce più
in identità e in vera infinità. Il principio stesso, l'intuizione
trascendentale, ottiene così l'impropria posizione di un opposto contro
la molteplicità da lui dedotta; l'assoluto del sistema si mostra solo
nella forma della sua manifestazione, inteso dalla riflessione filosofica, e
questa determinatezza che gli è data mediante la riflessione, dunque
la finitezza e l'opposizione, non viene tolta; il principio, il soggetto-oggetto,
si dimostra un soggettoggetto [7] soggettivo. In questo modo ciò che
da esso viene dedotto ottiene la forma di una condizione della coscienza pura,
dell'Io = Io, e la stessa coscienza pura prende la forma di una coscienza condizionata
per mezzo di un'infinità oggettiva: il progresso temporale in infinitum,
in cui l'intuizione trascendentale si perde e l'io non si costituisce in autointuizione
assoluta. Così Io = Io si trasforma nel principio: Io deve [soll] essere
uguale Io. La ragione posta nell'opposizione assoluta, e così depotenziata
in intelletto, diviene con ciò principio delle forme che l'assoluto deve
darsi e delle loro scienze. Dover distinguere questi due lati del sistema fichtiano
- l'uno secondo il quale esso ha posto puramente il concetto della ragione e
della speculazione, e quindi reso possibile la filosofia, - l'altro secondo
il quale esso ha posto la ragione e la coscienza pura come un'unica cosa, e
ha elevato a principio la ragione colta in una figura finita - deve mostrarsi
come intima necessità della cosa stessa. L'occasione esteriore è
data dal bisogno del tempo, e in primo luogo dall'opera di Reinhold, che è
immersa in questo bisogno del tempo, Contributi alla più agevole visione
complessiva dello stato della filosofia all'inizio del nuovo secolo, in cui
non viene visto né il lato secondo il quale il sistema di Fichte è
autentica speculazione e dunque filosofia, né il lato del sistema schellinghiano
secondo cui questo si differenzia da quello di Fichte e, nella filosofia della
natura, contrappone al soggettoggetto soggettivo il soggettoggetto oggettivo,
e espone entrambi unificati in qualcosa di più alto del soggetto. Per
quanto riguarda il bisogno del tempo, la filosofia fichtiana ha fatto talmente
scalpore ed epoca, che perfino coloro che si dichiarano contro di essa e si
sforzano di introdurre propri sistemi speculativi cadono, solo in modo più
torbido e impuro, nel principio della filosofia fichtiana e non sono in grado
di difendersi da esso. La più prossima manifestazione che si offre di
fronte ad un sistema che fa epoca sono i fraintendimenti e il comportamento
maldestro dei suoi oppositori. Quando di un sistema si può dire che ha
fatto fortuna, allora si è rivolto ad esso, con una inclinazione istintiva,
un più generale bisogno della filosofia, un bisogno che non ha saputo
trasformarsi da sé in filosofia, altrimenti si sarebbe dato soddisfazione
attraverso la generazione di un sistema. E l'apparenza dell'accettazione passiva
poggia sul fatto che ciò che il sistema esprime è presente nell'intimo,
e che ancor più ognuno lo tiene per valido nella sua sfera di scienza
o di vita. In questo senso non si può dire del sistema fichtiano che
ha fatto fortuna. Per quanto ciò gravi sulle tendenze antifilosofiche
[8] dell'epoca, è altrettanto da mettere in conto che, quanto più
l'intelletto e l'utilità sanno darsi peso e rendere validi obiettivi
limitati, tanto più forte è l'urgere dello spirito migliore, soprattutto
nell'ancor giovane mondo libero da pregiudizi. Se pubblicazioni come i Discorsi
sulla religione non riguardano immediatamente il bisogno speculativo, tuttavia
esse e la loro accettazione, e ancor più la dignità che la poesia
e l'arte cominciano ad ottenere, con sentimento oscuro o consapevole, nella
loro vera estensione, indicano il bisogno di una filosofia in cui la natura
sia ricompensata per i maltrattamenti che soffre nel sistema kantiano e fichtiano,
e la ragione sia posta con la natura non in un accordo tale per cui rinunci
a se stessa o debba diventare una sua vuota imitatrice, bensì in accordo
in quanto essa stessa prende forma di natura per una propria forza interiore.
Per quanto riguarda le riflessioni generali su bisogno, presupposto, principi
ecc. della filosofia con cui comincia questo scritto, esse hanno il difetto
di essere riflessioni generali, ed hanno la loro ragione nel fatto che l'ingresso
della filosofia viene ancor sempre avvolto e ricoperto con tali forme, come
presupposto, principi ecc., e perciò è in un certo grado necessario
avere a che fare con loro, finché il discorso non verta finalmente su
altro che la stessa filosofia. Alcuni dei più interessanti tra questi
oggetti otterranno più avanti una più ampia trattazione. Jena,
luglio 1801 DIVERSE FORME CHE SI PRESENTANO [9] NEL FILOSOFARE ATTUALE VISIONE
STORICA DI SISTEMI FILOSOFICI Un'epoca che ha alle spalle come un passato una
tale quantità di sistemi filosofici sembra dover pervenire a quella indifferenza
che la vita consegue dopo che si è cimentata in tutte le forme. Se l'individualità
ossificata non rischia più se stessa nella vita, il desiderio di totalità
si manifesta ancora come desiderio di completezza delle conoscenze: essa cerca
di procurarsi, per mezzo della molteplicità di ciò che ha, l'apparenza
di ciò che non è. Trasformando la scienza in una conoscenza l'individualità
le ha negato la vivente partecipazione che la scienza esige, ed ha mantenuto
la scienza lontana, ed in mera forma oggettiva, e se stessa indisturbata nella
propria caparbia particolarità contro tutte le pretese di elevarsi all'universalità.
Per questo tipo di indifferenza, se riesce a trarsi fuori da sé fino
alla curiosità, non c'è nulla di più urgente che dare a
una filosofia di nuova formazione un nome, ed esprimere, come Adamo ha espresso
il suo dominio sugli animali dando loro un nome, il proprio dominio su una filosofia
attraverso l'escogitazione di un nome. In questo modo tale filosofia è
trasposta nel rango delle conoscenze; le conoscenze riguardano oggetti estranei,
nel sapere di una filosofia, che non è mai stato altro che una conoscenza,
la totalità dell'interiorità non si è mossa e l'indifferenza
ha perfettamente affermato la propria libertà. Nessun sistema filosofico
può sottrarsi alla possibilità di un simile recepimento: ognuno
è capace di essere trattato storicamente. Come ogni figura vivente appartiene
nel contempo al fenomeno, così una filosofia come fenomeno si è
consegnata a quella potenza che può trasformare il sistema in una morta
opinione e, fin dall'inizio, in un passato. Lo spirito vivente che abita una
filosofia esige, per svelarsi, di essere generato da una spirito affine; egli
sfiora appena, come un fenomeno estraneo, l'atteggiamento storico che parte
da un qualunque interesse verso la conoscenza di opinioni, e non manifesta il
suo intimo; può restargli indifferente dover servire ad ingrossare la
restante collezione di mummie ed il generale cumulo di casualità, poiché
egli stesso è sfuggito tra le mani al curioso raccogliere conoscenze.
Quest'ultimo rimane fermo al suo punto di vista indifferente verso la verità,
[10] e mantiene la sua autonomia, sia che accetti opinioni, sia che le rigetti,
o non si decida; esso non può dare ai sistemi filosofici nessun altro
rapporto a se stesso se non quello secondo cui sono opinioni, e tali accidenti,
come le opinioni, non gli possono nuocere; non ha riconosciuto che la verità
esiste. Tuttavia la storia della filosofia ottiene, quando l'impulso ad estendere
la scienza si dedica ad essa, un aspetto più utile, in quanto cioè
essa deve servire secondo Reinhold a penetrare nello spirito della filosofia
più profondamente di quanto sia accaduto finora e a condurre più
avanti i modi di vedere peculiari dei predecessori sull'approfondimento della
realtà della conoscenza umana attraverso nuovi peculiari modi di vedere;
solo attraverso una simile conoscenza dei tentativi preliminari finora compiuti
di assolvere il compito della filosofia, il tentativo potrebbe infine realmente
riuscire, ammesso che questa riuscita sia concessa all'umanità. Si vede
che alla base dello scopo di una simile ricerca sta un'immagine della filosofia
secondo la quale essa sarebbe una specie di tecnica artigianale che può
essere migliorata per mezzo di abilità sempre nuovamente inventate; ogni
nuova invenzione presuppone la conoscenza delle abilità già utilizzate
e dei loro scopi, ma dopo tutti i miglioramenti finora avvenuti resta ancora
sempre il compito principale, che dopo tutto Reinhold sembra raffigurarsi come
se si dovesse trovare un'ultima abilità universalmente valida per mezzo
della quale l'opera si compia da sola per chiunque desideri farsene conoscitore.
Se si avesse a che fare con una simile invenzione, e la scienza fosse una morta
opera di una destrezza estranea, allora le converrebbe certamente quella perfettibilità
di cui sono capaci le arti meccaniche, e in ogni tempo i sistemi filosofici
precedenti non sarebbero da considerare come nient'altro che esercizi preparatori
di grandi menti. Ma se l'assoluto, come la ragione, sua manifestazione, è
eternamente uno e lo stesso, come infatti è, allora ogni ragione che
si è rivolta a se stessa e si è riconosciuta ha prodotto una vera
filosofia e ha risolto il proprio compito, il quale, come la sua soluzione,
è in ogni tempo lo stesso. Poiché nella filosofia la ragione,
che conosce se stessa, ha a che fare solo con sé, sta dunque anche in
lei stessa tutta la sua opera come sua attività, e riguardo all'intima
essenza della filosofia non si danno né predecessori né successori.
Come non si può trattare di costanti miglioramenti, altrettanto poco
il discorso può vertere su modi di vedere peculiari della filosofia;
come potrebbe il razionale essere peculiare? Ciò che è peculiare
di una filosofia, proprio per il fatto che è peculiare, può appartenere
solo alla forma del sistema e non all'essenza della filosofia. Se una peculiarità
costituisse davvero l'essenza di un sistema, allora non ci sarebbe filosofia;
e quando un sistema dichiara da sé una [11] peculiarità come la
sua essenza, allora potrebbe nonostante ciò essere scaturito da autentica
speculazione, che è fallita solo nel tentativo di esprimersi nella forma
di una scienza. Chi è prigioniero di una peculiarità, non vede
negli altri altro che peculiarità. Se nell'essenza della filosofia viene
concesso un posto a opinioni particolari, e se Reinhold ritiene una filosofia
peculiare ciò a cui si è rivolto nei tempi più recenti,
allora è possibile ritenere con Reinhold tutti i modi finora datisi in
generale di rappresentare e risolvere il compito della filosofia come peculiarità
ed esercizi preparatori, attraverso i quali tuttavia - poiché, sebbene
scorgiamo le coste delle Isole Felici della filosofia, alle quali aneliamo,
ricoperte solo dei relitti di navi naufragate, e nessun vascello in salvo nelle
loro baie, non possiamo tuttavia rinunciare alla convinzione teologica - viene
causato, preparandolo, il tentativo destinato a riuscire. Non altrimenti si
deve spiegare a partire dalla peculiarità della forma in cui si è
espressa la filosofia fichtiana anche che Fichte potesse dire di Spinoza che
Spinoza non può aver creduto alla propria filosofia, non può averne
avuto la convinzione completa, intima e vivente; e degli antichi che sarebbe
perfino dubbio se essi abbiano pensato consapevolmente il compito della filosofia.
Se qui la peculiarità della forma del proprio sistema e la sua robusta
costituzione complessiva producono una simile asserzione, la peculiarità
della filosofia reinholdiana consiste invece nella tendenza all'approfondimento
e alla fondazione, che si dà molto da fare con opinioni filosofiche particolari
e con uno sforzo storico. L'amore e la fede per la verità si sono innalzati
a una tale altezza pura e vertiginosa che egli, affinché il passo dentro
il tempio sia giustamente approfondito e fondato, erige un ampio vestibolo in
cui essi, per risparmiarsi tale passo, si danno da fare tanto a lungo con l'analizzare
e il metodizzare e il narrare, finché si convincono, a consolazione della
loro incapacità per la filosofia, che i passi arditi degli altri non
sono stati altro che esercizi preparatori e smarrimenti spirituali. L'essenza
della filosofia è propriamente priva di fondamento per le peculiarità,
e per giungere alla filosofia è necessario, se il corpo esprime la somma
delle peculiarità, precipitarvisi dentro à corps perdu; infatti
la ragione, che trova la coscienza impigliata in particolarità, diviene
speculazione filosofica solo elevandosi a se stessa e affidandosi unicamente
a se stessa e all'assoluto, che diviene insieme suo oggetto; ciò facendo
essa non rischia altro che finitezze della coscienza, e per superarle, e costruire
l'assoluto nella coscienza, si eleva alla speculazione ed ha colto [12] nella
mancanza di fondamento delle limitazioni e delle peculiarità il suo proprio
fondamento in se stessa. Poiché la speculazione è l'attività
dell'unica e universale ragione su se stessa, allora essa, se ha liberato il
proprio punto di vista dalle casualità e limitazioni, deve, invece di
vedere nei sistemi filosofici di diverse epoche e menti solo diversi modi e
opinioni meramente peculiari, trovare attraverso le forme particolari se stessa,
- e altrimenti trovare una mera molteplicità di concetti e opinioni intellettuali,
e una simile molteplicità non è filosofia. Quanto è veramente
peculiare in una filosofia è l'individualità interessante, in
cui la ragione si è organizzata una figura per mezzo dei materiali di
costruzione di una determinata epoca; la ragione speculativa determinata trova
in ciò spirito del suo spirito, carne della sua carne, vi si intuisce
come una e medesima, e come un'altra essenza vivente. Ogni filosofia è
in sé compiuta ed ha, come un'autentica opera d'arte, in sé la
totalità. Quanto poco le opere di Apelle e Sofocle, se Raffaello e Shakespeare
le avessero conosciute, sarebbero potute apparire loro come meri esercizi preparatori
per loro stessi, e non invece come una forza affine dello spirito, altrettanto
poco la ragione può scorgere nelle sue figure precedenti solo utili esercizi
preparatori di se stessa; e se Virgilio ha considerato Omero un simile esercizio
preparatorio per se stesso e la sua epoca più raffinata, la sua opera
è proprio perciò rimasta un esercizio di imitazione. IL BISOGNO
DELLA FILOSOFIA Se consideriamo più da vicino la forma particolare che
una filosofia assume, allora la vediamo nascere da un lato dalla vivente originalità
dello spirito, che ha in lei ristabilito e autonomamente configurato per mezzo
di sé la lacerata armonia, dall'altro dalla forma determinata che assume
la scissione da cui il sistema scaturisce. La scissione è la sorgente
del bisogno della filosofia, e, in quanto cultura dell'epoca, il lato non libero
e dato della figura. Nella cultura ciò che è manifestazione dell'assoluto
si è isolato dall'assoluto e fissato come qualcosa di autonomo. Ma allo
stesso tempo la manifestazione non può rinnegare la sua origine e deve
prefiggersi di costituire in una totalità la molteplicità delle
sue limitazioni; la forza del limitare, l'intelletto, intreccia al suo edifico,
che pone tra gli uomini e l'assoluto, tutto ciò che per [13] l'uomo ha
valore ed è sacro, lo consolida per mezzo di tutte le potenze della natura
e dei talenti e lo estende nell'infinità; in esso si trova la totalità
completa delle limitazioni, ma non l'assoluto stesso; perduto nelle parti, l'assoluto
spinge l'intelletto al suo infinito sviluppo della molteplicità, ma questi,
mentre anela ad estendersi fino all'assoluto, produce infinitamente solo se
stesso, e si prende gioco di sé. La ragione raggiunge l'assoluto solo
uscendo da questa molteplice essenza parziale; quanto più solido e splendido
è l'edificio dell'intelletto, tanto più inquieto diviene l'anelito
della vita, che è vi impigliata come parte, ad abbandonarlo per porsi
nella libertà; non appena essa si allontana come ragione anche la totalità
delle limitazioni è annientata, in questo annientare posta in relazione
con l'assoluto e con ciò insieme posta e compresa come mero fenomeno.
La scissione tra l'assoluto e la totalità delle limitazioni è
scomparsa. L'intelletto imita la ragione nel porre assoluto, e per mezzo di
questa forma si dà l'apparenza della ragione, nonostante gli elementi
posti siano in sé contrapposti e dunque finiti; esso lo fa con tanto
maggiore verosimiglianza quando trasforma e fissa in un prodotto il negare razionale.
L'infinito, in quanto viene opposto al finito, è un tale razionale posto
dall'intelletto; esso esprime per sé come razionale solo la negazione
del finito; l'intelletto fissandolo lo oppone assolutamente al finito, e la
riflessione, che si era innalzata fino alla ragione togliendo il finito, si
è di nuovo abbassata all'intelletto fissando il fare della ragione nell'opposizione,
inoltre avanza la pretesa di essere razionale anche in questa ricaduta. La cultura
delle diverse epoche ha configurato tali contrapposti, che dovrebbero valere
come prodotti della ragione ed assoluti, in forme diverse, e l'intelletto si
è affaticato in essi. Gli opposti, che in genere furono importanti sotto
la forma di spirito e materia, anima e corpo, fede e intelletto, libertà
e necessità e così via, ed in vari altri modi in sfere più
limitate, e attirarono a sé tutto il peso degli interessi umani, nel
progresso della cultura sono trapassati nella forma dell'opposizione di ragione
e sensibilità, intelligenza e natura e, per il concetto generale, di
assoluta soggettività e assoluta oggettività. Togliere tali opposizioni
divenute fisse è l'unico interesse della ragione; questo suo interesse
non significa che essa si opponga in generale all'opposizione e alla limitazione,
perché la scissione necessaria è Un fattore della vita, che si
forma opponendo eternamente, e la totalità, nella più alta pienezza
di vita, è possibile solo per mezzo della ricostituzione a partire dalla
più alta [14] divisione. Al contrario la ragione si oppone all'assoluto
fissare la scissione da parte dell'intelletto, e tanto più, se gli assolutamente
opposti sono scaturiti dalla ragione stessa. Quando la potenza dell'unificazione
scompare dalla vita degli uomini e gli opposti hanno perduto il loro vivente
rapporto ed azione reciproca ed hanno acquisito autonomia, allora sorge il bisogno
della filosofia; per tale riguardo esso è una casualità, ma sotto
la scissione data esso è il tentativo necessario di togliere l'opposizione
della soggettività e dell'oggettività divenute fisse e di comprendere
come un divenire l'essere-divenuto del mondo intellettuale e reale e come un
produrre il suo essere in quanto prodotto. Nell'attività infinita del
divenire e del produrre la ragione ha unito ciò che era separato ed ha
abbassato la scissione assoluta ad una scissione relativa, che la ragione condiziona
per mezzo dell'identità originaria. Quando, dove ed in quale forma compaiono
tali autoriproduzioni della ragione come filosofia, è casuale. Questa
casualità deve essere compresa a partire dal fatto che l'assoluto si
pone come una totalità oggettiva; la casualità è una casualità
nel tempo in quanto l'oggettività dell'assoluto è intuita come
un progredire nel tempo; in quanto invece appare come una contiguità
nello spazio, la scissione è climatica; nella forma della riflessione
fattasi fissa, come un mondo di essenza pensante e pensata in opposizione a
un mondo di realtà, questa scissione cade nel nord-ovest. Quanto più
la cultura progredisce, quanto più molteplice diviene lo sviluppo delle
manifestazioni della vita, nelle quali si può intrecciare la scissione,
tanto maggiore diviene la potenza della scissione, tanto più fissa la
sua sacralità climatica, tanto più estranei alla totalità
della cultura e privi di significato gli sforzi della vita di rigenerarsi nell'armonia.
Tali tentativi, pochi in rapporto alla totalità, che hanno avuto luogo
contro la cultura moderna, e le belle creazioni più significative del
passato o della cultura straniera hanno potuto risvegliare solo quell'attenzione
che resta possibile quando non può venir inteso il più profondo
e serio rapporto all'arte vivente; con l'allontanamento da lei dell'intero sistema
delle relazioni di vita è perduto il concetto della sua connessione che
tutto comprende, ed è trapassato nel concetto o della superstizione o
di un gioco di intrattenimento. La somma perfezione estetica, come si forma
in una religione determinata, in cui l'uomo si eleva sopra ogni scissione e
vede svanire nel regno della grazia la libertà del soggetto e la necessità
dell'oggetto, ha potuto aver vigore solo fino ad un certo grado della cultura
e nella barbarie universale o plebea. La cultura nel suo [15] progredire si
è scissa da tale perfezione estetica, e la ha posta accanto a sé,
o si è posta accanto a lei, e poiché l'intelletto è divenuto
sicuro di sé sono prosperate l'una accanto all'altra fino ad una certa
quiete, grazie al fatto che si dividono in territori totalmente separati per
ognuno dei quali non ha alcun significato ciò che accade nell'altro.
Ma l'intelletto può anche essere attaccato dalla ragione immediatamente
sul suo territorio, e i tentativi di annientare la scissione, e con ciò
la sua assolutezza, per mezzo della stessa riflessione possono essere meglio
compresi; per questo la scissione, che si sentiva attaccata, si è rivolta
così a lungo con odio e collera contro la ragione, finché il regno
dell'intelletto si è lanciato in alto sino a una potenza tale che può
ritenersi al sicuro dalla ragione. Tuttavia come si usa dire della virtù
che il miglior testimone della sua realtà è l'apparenza che l'ipocrisia
prende in prestito da lei, così anche l'intelletto non può difendersi
dalla ragione, e cerca di garantirsi per mezzo di un'apparenza di ragione, con
cui maschera le sue particolarità, contro il sentimento dell'interna
vacuità e contro il segreto timore da cui è tormentata la limitatezza.
Il disprezzo verso la ragione si mostra nel modo più forte non nel fatto
che essa viene liberamente disdegnata e ingiuriata, ma nel fatto che la limitatezza
si gloria di maestria nella filosofia e di amicizia con lei. La filosofia deve
respingere l'amicizia con simili falsi tentativi che si gloriano in modo disonesto
dell'annientamento delle particolarità, muovono dalla limitazione e applicano
la filosofia come un mezzo per salvare e mettere al sicuro tali limitazioni.
Nella lotta dell'intelletto con la ragione, quello guadagna una forza solo in
quanto questa rinuncia a se stessa; il buon esito della lotta dipende dunque
da lei stessa e dell'autenticità del bisogno di ricomposizione della
totalità da cui procede. Il bisogno della filosofia può essere
espresso come il suo presupposto, se alla filosofia, che comincia con se stessa,
deve essere fatta una specie di vestibolo; e nei nostri tempi si è molto
parlato di un presupposto assoluto. Ciò che viene chiamato presupposto
della filosofia non è altro che il bisogno sopra espresso. Poiché
il bisogno così è posto per la riflessione, è necessario
che ci siano due presupposti. Uno è l'assoluto stesso; esso è
la meta che viene cercata; esso c'è già, come potrebbe altrimenti
venir cercato? La ragione lo produce solo nel liberare la coscienza dalle limitazioni,
questo togliere le limitazioni è condizionato dalla presupposta illimitatezza.
L'altro presupposto sarebbe l'esser-uscita della coscienza dalla totalità,
la scissione in essere e non essere, in concetto ed essere, in finitezza e infinitezza.
Per il punto di vista della scissione la sintesi assoluta è un al di
là, l'indeterminato e il privo di forma opposto alle sue determinatezze;
[16] l'assoluto è la notte, e la luce è più giovane di
lei, e la differenza tra di loro, così come l'uscire della luce dalla
notte, è una differenza assoluta; - il nulla è il primo, da cui
è proceduto tutto l'essere, tutta la molteplicità del finito.
- Ma il compito della filosofia consiste nell'unire questi presupposti, nel
porre l'essere nel non essere - come divenire, la scissione nell'assoluto -
come sua manifestazione, il finito nell'infinito - come vita. Tuttavia è
maldestro esprimere il bisogno della filosofia come un suo presupposto, perché
così il bisogno ottiene una forma della riflessione; questa forma della
riflessione si manifesta come principi contraddittori, di cui si parlerà
sotto; si può pretendere dai principi che si giustifichino, e la giustificazione
di questi principi come presupposti non dovrebbe essere la filosofia stessa,
e così l'approfondire e il fondare precedono e si dipartono dalla filosofia.
LA RIFLESSIONE COME STRUMENTO DEL FILOSOFARE La forma che il bisogno della filosofia
otterrebbe se dovesse essere espresso come presupposto, dà il passaggio
dal bisogno della filosofia allo strumento del filosofare, alla riflessione
come ragione. L'assoluto deve essere costruito per la coscienza, è il
compito della filosofia; poiché tuttavia il produrre, come il prodotto,
della riflessione sono solo limitazioni, questa è una contraddizione.
L'assoluto deve essere riflesso, posto, ma con ciò esso non è
stato posto, ma al contrario è stato tolto, perché nell'essere
posto fu limitato. La mediazione di questa contraddizione è la riflessione
filosofica. Bisogna innanzitutto mostrare in che misura la riflessione è
capace di accogliere l'assoluto, e in che misura comporta nella sua occupazione,
come speculazione, la necessità e la possibilità di essere sintetizzata
con l'intuizione assoluta e di essere altrettanto compiuta per sé, soggettivamente,
quanto deve esserlo il suo prodotto, l'assoluto costruito nella coscienza come
insieme cosciente e incosciente. La riflessione isolata, come porre di contrapposti,
sarebbe un togliere l'assoluto, è la facoltà dell'essere e della
limitazione; ma la riflessione [17] ha, come ragione, rapporto all'assoluto,
ed è ragione solo attraverso questo rapporto. La riflessione annienta
così se stessa e tutto l'essere e il limitato ponendolo in rapporto all'assoluto;
insieme tuttavia il limitato ha un sussistere proprio per mezzo del suo rapporto
all'assoluto. La ragione si presenta come forza dell'assoluto negativo, quindi
come assoluto negare, e insieme come forza del porre l'opposta totalità
oggettiva e soggettiva. Per una volta essa eleva l'intelletto sopra se stesso,
lo spinge ad un tutto secondo il suo modo, lo seduce a produrre una totalità
oggettiva. Ogni essere è, perché è posto, un opposto, condizionato
e condizionante; l'intelletto completa queste sue limitazioni mediante il porre
le limitazioni opposte, come condizioni; queste abbisognano dello stesso compimento
ed il suo compito si amplia all'infinito. La riflessione qui sembra solo intellettuale,
ma questa guida alla totalità della necessità è la partecipazione
e la segreta efficacia della ragione; in quanto essa rende l'intelletto illimitato,
esso ed il suo mondo oggettivo trovano il tramonto nella ricchezza dell'infinito.
Poiché ogni essere che l'intelletto produce è un determinato,
ed il determinato ha un indeterminato davanti a sé e dietro di sé,
e la molteplicità dell'essere giace, incerta, tra due notti, essa poggia
sul nulla, poiché per l'intelletto l'indeterminato è nulla e finisce
nel nulla. La pervicacia dell'intelletto riesce a lasciar sussistere non unificate
l'una accanto all'altra le opposizioni del determinato e dell'indeterminato,
della finitezza e dell'infinitezza assegnatagli, e a tener fermo l'essere di
contro al non essere a lui altrettanto necessario. Poiché la sua essenza
tende ad una generale determinazione, ma il suo determinato è immediatamente
limitato per mezzo di un indeterminato, il suo porre e determinare non esaurisce
mai il compito, nello stesso porre e determinare già avvenuto si trova
un non-porre e un indeterminato, e dunque sempre di nuovo il compito stesso
di porre e determinare. - Se l'intelletto fissa questi opposti, il finito e
l'infinito, in modo che entrambi devono sussistere insieme come l'uno opposto
all'altro, allora egli si distrugge, perché l'opposizione di finito e
infinito ha il significato che finché uno di essi è posto, l'altro
è tolto. In quanto la ragione riconosce ciò essa ha tolto lo stesso
intelletto, il suo porre le appare come un non porre, i suoi prodotti come negazioni.
Questo annientare, o il puro porre senza opposti della ragione, sarebbe, se
essa viene contrapposta all'infinità oggettiva, l'infinità soggettiva,
il regno della libertà opposto al mondo oggettivo; poiché tuttavia
tale regno in questa forma è esso stesso opposto e condizionato, la ragione
deve dunque, per togliere assolutamente l'opposizione, annientare anch'esso
in quanto autonomo. [18] La ragione nell'unificarli li distrugge entrambi, poiché
essi sono solo in quanto non sono unificati. In questa unificazione, nel contempo,
entrambi sussistono, poiché l'opposto è così posto in rapporto
con l'assoluto; tuttavia esso non sussiste per sé, ma solo nella misura
in cui è posto nell'assoluto, cioè come identità. Il limitato,
in quanto appartiene ad una delle due totalità opposte e dunque relative,
è o necessario o libero; in quanto esso appartiene alla sintesi di entrambe
la sua limitatezza ha termine, è insieme libero e necessario, cosciente
e incosciente. Questa cosciente identità del finito e dell'infinitezza,
l'unificazione nella coscienza dei due mondi, il sensibile e l'intelligibile,
il necessario e il libero, è il sapere. La riflessione, come facoltà
del finito, e l'infinito ad essa opposto sono sintetizzati nella ragione, la
cui infinità comprende in sé il finito. Fino a che la riflessione
fa di se stessa il proprio oggetto [Gegenstand], la sua legge più alta,
che le è assegnata dalla ragione e per mezzo della quale essa diviene
ragione, è il suo annientamento. Essa sussiste, come tutto, solo nell'assoluto,
ma come riflessione è opposta ad esso; quindi per sussistere deve darsi
la legge dell'autodistruzione. La legge immanente, per mezzo della quale essa
si costituiva per forza propria come assoluta, sarebbe la legge della contraddizione,
cioè che sia e rimanga il suo esser-posta; per mezzo di essa la riflessione
fissava i suoi prodotti come assolutamente opposti all'assoluto, si dava come
legge eterna di rimanere intelletto e di non diventare ragione, e di restar
ferma alla sua opera che in opposizione all'assoluto è nulla,- e in quanto
limitata è opposta all'assoluto. Come la ragione diviene qualcosa di
intellettuale e la sua infinitezza diviene soggettiva se essa è posta
in una opposizione, così la forma che esprime il riflettere come pensiero
è capace di questa ambiguità e di questo abuso. Se il pensare
non vien posto come l'attività assoluta della ragione stessa, per la
quale non c'è assolutamente alcuna opposizione, ma al contrario è
considerato solo un più puro riflettere, cioè un pensiero tale
che in esso viene solo fatta astrazione dall'opposizione, allora un tale pensiero
astraente non può mai uscire dall'intelletto per giungere alla logica
che deve comprendere in sé la ragione, e ancor meno alla filosofia. L'essenza
o l'intimo carattere del pensare in quanto pensare è posta da Reinhold
come l'infinita ripetibilità dell'uno e medesimo come uno e medesimo,
nell'uno e medesimo e per mezzo dell'uno e medesimo, o come identità;
si potrebbe essere indotti da questo apparente carattere di una identità
a vedere in questo pensiero la ragione, ma dalla sua opposizione a) contro un'applicazione
del pensare, b) contro un contenuto assoluto, diviene chiaro che questo pensiero
non è l'assoluta identità, l'identità del soggetto e dell'oggetto
che li toglie entrambi nella loro opposizione e li comprende in sé, ma
è al contrario una identità pura, sorta mediante [19] l'astrazione
e condizionata dall'opposizione, l'astratto concetto intellettuale dell'unità,
di uno degli opposti fissati. Reinhold vede l'errore della filosofia finora
datasi nell'abitudine così ampiamente diffusa e così profondamente
radicata tra i filosofi del nostro tempo di rappresentarsi il pensare in generale
e nelle sue applicazioni come un pensare meramente soggettivo. Se ci fosse vera
serietà a proposito dell'identità e della non soggettività
di questo pensare, allora Reinhold non potrebbe fare alcuna differenza tra pensare
e applicazione del pensare; se il pensare è identità vera, e non
soggettiva, dove si dovrebbe ancora prendere qualcosa di diverso dal pensiero,
una applicazione, per non parlare poi del contenuto che viene postulato allo
scopo dell'applicazione? Se il metodo analitico tratta un'attività, allora
essa deve apparirgli sintetica, perché deve essere analizzata; e mediante
l'analizzare sorgono ormai i membri dell'unità e di una molteplicità
ad essa contrapposta. Ciò che l'analisi rappresenta come unità
viene detto soggettivo, e il pensare viene caratterizzato come una tale unità
contrapposta al molteplice, come una identità astratta; esso è
così qualcosa di puramente limitato e la sua attività un applicare
conforme alla legge e secondo regole su una materia già presente, che
non può penetrare fino al sapere. Solo nella misura in cui la riflessione
ha rapporto all'assoluto essa è ragione e la sua azione un sapere, tuttavia
attraverso questo rapporto la sua opera svanisce e solo il rapporto sussiste
ed è l'unica realtà della conoscenza; quindi non c'è altra
verità della riflessione isolata, del puro pensare, che quella del loro
annientarsi. Ma l'assoluto, poiché nel filosofare esso è prodotto
dalla riflessione per la coscienza, diviene così una totalità
oggettiva, un tutto di sapere, una organizzazione di conoscenze; in questa organizzazione
ogni parte è insieme il tutto, poiché sussiste come rapporto all'assoluto:
come parte, che ne ha altre fuori di sé, è un limitato ed è
solo mediante le altre; isolata come limitazione è manchevole, ha senso
e significato solo attraverso la sua connessione col tutto. Non si può
dunque parlare di concetti singoli per sé, di conoscenze singole, come
di un sapere. Può darsi una quantità di singole conoscenze empiriche;
come sapere dell'esperienza esse mostrano la loro giustificazione nell'esperienza,
cioè nell'identità del concetto e dell'essere, del soggetto e
dell'oggetto; proprio perciò esse non sono un sapere scientifico, poiché
hanno questa giustificazione solo in un'identità limitata, relativa e
né si legittimano come parti necessarie di un tutto organizzato della
conoscenza, né è riconosciuta in esse, mediante la speculazione,
l'assoluta identità, il rapporto all'assoluto. RAPPORTO DELLA SPECULAZIONE
CON IL BUON SENSO [20] Anche il razionale, come sa il cosiddetto buon senso,
è altrettanto costituito di singolarità tratte dall'assoluto nella
coscienza, punti luminosi che si innalzano per sé fuori dalla notte della
totalità, per mezzo dei quali l'uomo si conduce razionalmente attraverso
la vita; sono per lui giusti punti di vista da cui egli prende le mosse e a
cui ritorna. Ma in realtà l'uomo ha anche una tale fiducia nella loro
verità perché l'assoluto lo accompagna in esse con un sentimento,
e solo questo dà loro significato. Tali verità del senso comune
prese per sé, isolate in modo meramente intellettuale, come conoscenze
in generale, appaiono erronee e mezze verità, ed il buon senso può
venir confuso dalla riflessione; non appena si impelaga in essa, ciò
che ora egli esprime come principio della riflessione avanza la pretesa di valere
per sé come un sapere, come conoscenza, ed egli ha rinunciato alla sua
forza, quella di sostenere le sue enunciazioni mediante l'oscura totalità,
presente come sentimento, e di opporsi solo con esso all'inquieta riflessione.
Certamente il buon senso si esprime per la riflessione, ma i suoi enunciati
non contengono anche per la coscienza il rapporto alla totalità assoluta,
questo al contrario rimane nell'interno ed inespresso; perciò la speculazione
ben comprende il buon senso, ma il buon senso non comprende il fare della speculazione.
La speculazione riconosce come realtà della conoscenza solo l'essere
della conoscenza nella totalità, tutto ciò che è determinato
ha per lei realtà e verità solo nel rapporto riconosciuto con
l'assoluto; per questo essa riconosce l'assoluto anche in ciò che sta
a base degli enunciati del buon senso, ma poiché per lei la conoscenza
ha realtà solo in quanto è nell'assoluto, per lei è annientato
il conosciuto e il saputo così come è espresso per la riflessione
ed ha, proprio per questo, una forma determinata. Le identità relative
del buon senso, che avanzano la pretesa dell'assolutezza così come appaiono,
nella loro forma limitata, per la riflessione filosofica divengono casualità.
Il buon senso non può comprendere come ciò che per lui è
immediatamente certo per la filosofia sia nel contempo un nulla, perché
egli nelle sue verità immediate sente solo il loro rapporto con l'assoluto,
ma non separa questo sentimento dalla loro manifestazione, e proprio come tale
manifestazione esse dovrebbero avere sussistenza e essere assoluto, ma per la
speculazione scompaiono.[21] Ma il buon senso non solo non può comprendere
la speculazione, ma anzi deve anche odiarla, ove ne faccia esperienza, e, se
non si trova nella piena indifferenza della sicurezza, detestarla e perseguitarla.
Infatti come per il buon senso l'identità dell'essenza e della contingenza
dei suoi enunciati è assoluta ed egli non è in grado di separare
i limiti del fenomeno dall'assoluto, allo stesso modo anche ciò che egli
separa nella sua coscienza è assolutamente opposto, ed egli non può
unificare nella coscienza ciò che riconosce come limitato con l'illimitato;
essi sono certamente identici in lui, ma questa identità rimane qualcosa
di interiore, un sentimento, qualcosa di non conosciuto ed inespresso. Come
egli ricorda il limitato, e questo è posto nella coscienza, così
per la coscienza l'illimitato è assolutamente opposto al limitato. Questo
rapporto o relazione della limitatezza con l'assoluto, secondo il quale nella
coscienza è presente solo l'opposizione, mentre circa l'identità
c'è solo una completa incoscienza, si chiama fede. La fede non esprime
il sintetico del sentimento o dell'intuizione, essa è un rapporto della
riflessione all'assoluto, e la riflessione in questo rapporto è certo
ragione e annienta certamente se stessa come un separante e separato, come anche
i suoi prodotti - una coscienza individuale -, eppure ha mantenuto ancora la
forma della separazione. L'immediata certezza della fede, di cui tanto si è
parlato come dell'ultimo e del sommo della coscienza, non è altro che
l'identità stessa, la ragione, che tuttavia non si riconosce, ma è
accompagnata dalla coscienza dell'opposizione. Ma la speculazione eleva alla
coscienza l'identità, inconsapevole per il buon senso, o costruisce in
identità ciò che nella coscienza del senso comune è necessariamente
opposto, e questa unione di ciò che per la fede è diviso è
per lui un orrore. Poiché il sacro e il divino sussiste nella sua coscienza
solo come oggetto, esso vede nell'opposizione tolta, nell'identità per
la coscienza, solo distruzione del divino. In particolare tuttavia il buon senso
non deve scorgere null'altro che distruzione in quei sistemi filosofici che
soddisfano l'esigenza dell'identità consapevole in un superamento della
scissione tale che uno degli opposti, in particolare se esso è già
fissato dalla cultura del tempo, è elevato all'assoluto e l'altro è
annientato. Qui la speculazione come filosofia ha certamente tolto l'opposizione,
ma come sistema ha elevato all'assoluto un limitato secondo la sua forma abitualmente
nota. L'unico aspetto che qui è in questione, e cioè quello speculativo,
non è affatto presente per il senso comune; sotto questo aspetto speculativo
il limitato è qualcosa di completamente diverso da quel che appare al
senso comune; [22] proprio perché è stato elevato all'assoluto
esso non è più questo limitato. La materia del materialista, o
l'io dell'idealista, sono - non più quella la morta materia che ha una
vita come opposizione e formazione; - non più questo la coscienza empirica,
che come limitata deve porre fuori di sé un infinito. Spetta alla filosofia
la questione se il sistema ha in verità purificato da ogni finitezza
quel fenomeno finito che innalzò all'infinito, se la speculazione, nel
suo massimo allontanamento dal senso comune e dal suo fissare opposti, non è
soggiaciuta al destino della sua epoca di aver posto assolutamente una forma
dell'assoluto, e quindi un che di essenzialmente opposto. Se la speculazione
ha realmente liberato il finito, che ha reso infinito, da tutte le forme della
manifestazione, allora è innanzitutto il nome ciò contro cui cozza
il senso comune, se non ha altrimenti notizia dell'agire speculativo. Se [sono]
i finiti che la speculazione di fatto innalza all'infinito e con ciò
annienta - e materia, io, in quanto devono comprendere la totalità, non
sono più io, non più materia - tuttavia manca ancora l'ultimo
atto della riflessione filosofica, e precisamente la coscienza del loro annientamento;
e se anche l'assoluto del sistema, malgrado questo annientamento di fatto avvenuto,
ha conservato una forma determinata, almeno non è da disconoscere l'autentica
tendenza speculativa, di cui tuttavia il senso comune non capisce nulla. Non
scorgendo affatto il principio filosofico, il togliere la scissione, ma solo
il principio sistematico, egli trova uno degli opposti elevato all'assoluto
e l'altro annientato, dunque c'era dalla sua parte ancora un vantaggio a riguardo
della scissione: nel senso comune come nel sistema è presente una opposizione
assoluta, eppure egli aveva proprio la completezza dell'opposizione, e si irrita
doppiamente. - Del resto a un simile sistema filosofico, a cui inerisce la manchevolezza
di innalzare all'assoluto qualcosa di ancora da un lato o dall'altro opposto,
viene, oltre al suo aspetto filosofico, ancora un vantaggio e un guadagno, di
cui il senso comune non solo non comprende nulla, ma che anzi esso deve anche
detestare, - il vantaggio di aver abbattuto d'un colpo, con l'innalzamento di
un finito a principio infinito, tutta la massa delle finitezze che dipendono
dal principio opposto, - il guadagno, riguardo alla cultura, di aver reso la
scissione tanto più dura, e di aver tanto rafforzato il bisogno dell'unificazione
nella totalità. La testardaggine del buon senso di tener saldo se stesso
nella forza della sua inerzia, l'incosciente nella sua originaria pesantezza
ed opposizione [23] contro la coscienza, la materia contro la differenza, che
vi porta la luce solo per ricostruirla a sintesi in una più alta potenza,
- tale testardaggine richiede sotto i climi settentrionali certamente un più
lungo periodo di tempo per essere provvisoriamente dominata a tal punto che
la materia atomistica stessa diventi più molteplice, che l'inerzia venga
trasposta in un movimento sul suo terreno innanzitutto mediante un più
molteplice combinarsi e scomporsi e mediante la maggiore quantità di
atomi fissi che viene così generata, in modo che il buon senso si confonda
sempre più nel suo agire e sapere intellettuale, sinché non si
renda capace di sopportare il superamento di questa confusione e dell'opposizione
stessa. Se per il buon senso appare solo l'aspetto annientatore della speculazione,
questo annientare tuttavia non gli appare in tutta la sua estensione, e se egli
potesse comprendere tale estensione non considererebbe la speculazione la sua
avversaria; poiché la speculazione nella sua sintesi più alta
del conscio e dell'inconscio esige anche l'annientamento della coscienza stessa,
e la ragione affonda così nel suo proprio abisso il suo riflettere l'assoluta
identità, e il suo sapere, e se stessa, e in questa notte della mera
riflessione e dell'intelletto raziocinante, che è il mezzogiorno della
vita, possono entrambi incontrarsi. PRINCIPIO DELLA FILOSOFIA NELLA FORMA DI
UNA PROPOSIZIONE FONDAMENTALE ASSOLUTA La filosofia come una totalità
del sapere prodotta mediante la riflessione diviene un sistema, un tutto organico
di concetti, la cui legge suprema non è l'intelletto ma la ragione; l'intelletto
deve indicare esattamente gli opposti di ciò che ha posto, i suoi confini,
fondamento e condizione, ma la ragione unifica questi contraddittori, li pone
insieme e li toglie entrambi. Al sistema in quanto organizzazione di proposizioni
può porsi la richiesta che gli sia presente l'assoluto, che sta a fondamento
della riflessione, anche al modo della riflessione come suprema proposizione
fondamentale assoluta. Ma una tale richiesta porta già in sé la
sua nullità, poiché un posto mediante la riflessione, una proposizione,
è per sé un limitato e condizionato, e abbisogna di un altro per
la sua fondazione e così via all'infinito. Se l'assoluto viene espresso
in una proposizione fondamentale valida mediante e per il pensare, la cui forma
e materia siano uguali, allora o è posta la mera uguaglianza, ed è
esclusa l'ineguaglianza di forma e materia, e la proposizione fondamentale è
condizionata da questa ineguaglianza, - in questo caso la proposizione fondamentale
[24] non è assoluta ma anzi manchevole, esprime solo un concetto dell'intelletto,
un'astrazione -; oppure nel contempo è contenuta in lei la forma e la
materia come ineguaglianza, la proposizione è insieme analitica e sintetica,
dunque la proposizione fondamentale è un'antinomia, e per questo non
una proposizione: essa in quanto proposizione è sottoposta alla legge
dell'intelletto, di non contraddirsi in sé, di non togliersi ma essere
un posto, e tuttavia come antinomia si toglie. Questa folle illusione, che qualcosa
di posto solo per la riflessione debba necessariamente stare al vertice di un
sistema come suprema assoluta proposizione fondamentale, o che l'essenza di
ogni sistema si lasci esprimere in una proposizione che sia assoluta per il
pensare, fa di un sistema a cui applichi il suo giudizio un facile affare; infatti
si può dimostrare molto facilmente che un pensato, che la proposizione
esprime, è condizionato da un opposto e quindi non è assoluto;
di questo opposto alla proposizione si dimostra che deve essere posto, e che
dunque quel pensato che la proposizione fondamentale esprime è nullo.
Tale illusione si ritiene tanto più giustificata se il sistema stesso
esprime l'assoluto, che è suo principio, nella forma di una proposizione
o di una definizione che tuttavia in definitiva è una antinomia, e perciò
toglie se stessa in quanto qualcosa di posto per la mera riflessione; così
ad esempio smette di essere un concetto, poiché gli opposti sono uniti
in una contraddizione, il concetto di Spinoza della sostanza, che viene spiegata
come insieme causa e causato, concetto ed essere. - Nessun cominciamento di
una filosofia può avere un aspetto peggiore del cominciamento con una
definizione, come in Spinoza, un cominciamento che fa il più straordinario
contrasto con il fondare, approfondire, dedurre i principi del sapere, con il
faticoso riportare tutta la filosofia ai supremi dati di fatto della coscienza
e così via; ma se la ragione si è purificata dalla soggettività
del riflettere, allora può essere ritenuto pertinente anche quel candore
di Spinoza, che comincia la filosofia con la filosofia stessa e lascia fare
il suo ingresso alla ragione immediatamente con un'antinomia. Se il principio
della filosofia deve essere espresso per la riflessione in proposizioni formali,
allora come oggetto di questo compito non c'è innanzitutto nient'altro
che il sapere, in generale la sintesi del soggettivo e dell'oggettivo, o il
pensare assoluto; la riflessione tuttavia non è in grado di esprimere
la sintesi assoluta in una proposizione, se questa proposizione deve valere
come una proposizione vera e propria per l'intelletto; essa deve separare ciò
che nell'identità assoluta è uno, ed esprimere la sintesi e l'antitesi
separate, in due proposizioni: in una l'identità, nell'altra la scissione.
In A = A, come principio di identità, si riflette sull'essere-in-rapporto,
e in questa pura identità è contenuto questo rapportare, questo
essere-uno, l'uguaglianza; viene fatta astrazione [25] da ogni ineguaglianza.
A = A, l'espressione del pensare assoluto, o della ragione, ha per la riflessione
formale, che parla in proposizioni intellettuali, solo il significato dell'identità-dell'intelletto,
della pura unità, cioè di un'unità tale in cui è
fatta astrazione dall'opposizione. Ma la ragione non si trova espressa in questa
unilateralità dell'unità astratta; essa postula anche il porre
di ciò da cui veniva fatta astrazione nella pura uguaglianza, il porre
dell'opposto, dell'ineguaglianza. Il primo A è soggetto, l'altro è
oggetto, e l'espressione per la loro differenza è A non = A, o A = B.
Questo principio contraddice esplicitamente il precedente, in esso è
fatta astrazione dalla identità pura ed è posta la non-identità,
la forma pura del non-pensare, come nel primo la forma del puro pensare, che
è altro dal pensare assoluto, la ragione. Solo perché è
pensato anche il non pensare, perché mediante il pensare è posto
A non = A, questo principio può in generale essere posto. In A non =
A o A = B è parimenti l'identità, il rapportare, lo "="
del primo principio, ma solo soggettivamente, cioè solo in quanto il
non-pensare è posto mediante il pensare, ma questo essere-posto del non-
pensare per il pensare è per il non-pensare totalmente accidentale, una
mera forma per il secondo principio da cui, per avere pura la sua materia, deve
essere fatta astrazione. Questo secondo principio è tanto incondizionato
quanto il primo, e in quanto tale è condizione del primo, come il primo
è condizione del secondo principio. Il primo è condizionato per
mezzo del secondo in quanto sussiste mediante l'astrazione dall'ineguaglianza
che il secondo contiene; il secondo in quanto, per essere un principio, abbisogna
di un rapporto. Il secondo principio è del resto stato espresso sotto
la forma subalterna di principio del fondamento, o meglio è stato abbassato
a questo significato eminentemente subalterno perché lo si è trasformato
nel principio di causalità. A ha un fondamento significa che ad A spetta
un essere che non è un essere di A, A è un essere-posto che non
è l'essere-posto di A, quindi A non = A, A = B. Se viene fatta astrazione
dal fatto che A è un posto, come deve farsi astrazione per avere puro
il secondo principio, così esso esprime in generale un non-essere-posto
di A. Porre A insieme come posto e come non posto è già la sintesi
del primo e del secondo principio. Entrambi i principi sono principi di contraddizione
solo nel significato rovesciato; il primo, dell'identità, dichiara che
la contraddizione è = 0; il secondo, in quanto è posto in rapporto
col primo, dichiara che la contraddizione è altrettanto necessaria della
non-contraddizione; entrambi, in quanto principi, sono due posti per sé
di uguale potenza. In quanto il [26] secondo è espresso in modo tale
che il primo è in pari tempo rapportato ad esso, esso è la suprema
espressione possibile della ragione mediante l'intelletto; questo rapporto reciproco
è l'espressione dell'antinomia, e in quanto antinomia, in quanto espressione
della identità assoluta, è indifferente porre A = B o A = A, se
precisamente A = B e A = A viene assunto come rapporto di entrambi i principi.
A = A contiene la differenza dell'A come soggetto e dell'A come oggetto, insieme
con l'identità, come A = B l'identità dell'A e del B insieme alla
differenza di entrambi. Se l'intelletto non riconosce nel principio del fondamento,
come rapporto di entrambi i principi, l'antinomia, allora non è giunto
alla ragione, e formaliter il secondo principio non è per lui nulla di
nuovo; per il mero intelletto A = B non dichiara più del primo principio,
l'intelletto cioè comprende dunque l'essere-posto dell'A come B solo
come una ripetizione dell'A, ossia tiene ferma solo l'identità ed astrae
dal fatto che essendo ripetuto l'A posto come B, o in B, è posto un altro,
un non A, e proprio come A, dunque A come Non A. - Se si riflette meramente
sul formale della speculazione, e si tiene ferma la sintesi del sapere in forma
analitica, allora l'antinomia, la contraddizione che toglie se stessa, è
la suprema espressione formale del sapere e della verità. Nell'antinomia,
se la contraddizione viene riconosciuta come l'espressione formale della verità,
la ragione ha sottomesso a sé l'essenza formale della riflessione. Tuttavia
l'essenza formale ha il sopravvento se il pensare deve essere posto, nell'unica
forma del primo principio, opposto al secondo, con il carattere di una unità
astratta come primo vero della filosofia e se dall'analisi dell'applicazione
del pensare deve essere eretto un sistema della realtà della conoscenza;
allora il corso completo di questo operare puramente analitico si mostra nel
modo seguente. Il pensare come assoluta ripetibilità dell'A come A è
una astrazione, il primo principio espresso come attività; ma ora manca
il secondo principio, il non- pensare; si deve necessariamente passare ad esso
come condizione del primo, e si deve porre anche questo, la materia. Con ciò
gli opposti sono completi, ed il passaggio è un certo modo di rapporto
reciproco di entrambi, che si chiama un'applicazione del pensare ed è
una sintesi altamente incompleta. Ma anche questa debole sintesi è essa
stessa contro il presupposto del pensare come porre dell'A come A all'infinito,
poiché nell'applicazione A viene insieme posto come Non A, e il pensare
nel suo sussistere assoluto come un infinito ripetere dell'A come A viene tolto.
- Ciò che è opposto al pensare viene determinato, mediante il
suo rapporto al pensare, come un pensato, = A. Poiché tuttavia un tale
pensare, porre = A, è condizionato mediante un'astrazione, e dunque è
un opposto, dunque anche il pensato, oltre ad [27] essere un pensato = A, ha
ancora altre determinazioni = B che sono del tutto indipendenti dal mero essere-determinato
mediante il puro pensare, e queste sono meramente date al pensare. Dunque al
pensare, come principio del filosofare analitico, deve essere dato un contenuto
assoluto, di cui si parlerà più avanti. Il fondamento di questa
opposizione assoluta non lascia all'operare formale, su cui poggia la nota scoperta
di ricondurre la filosofia alla logica, alcun'altra sintesi immanente che quella
dell'identità dell'intelletto, di ripetere A all'infinito; ma per la
stessa ripetizione essa abbisogna di un B, C ecc., nei quali l'A ripetuto possa
essere posto. Questi B, C, D ecc. sono a causa della ripetibilità dell'A
un molteplice, a sé opposto, - ognuno ha particolari determinazioni non
poste mediante A, - cioè un contenuto assolutamente molteplice, il cui
b, c, d, ecc. si deve congiungere, come può, con l'A; una tale insulsaggine
del congiungere prende il posto di una identità originaria. L'errore
fondamentale può essere rappresentato così, che non si è
riflettuto sotto il riguardo formale sull'antinomia dell'A = A e dell'A = B.
A fondamento di una tale essenza analitica non sta la coscienza cha la manifestazione
puramente formale dell'assoluto è la contraddizione, una coscienza che
può sorgere solo se la speculazione muove dalla ragione, e dall'A = A
come assoluta identità del soggetto e dell'oggetto. INTUIZIONE TRASCENDENTALE
In quanto la speculazione viene considerata dal lato della mera riflessione,
l'assoluta identità appare in sintesi di opposti, dunque in antinomie.
Le identità relative, in cui si differenzia quella assoluta, sono certo
limitate, e in quanto tali sono per l'intelletto e non antinomiche; nel contempo
tuttavia poiché sono identità non sono meri concetti intellettuali,
e devono essere identità perché in una filosofia nessun posto
può stare senza rapporto all'assoluto; ma dal lato di questo rapporto
perfino ogni limitato è una (relativa) identità, e in quanto tale
un antinomico per la riflessione, - e questo è il lato negativo del sapere,
il formale, che guidato dalla ragione distrugge se stesso. Oltre a questo lato
negativo il sapere ha un lato positivo, e precisamente l'intuizione. Il puro
sapere, che significherebbe sapere senza intuizione, è l'annientamento
degli opposti nella contraddizione; l'intuizione senza questa sintesi degli
opposti è empirica, data, inconscia. Il sapere trascendentale unisce
entrambi, riflessione e intuizione; esso è insieme concetto ed essere.
Per il fatto che [28] l'intuizione diviene trascendentale entra nella coscienza
l'identità del soggettivo e dell'oggettivo, che nell'intuizione empirica
sono separati; il sapere, in quanto diviene trascendentale, non pone semplicemente
il concetto e la sua condizione, - o la loro antinomia, il soggettivo, - ma
pone insieme l'oggettivo, l'essere. Nel sapere filosofico l'intuìto è
un'attività dell'intelligenza e della natura, della coscienza e dell'incosciente
insieme. Esso appartiene a entrambi i mondi, nel contempo all'ideale e al reale
- all'ideale, in quanto è posto nell'intelligenza, e così nella
libertà, - al reale, in quanto ha il suo posto nella totalità
oggettiva, è dedotto come un anello della catena della necessità.
Se ci si pone dal punto di vista della riflessione o della libertà, allora
l'ideale è il primo e l'essenza e l'essere sono solo l'intelligenza schematizzata;
se ci si pone dal punto di vista della necessità o dell'essere, allora
il pensiero è solo uno schema dell'essere assoluto. Nel sapere trascendentale
sono entrambi unificati, essere e intelligenza; allo stesso modo sapere trascendentale
e intuizione trascendentale sono uno e lo stesso, la diversa espressione indica
solo la prevalenza del fattore ideale o reale. È estremamente significativo
che sia stato stabilito con tanta serietà che non si può filosofare
senza intuizione trascendentale: cosa potrebbe poi significare filosofare senza
intuizione? Disperdersi senza fine in finitezze assolute. Che queste finitezze
siano soggettive o oggettive, concetti o cose, o anche che si passi da una specie
all'altra, così il filosofare senza intuizione procede in una serie senza
fine di finitezze, e il passaggio dall'essere al concetto, o dal concetto all'essere,
è un salto ingiustificato. Un tale filosofare si dice un filosofare formale,
perché la cosa, come il concetto, sono, ognuno per sé, solo forma
dell'assoluto; esso presuppone la distruzione dell'intuizione trascendentale,
una assoluta opposizione dell'essere e del concetto, e quando parla dell'incondizionato
fa diventare di nuovo perfino questo un incondizionato formale, quasi nella
forma di un'idea che sia opposta all'essere. Quanto migliore è il metodo,
tanto più brillanti divengono i risultati. Per la speculazione le finitezze
sono raggi del fuoco infinito, che li emana e insieme è costituito da
essi, il fuoco è posto nei raggi ed essi nel fuoco. Nell'intuizione trascendentale
ogni opposizione è tolta, è annientata ogni differenza della costruzione
dell'universo mediante e per l'intelligenza e della sua organizzazione intuita
come oggettiva e che appare indipendente. La speculazione è il produrre
la coscienza di questa identità, e poiché in lei idealità
e realtà sono uno, essa è intuizione. POSTULATI DELLA RAGIONE
[29] La sintesi dei due opposti, posti dalla riflessione, in quanto opera della
riflessione richiedeva il proprio compimento; in quanto antinomia, che si toglie,
il proprio sussistere nell'intuizione. Poiché il sapere speculativo deve
essere compreso come identità della riflessione e dell'intuizione, allora
nella misura in cui la parte della riflessione, che in quanto razionale è
antinomica, viene posta da sola ma sta in rapporto necessario con l'intuizione,
si può dire in questo caso dell'intuizione che venga postulata dalla
riflessione. Non si può parlare di postulare idee, poiché queste
sono prodotti della ragione, o meglio il razionale posto come prodotto mediante
l'intelletto; il razionale deve essere dedotto secondo il suo contenuto determinato,
ossia dalla contraddizione di opposti determinati la cui sintesi è il
razionale; solo l'intuizione che riempie e mantiene questo antinomico è
il postulabile. Una simile idea altrimenti postulata è il progresso all'infinito,
un miscuglio di empirico e di razionale: l'empirico è l'intuizione del
tempo, il razionale è il togliere ogni tempo, la sua infinitizzazione.
Ma nel progresso empirico il tempo non è reso infinito puramente, poiché
deve sussistere in esso come finito - come momenti limitati -, e il progresso
empirico è un'infinità empirica. La vera antinomia, che pone entrambi,
il limitato e l'illimitato, non l'uno accanto all'altro ma al contempo come
identici, deve con ciò insieme togliere l'opposizione. In quanto l'antinomia
postula l'intuizione determinata del tempo, questo deve essere insieme entrambe
le cose, momento limitato del presente e illimitatezza del suo esser-posto-fuori-di-sè,
e dunque eternità. Ancor meno l'intuizione può essere richiesta
come un opposto all'idea, o meglio alla necessaria antinomia; l'intuizione che
è opposta all'idea è esistenza limitata, proprio perché
esclude l'idea. L'intuizione è certo ciò che viene postulato dalla
ragione, ma non come un limitato, bensì per il compimento dell'unilateralità
dell'opera della riflessione; non perché restino opposte l'una all'altra,
ma perché siano uno. Si vede in generale che tutto questo modo di postulare
ha il suo fondamento solo nel fatto che si prendono le mosse dall'unilateralità
della riflessione; questa unilateralità ha bisogno, a completamento della
sua manchevolezza, di postulare l'opposto da lei escluso. Tuttavia sotto questo
punto di vista l'essenza della ragione riceve una falsa posizione, perché
ella qui appare come qualcosa che non basti a se stessa, ma anzi come bisognosa.
Ma se la ragione si riconosce come assoluta, allora la filosofia comincia con
ciò con cui finisce quella maniera che muove dalla riflessione: con l'identità
dell'idea e [30] dell'essere; essa non postula uno di loro, perché insieme
all'assolutezza essa pone immediatamente entrambi e l'assolutezza della ragione
nient'altro è che l'identità di entrambi. RAPPORTO DEL FILOSOFARE
CON UN SISTEMA FILOSOFICO Il bisogno della filosofia può essere soddisfatto
di essere penetrato sino al principio dell'annientamento di tutte le opposizioni
fissate e al rapporto del limitato con l'assoluto; questa soddisfazione nel
principio dell'identità assoluta si trova nel filosofare in generale.
Il conosciuto sarebbe secondo il suo contenuto un contingente; le scissioni,
dal cui annientamento esso muoveva, sarebbero date, e scomparse, - e non sintesi
nuovamente costruite; il contenuto di un tale filosofare non avrebbe in generale
alcuna connessione al suo interno, e non costituirebbe una totalità obiettiva
del sapere. Solo a causa della non connessione del suo contenuto questo filosofare
non è necessariamente un raziocinare: quest'ultimo disperde solo i posti
in una maggiore molteplicità, e se, gettato in questa corrente, nuota
scompostamente; tutta l'estensione, essa stessa scomposta, della molteplicità
intellettuale deve continuare a sussistere; invece al vero filosofare, anche
se privo di connessione, scompaiono il posto e i suoi opposti, in quanto esso
non mette il posto semplicemente in connessione con altri limitati, ma in rapporto
con l'assoluto, e con ciò lo toglie. Ma poiché questo rapporto
del limitato con l'assoluto è un molteplice, in quanto lo sono i limitati,
dunque il filosofare deve cercare di mettere in rapporto questa molteplicità
come tale; deve sorgere il bisogno di produrre una totalità del sapere,
un sistema della scienza. Solo così la molteplicità di quei rapporti
si libera dalla casualità, in quanto essi ottengono le loro posizioni
nella connessione della totalità oggettiva del sapere e viene realizzata
la loro compiutezza oggettiva. Il filosofare che non si costituisce in sistema
è una continua fuga davanti alle limitazioni, più un lottare della
ragione per la libertà che suo puro autoconoscersi che è divenuto
sicuro di sé e ha raggiunto la chiarezza su se stesso. La libera ragione
e il suo agire sono uno, e la sua attività è un puro esporre se
stessa. In questa autoproduzione della ragione l'assoluto si configura in una
totalità oggettiva che è un tutto sorretto e compiuto in se stesso,
che non ha alcun fondamento fuori di sé, ma anzi è fondata mediante
se stessa nel suo inizio, mezzo e fine. [31] Un tale tutto si manifesta come
un'organizzazione di proposizioni ed intuizioni; ogni sintesi della ragione,
e l'intuizione ad essa corrispondente, che sono entrambe unite nella speculazione,
in quanto identità del conscio e dell'inconscio è per sé
nell'assoluto ed infinita; tuttavia essa è insieme finita e limitata
in quanto è posta nella totalità oggettiva e ne ha altre fuori
di sé. L'identità meno scissa, oggettivamente la materia, soggettivamente
il sentire (autocoscienza), è nel contempo un'identità infinitamente
opposta, un'identità del tutto relativa. La ragione, la facoltà
della (in quanto oggettiva) totalità, completa tale identità mediante
il suo opposto, e mediante la sintesi produce una nuova identità, che
anch'essa è nuovamente manchevole di fronte alla ragione e che ugualmente
si completa di nuovo. Il metodo del sistema, che non si può chiamare
né sintetico né analitico, si dà nella forma più
pura quando si manifesta come uno sviluppo della ragione stessa, la quale non
richiama sempre nuovamente in sé l'emanazione della sua manifestazione,
come una duplicazione, - così la annienta solamente - ma invece si costruisce
in essa in una identità condizionata mediante quella duplicazione, oppone
nuovamente a sé questa identità relativa, così che il sistema
procede fino alla compiuta totalità oggettiva, la unifica con la totalità
soggettiva che le sta di contro in una visione del mondo infinita, la cui espansione
si è così contratta nella identità più ricca e più
semplice. È possibile che una autentica speculazione non si esprima compiutamente
nel suo sistema, o che la filosofia del sistema e il sistema stesso non coincidano,
che un sistema esprima nel modo più esatto la tendenza ad annientare
tutte le opposizioni, e non penetri per sé fino alla più compiuta
identità. La distinzione di questi due riguardi diviene particolarmente
importante nel giudizio sui sistemi filosofici. Se in un sistema il bisogno
che gli sta a fondamento non ha preso compiutamente forma, ed ha elevato all'assoluto
un condizionato, sussistente solo nell'opposizione, allora esso in quanto sistema
diviene dogmatismo; ma la vera speculazione può trovarsi nella più
diverse filosofie che si diffamano reciprocamente come dogmatismi e smarrimenti
dello spirito. La storia della filosofia ha valore e interesse solo se tiene
fermo questo punto di vista, altrimenti non dà la storia della ragione
eterna e una che si espone in forme infinitamente molteplici, ma null'altro
che una narrazione di eventi accidentali dello spirito umano e di opinioni senza
senso, che vengono addebitati alla ragione mentre invece stanno a carico solo
di chi non ha riconosciuto in essi il razionale e li ha perciò travisati.
[32] Una autentica speculazione, che tuttavia non giunge alla sua compiuta autocostruzione
in sistema, muove necessariamente dall'identità assoluta, la cui scissione
in soggettivo e oggettivo è una produzione dell'assoluto. Il principio
fondamentale è quindi completamente trascendentale e a partire dal suo
punto di vista non c'è alcuna opposizione assoluta del soggettivo e dell'oggettivo.
Ma con ciò la manifestazione dell'assoluto è un'opposizione, l'assoluto
non è nella sua manifestazione, manifestazione e assoluto sono essi stessi
opposti. La manifestazione non è identità. Questa opposizione
non può essere tolta trascendentalmente, cioè in modo tale che
non si dia alcuna opposizione in sé; con ciò la manifestazione
è solo annientata, e la manifestazione deve pur essere; si affermerebbe
che nella sua manifestazione l'assoluto sia uscito fuori di sé. L'assoluto
quindi deve porsi nella manifestazione stessa, cioè non annientarla,
ma costruirla in identità. Il rapporto causale tra l'assoluto e la sua
manifestazione è una falsa identità, perché a fondamento
di questo rapporto sta l'opposizione assoluta; in esso sussistono entrambi gli
opposti, ma con rango differente: l'unificazione è violenta, l'uno sottopone
a sé l'altro, l'uno domina, l'altro diviene sottomesso; l'unità
è ottenuta con la forza in una identità solo relativa, l'identità,
che deve essere assoluta, è un'identità incompleta. Il sistema
è divenuto un dogmatismo - un realismo, che pone assolutamente l'oggettività,
- o un idealismo, che pone assolutamente la soggettività, - e questo
contro la sua filosofia, se entrambi, il che è più dubbio per
il primo che per il secondo, sono risultati da vera speculazione. Il puro dogmatismo,
che è un dogmatismo della filosofia, rimane immanente all'opposizione
anche secondo la sua tendenza, in esso domina come principio fondamentale il
rapporto di causalità, nella sua forma più compiuta di azione
reciproca, l'azione dell'intellettuale sul sensibile o del sensibile sull'intellettuale.
Nel realismo ed idealismo conseguenti tale rapporto svolge solo un ruolo subordinato,
seppure sembri dominare e in quello il soggetto venga posto come prodotto dell'oggetto,
in questo l'oggetto come prodotto del soggetto; tuttavia il rapporto di causalità
quanto all'essenza è tolto, in quanto il produrre è un produrre
assoluto e il prodotto un prodotto assoluto, ovvero in quanto il prodotto non
ha alcuna sussistenza se non solo nel produrre, non è posto come un che
di autonomo, sussistente prima e indipendentemente dal produrre, come accade
nel puro rapporto di causalità, nel principio formale del dogmatismo.
In questo principio vi è un posto da A, e insieme anche non posto da
A; dunque A assolutamente solo soggetto, e A = A, esprime solo l'identità
dell'intelletto. Sebbene la filosofia nel suo operare trascendentale si serva
del rapporto causale, [33] B, che appare opposto al soggetto, secondo il suo
essere-opposto è una mera possibilità, e rimane assolutamente
una possibilità, cioè è solo un accidente; e il vero rapporto
della speculazione, il rapporto di sostanzialità, è il principio
trascendentale sotto l'apparenza del rapporto causale. Formalmente questo si
può esprimere anche così: il vero dogmatismo riconosce entrambi
i principi, A = A ed A = B, ma essi rimangono nella loro antinomia, non sintetizzati,
l'uno accanto all'altro; esso non riconosce che qui è presente un'antinomia,
e quindi nemmeno la necessità di togliere il sussistere degli opposti;
il passaggio dall'uno all'altro mediante il rapporto di causalità è
per lui l'unica, incompleta sintesi possibile. Ora nonostante la filosofia trascendentale
abbia questa netta differenza dal dogmatismo, le è possibile trapassare
in esso in quanto si costruisce come sistema, e cioè se essa non lascia
valere alcun rapporto causale reale, in quanto nulla è se non l'identità
assoluta, ed in essa si toglie ogni differenza e il sussistere degli opposti;
ma, in quanto deve insieme sussistere la manifestazione, e quindi deve esserci
un rapporto dell'assoluto con la manifestazione diverso dal suo annientamento,
introduce il rapporto di causalità, fa della manifestazione un sottomesso
e dunque pone l'intuizione trascendentale solo soggettivamente, non oggettivamente,
ossia non pone l'identità nella manifestazione. A = A ed A = B permangono
entrambi incondizionati; deve [soll] valere solo A = A; ma ciò vuol dire
che la loro identità non è esposta nella loro vera sintesi, la
quale non è un mero dover essere [Sollen]. Così nel sistema fichtiano
io = io è l'assoluto; la totalità della ragione comporta il secondo
principio, che pone un non-io; non c'è compiutezza solo in questa antinomia
del porre entrambi, ma viene postulata anche la loro sintesi. Ma in essa rimane
l'opposizione, non devono essere annientati entrambi, tanto l'io quanto il non-io,
ma deve sussistere l'unico principio che è per rango più alto
dell'altro; la speculazione del sistema richiede il togliere gli opposti, ma
il sistema stesso non li toglie, la sintesi assoluta a cui esso perviene non
è io = io, ma io deve [soll] essere uguale io; l'assoluto è costruito
per il punto di vista trascendentale ma non per quello della manifestazione,
entrambi si contraddicono ancora. Poiché l'identità non è
stata insieme posta nella manifestazione, o poiché l'identità
non è compiutamente passata anche nell'oggettività, la stessa
trascendentalità è un opposto, il soggettivo, e si può
anche dire che la manifestazione non è stata compiutamente annientata.
Nella seguente esposizione del sistema fichtiano si deve cercare di mostrare
che la coscienza pura, l'identità del soggetto e dell'oggetto posta nel
sistema come assoluta, è un'identità soggettiva del soggetto e
dell'oggetto. L'esposizione [34] prenderà la strada di dimostrare l'io,
il principio del sistema, come soggettoggetto soggettivo, tanto immediatamente,
quanto nel modo della deduzione della natura e particolarmente nelle relazioni
di identità nelle scienze particolari della morale e del diritto naturale
e nel rapporto dell'intero sistema con l'estetica. È chiaro già
da quanto detto sopra che in questa esposizione il discorso verte innanzitutto
su questa filosofia in quanto sistema, e non in quanto il sistema è la
più fondata e profonda speculazione, un autentico filosofare, né
in quanto tale filosofia è tanto più notevole per il tempo in
cui si è manifestata, e nel quale nemmeno la filosofia kantiana aveva
potuto spingere la ragione al concetto smarrito dell'autentica speculazione.
ESPOSIZIONE DEL SISTEMA FICHTIANO Il fondamento del sistema fichtiano è
l'intuizione intellettuale, il puro pensare se stesso, la pura autocoscienza
io = io, io sono; l'assoluto è soggetto-oggetto, e l'io è questa
identità del soggetto e dell'oggetto. Nella coscienza comune l'io si
presenta in opposizione; la filosofia deve spiegare questa opposizione contro
un oggetto e spiegarla significa mostrare la sua condizionatezza mediante un
altro e dunque dimostrarla come fenomeno. Se della coscienza empirica si dimostra
che è completamente fondata nella coscienza pura, e non meramente condizionata
da essa, con questo la loro opposizione è tolta, a condizione che d'altra
parte la spiegazione sia completa, ovvero che non sia indicata meramente un'identità
parziale della coscienza pura e empirica. L'identità è solo parziale
quando alla coscienza empirica rimane un lato da cui non è determinata
da quella pura, ma sarebbe invece incondizionata; e poiché come membri
della suprema opposizione compaiono solo la coscienza pura ed empirica, così
la stessa coscienza pura sarebbe determinata e condizionata dall'empirica, nella
misura in cui quest'ultima fosse incondizionata. Il rapporto sarebbe in questo
modo un rapporto reciproco, che comporta il reciproco determinare ed essere
determinato, ma presuppone una opposizione assoluta dei membri che stanno in
azione reciproca e quindi l'impossibilità di levare la scissione nell'identità
assoluta. [35] Per il filosofo questa autocoscienza pura sorge in quanto egli
astrae nel suo pensare da tutto quanto è estraneo e non è io,
e tiene fermo solo il rapporto del soggetto e dell'oggetto; nell'intuizione
empirica soggetto e oggetto sono tra loro opposti, il filosofo coglie l'attività
dell'intuire, intuisce l'intuire e così lo comprende come un'identità.
Questo intuire l'intuire è da un lato riflessione filosofica, ed è
opposta in generale alla riflessione comune così come alla coscienza
empirica, la quale non si innalza sopra se stessa e le proprie opposizioni;
- d'altra parte questa intuizione trascendentale è insieme l'oggetto
della riflessione filosofica, l'assoluto, l'identità originaria; il filosofo
si è innalzato nella libertà ed al punto di vista dell'assoluto.
Il suo compito ormai è quello di togliere l'apparente opposizione della
coscienza trascendentale e di quella empirica, e questo in generale accade per
il fatto che la seconda viene dedotta dalla prima. Necessariamente questa deduzione
non può essere un passaggio in qualcosa di estraneo; la filosofia trascendentale
mira solamente a costruire la coscienza empirica non a partire da un principio
che si trovi fuori dalla coscienza, ma da un principio immanente, come un'emanazione
attiva o autoproduzione del principio. Nella coscienza empirica può tanto
poco trovarsi qualcosa che non venga costruito a partire dalla pura autocoscienza,
quanto poco la coscienza pura è per essenza diversa da quella empirica.
La loro forma è diversa proprio in questo: che ciò che nella coscienza
empirica appare come oggetto, opposto al soggetto, nell'intuizione di questo
intuire empirico è posto come identico, e così la coscienza empirica
viene completata mediante ciò che costituisce la sua essenza, ma di cui
essa non ha alcuna coscienza. Il compito può anche essere posto così:
per mezzo della filosofia deve essere tolta la coscienza pura come concetto.
Nell'opposizione verso la coscienza empirica l'intuizione intellettuale, il
pensare se stesso, appare come concetto, e cioè come astrazione da tutto
il molteplice, da tutta l'ineguaglianza del soggetto e dell'oggetto. Essa certo
è puramente attività, fare, intuire, è presente solo nella
libera autoattività che la crea; questo atto, che si strappa da tutto
l'empirico, il molteplice, l'opposto, e si innalza all'unità del pensare,
io = io, identità del soggetto e dell'oggetto, ha una opposizione in
altri atti; per questo può essere determinato come un concetto, ed ha
una sfera superiore comune con quelli a lui opposti, quella del pensare in generale.
Oltre al pensare se stesso c'è ancora altro pensare, oltre all'autocoscienza
ancora molteplice coscienza empirica, [36] oltre all'io come oggetto, ancora
molteplici oggetti della coscienza. L'atto dell'autocoscienza si differenzia
certamente dall'altra coscienza in quanto il suo oggetto è uguale al
soggetto; io = io è opposto per questo a un infinito mondo oggettivo.
In questo modo mediante l'intuizione trascendentale non è sorto alcun
sapere filosofico, anzi, al contrario, se la riflessione si impossessa di lei,
la oppone ad altro intuire e tiene ferma questa opposizione, non è possibile
alcun sapere filosofico. Questo atto assoluto della libera autoattività
è la condizione del sapere filosofico, ma non è ancora la filosofia
stessa: mediante la filosofia la totalità oggettiva del sapere empirico
viene posta come uguale alla pura autocoscienza, quest'ultima viene così
completamente tolta come concetto od opposto, e con lei anche quella totalità
empirica. Viene affermato che in generale c'è solo autocoscienza pura,
io = io è l'assoluto; ogni coscienza empirica sarebbe solo un puro prodotto
dell'io = io, e la coscienza empirica sarebbe assolutamente negata in quanto
in lei o mediante lei dovrebbe esservi una duplicità assoluta, dovrebbe
presentarsi in lei un essere-posto, che non sarebbe un essere-posto dell'io
per l'io e mediante l'io. Con l'autoporre dell'io sarebbe posto tutto, e fuori
di esso nulla; l'identità della coscienza pura ed empirica non è
un'astrazione dal loro originario essere-opposti, ma al contrario la loro opposizione
è un'astrazione dalla loro identità originaria. L'intuizione intellettuale
è con ciò posta uguale a tutto, è la totalità; questo
essere- identica di ogni coscienza empirica con la pura è sapere; e la
filosofia, che sa questo essere-identico, è scienza del sapere. Essa
deve mostrare la molteplicità della coscienza empirica come identica
con la pura mediante l'azione, mediante lo sviluppo reale dell'oggettivo a partire
dall'io, e deve descrivere la totalità della coscienza empirica come
la totalità oggettiva dell'autocoscienza; in io = io le è data
l'intera molteplicità del sapere. Alla mera riflessione questa deduzione
appare come l'iniziare contraddittorio del dedurre la molteplicità dall'unità,
la duplicità dalla pura identità; ma l'identità dell'io
= io non è un'identità pura, cioè non è un'identità
sorta mediante l'astrarre della riflessione; se la riflessione comprende io
= io come unità, deve nel contempo comprenderlo anche come dualità;
io = io è identità e duplicità insieme, c'è un'opposizione
in io = io; io è una volta soggetto, l'altra oggetto, ma ciò che
viene opposto all'io è altrettanto io; gli opposti sono identici. La
coscienza empirica perciò non può essere considerata come un uscire
fuori dalla coscienza pura: secondo questo modo di considerare, una scienza
del sapere che muove a partire dalla coscienza pura sarebbe certamente qualcosa
di assurdo. A fondamento del modo di considerare secondo il quale nella coscienza
empirica si uscirebbe dalla pura sta la suddetta astrazione, [37] in cui la
riflessione isola il suo opporre. La riflessione come intelletto è incapace
in sé e per sé di accogliere l'intuizione trascendentale; e anche
quando la ragione è giunta all'autoriconoscimento, la riflessione, ove
le sia dato spazio, trasforma nuovamente il razionale in un opposto. Fin qui
abbiamo descritto l'aspetto puramente trascendentale del sistema, in cui la
riflessione non ha alcuna potenza, ma in cui il compito della filosofia è
stato determinato e descritto mediante le ragione. A causa di questo aspetto
autenticamente trascendentale è tanto più difficile sia cogliere
secondo il suo punto di inizio, sia tener fermo l'altro aspetto, in cui domina
la riflessione, perché all'intellettuale, in cui la riflessione ha trasformato
il razionale, resta sempre aperta la ritirata nell'aspetto trascendentale. Bisogna
quindi mostrare che i due punti di vista, quello della speculazione e quello
della riflessione, appartengono a questo sistema essenzialmente ed in modo tale
che il secondo non ha un posto subordinato, ma sono assolutamente necessari
e non unificati nel punto centrale del sistema. - Ovvero, io = io è principio
assoluto della speculazione, ma questa identità non viene mostrata dal
sistema; l'io oggettivo non diviene uguale all'io soggettivo; entrambi restano
assolutamente opposti tra loro; l'io non si trova nella sua manifestazione o
nel suo porre, per trovarsi come io deve distruggere la sua manifestazione;
l'essenza dell'io e il suo porre non coincidono, l'io non diviene oggettivo
a se stesso. Nella Dottrina della scienza Fichte ha scelto per l'esposizione
del principio del suo sistema la forma dei principi, della cui inadeguatezza
si è discorso sopra; il primo principio è assoluto porre se stesso
dell'io, l'io come porre infinito; il secondo è assoluto opporre, o porre
un infinito non-io; il terzo è l'assoluta unificazione dei primi due,
mediante l'assoluto separare l'io e il non-io ed un suddividere la sfera infinita
in un io divisibile e un non-io divisibile. Questi tre principi assoluti rappresentano
tre atti assoluti dell'io. Da questa molteplicità degli atti assoluti
segue immediatamente che questi atti ed i principi sono solo relativi o, nella
misura in cui entrano nella costruzione della totalità della coscienza,
sono solo fattori ideali. In questa posizione, in cui viene opposto ad altri
atti assoluti, io = io ha solo il significato della pura autocoscienza, in quanto
è opposta a quella empirica; come tale essa è condizionata mediante
l'astrazione da quella empirica, e come il secondo e il terzo principio sono
condizionati, altrettanto lo è il primo: già la molteplicità
degli atti assoluti indica immediatamente ciò, anche se il loro contenuto
è del tutto ignoto. Non è affatto necessario che io = io, l'assoluto
[38] porre se stesso, venga compreso come un condizionato, al contrario sopra
l'abbiamo visto nel suo significato trascendentale come identità assoluta
(non meramente intellettuale); ma in questa forma, come io = io, viene disposto
come uno tra molti principi, così non ha altro significato che quello
della pura autocoscienza, che viene opposta all'empirica, della riflessione
filosofica, che viene contrapposta alla comune. Tuttavia questi fattori ideali
del puro porre e del puro opporre potrebbero essere posti solo a vantaggio della
riflessione filosofica, la quale, se muove certo dall'identità originaria,
proprio per descrivere la vera essenza di questa identità comincia con
l'esposizione di assolutamente opposti e li congiunge in antinomia, - l'unico
modo per la riflessione di esporre l'assoluto, per sottrarre subito l'identità
assoluta dalla sfera dei concetti e per costruirla come un'identità che
non astrae da soggetto e oggetto, ma come un'identità del soggetto e
dell'oggetto. Questa identità non può essere intesa in modo tale
che il puro porre se stesso ed il puro opporre siano entrambi attività
di uno e del medesimo io; una tale identità sarebbe senz'altro non trascendentale
ma trascendente; l'assoluta contraddizione degli opposti dovrebbe sussistere,
la loro unificazione si ridurrebbe all'unificazione nel concetto generale dell'attività.
Si esige un'unificazione trascendentale, in cui vien tolta la contraddizione
delle due attività stesse e dai fattori ideali viene costruita una vera
sintesi, insieme ideale e reale. La dà il terzo principio, l'io oppone
nell'io all'io divisibile un non-io divisibile; l'infinita sfera oggettiva,
l'opposto, non è né io assoluto, né non-io assoluto, ma
ciò che racchiude gli opposti, che è riempito di opposti fattori,
i quali si trovano nella relazione per cui quanto l'uno è posto, altrettanto
non lo è l'altro, nella misura in cui l'uno aumenta, l'altro diminuisce.
Ma in questa sintesi l'io oggettivo non è uguale al soggettivo; il soggettivo
è io, l'oggettivo è io + non-io. In essi non si espone l'identità
originaria; la coscienza pura io = io e quella empirica io = io + non-io, con
tutte le forme in cui si costruisce, rimangono opposte l'una all'altra. L'incompiutezza
di questa sintesi, che il terzo principio esprime, è necessaria se gli
atti del primo e del secondo principio sono attività assolutamente opposte,
ovvero fondamentalmente non è affatto possibile alcuna sintesi, la sintesi
è possibile solo se le attività del porre se stesso [39] e dell'opporre
sono posti come fattori ideali. Sembra certamente contraddittorio che attività,
le quali non devono assolutamente essere concetti, debbano essere trattate solo
come fattori ideali; che io e non-io, soggettivo e oggettivo, gli unificabili,
siano espressi come attività, - porre e opporre -, o come prodotti, -
io oggettivo e non-io -, non fa alcuna differenza in sé, e nemmeno per
un sistema il cui principio è l'identità. Il loro carattere, di
essere assolutamente opposti, li rende semplicemente qualcosa di meramente ideale,
e Fichte riconosce questa loro pura idealità; per lui gli opposti prima
della sintesi sono qualcosa di completamente diverso che dopo la sintesi; prima
della sintesi essi sono semplicemente opposti, e nient'altro; l'uno è
ciò che l'altro non è, e l'altro ciò che l'uno non è;
un semplice pensiero senza ogni realtà e per giunta pensiero della semplice
realtà; come uno si presenta, l'altro è annientato, ma poiché
quest'uno può presentarsi solo con il predicato di opposto dell'altro,
e quindi con il suo concetto si presenta insieme il concetto dell'altro e lo
annienta, questo stesso uno non può presentarsi. Perciò non è
presente assolutamente nulla, e vi era solo una benefica illusione dell'immaginazione,
che inosservata spingeva un sostrato sotto quei semplicemente opposti, e rendeva
possibile il pensarli. - Dall'idealità degli opposti fattori risulta
che essi non sono nulla se non nell'attività sintetica, che solo mediante
questa sono posti il loro essere-opposti ed essi stessi, e che la loro opposizione
è stata utilizzata solo a vantaggio della costruzione filosofica, per
rendere comprensibile la facoltà sintetica. L'immaginazione produttiva
sarebbe l'assoluta identità stessa, rappresentata come attività,
che pone il limite solo ponendo il prodotto, - e insieme gli opposti come limitanti.
Che l'immaginazione produttiva appaia come facoltà sintetica che è
condizionata mediante opposti, questo varrebbe soltanto per il punto di vista
della riflessione, la quale muove da opposti e comprende l'intuizione solo come
loro unificazione; al contempo tuttavia la riflessione filosofica dovrebbe,
per qualificare questo modo di vedere come soggettivo, appartenente alla riflessione,
stabilire il punto di vista trascendentale riconoscendo quelle assolute attività
opposte come null'altro che fattori ideali, che identità del tutto relative
rispetto all'identità assoluta, nella quale sono tolte la coscienza empirica
non meno del suo opposto, la coscienza pura, che in quanto astrazione da quella
ha in lei un opposto. Solo in questo senso l'io è il centro trascendentale
di entrambe le attività opposte, ed indifferente verso entrambe; la loro
opposizione assoluta ha un significato solo per la loro idealità. [40]
Ma già l'incompiutezza della sintesi che è espressa nel terzo
principio, e in cui l'io oggettivo è un io + non-io, risveglia in sé
il sospetto che le attività opposte non dovessero valere semplicemente
come identità relative, come fattori ideali, come le si potrebbe ritenere
se si guarda semplicemente al loro rapporto con la sintesi e si astrae dal titolo
dell'assolutezza che entrambe le attività, come la terza, portano. Il
porre se stesso e l'opporre non devono tuttavia entrare in questa relazione
tra loro e verso le attività sintetiche. Io = io è attività
assoluta, che non deve essere considerata sotto nessun riguardo come identità
relativa e fattore ideale; per questo io = io un non-io è un assolutamente
opposto; ma la loro unificazione è necessaria, ed è l'unico interesse
della speculazione. Ma quale unificazione è possibile con il presupposto
di opposti assolutamente? Evidentemente nessuna in senso proprio; oppure solo
una identità parziale, perché si deve abbandonare almeno in parte
l'assolutezza della loro opposizione, e deve necessariamente subentrare il terzo
principio, ma l'opposizione sta a fondamento. L'identità assoluta è
certamente principio della speculazione, ma esso rimane, come la sua espressione:
io = io, solo la regola, il cui infinito adempimento è postulato, ma
non costruito nel sistema. Il punto principale deve essere quello di dimostrare
che porre se stesso ed opporre sono nel sistema attività assolutamente
opposte. Le parole di Fichte certo esprimono ciò immediatamente; ma questa
opposizione assoluta deve essere proprio la condizione sotto la quale soltanto
è possibile l'immaginazione produttiva. L'immaginazione produttiva tuttavia
è io solo come facoltà teoretica, che non può elevarsi
sopra l'opposizione; per la facoltà pratica l'opposizione cade, ed è
solo la facoltà pratica che la toglie; è quindi da dimostrare
che anche per essa l'opposizione è assoluta, e che nella stessa facoltà
pratica l'io non si pone come io, ma l'io oggettivo è altrettanto un
io + non-io, e la facoltà pratica non giunge all'io = io. Inversamente
l'assolutezza dell'opposizione risulta dall'incompiutezza della più alta
sintesi del sistema, in cui essa è ancora presente. L'idealismo dogmatico
ottiene l'unità del principio con il negare l'oggetto in generale, e
con il porre uno degli opposti, il soggetto nella sua determinatezza, come l'assoluto;
così come il dogmatismo, che nella sua purezza è materialismo,
nega il soggettivo. Se a fondamento del filosofare sta il bisogno di un'identità
tale, che debba riuscire mediante il venir negato uno degli opposti e il venir
fatta assolutamente astrazione da esso, [41] allora è indifferente quale
dei due, il soggettivo o l'oggettivo, viene negato. La loro opposizione è
nella coscienza e in essa la realtà dell'uno è tanto ben fondata
quanto la realtà dell'altro; nella coscienza empirica la coscienza pura
può essere dimostrata non più e non meno della cosa in sé
del dogmatico; da solo né il soggettivo né l'oggettivo esaurisce
la coscienza; il puro soggettivo è astrazione tanto quanto il puro oggettivo;
l'idealismo dogmatico pone il soggettivo come fondamento reale dell'oggettivo,
il realismo dogmatico l'oggettivo come fondamento reale del soggettivo. Il realismo
coerente nega in generale la coscienza come attività autonoma del porre
sé; ma anche se il suo oggetto, che esso pone come fondamento reale della
coscienza, viene espresso come non-io = non-io, quando il realismo mostra nella
coscienza la realtà del suo oggetto, e così gli vien fatta valere
l'identità della coscienza, come un assoluto, contro il suo oggettivo
allineare l'uno accanto all'altro il finito col finito, allora deve certamente
rinunciare alla forma del suo principio, di una pura oggettività. Come
esso concede un pensare, così deve essere esposto io = io a partire dall'analisi
del pensare; è espresso il pensare come principio, perché pensare
è spontaneo mettere in relazione gli opposti, e il mettere in relazione
è porre gli opposti come uguali. Eppure come l'idealismo fa valere l'unità
della coscienza, così il realismo può far valere la sua dualità.
L'unità della coscienza presuppone una dualità, il mettere in
relazione un essere-opposto; all'io = io sta di contro un altro principio altrettanto
assoluto: il soggetto non è uguale all'oggetto; entrambi i principi sono
dello stesso rango. Quanto alcune forme in cui Fichte ha esposto il suo sistema
potrebbero indurre a prenderlo come un sistema dell'idealismo dogmatico, che
nega il principio ad esso opposto, - e infatti a Reinhold sfugge il significato
trascendentale del principio fichtiano, secondo il quale si esige di porre in
io = io nel contempo la differenza del soggetto e dell'oggetto, e ravvisa nel
sistema fichtiano un sistema della soggettività assoluta, cioè
un idealismo dogmatico, - altrettanto l'idealismo fichtiano si differenzia proprio
per questo, che l'identità, che esso stabilisce, non nega l'oggettivo,
ma anzi pone il soggettivo e l'oggettivo nello stesso rango della realtà
e certezza, - e la coscienza pura ed empirica è uno. A causa dell'identità
del soggetto e dell'oggetto io pongo cose fuori di me tanto certamente, quanto
io pongo me; quanto certamente io sono, altrettanto certamente sono le cose.
Ma se l'io pone solo uno dei due, le cose o se stesso, o anche entrambi nel
contempo, ma separati, allora l'io nel sistema non diviene a sé lo stesso
soggetto = oggetto; il soggettivo è certo soggetto = oggetto, ma non
l'oggettivo, e quindi il soggetto non è uguale all'oggetto. [42] L'io
come facoltà teoretica non è in grado di porsi in modo compiutamente
oggettivo e di uscire dall'opposizione. L'io pone se stesso come determinato
dal non-io: è questa la parte del terzo principio mediante la quale l'io
si costituisce come intelligente. Anche se il mondo oggettivo ora si mostra
come un accidente dell'intelligenza, ed il non-io, mediante il quale essa pone
se stessa determinata, è un indeterminato, e ogni sua determinazione
un prodotto dell'intelligenza, resta tuttavia un lato della facoltà teoretica
dal quale essa è condizionata: infatti il mondo oggettivo, nella sua
infinita determinatezza mediante l'intelligenza, nel contempo rimane per lei
sempre un qualcosa che è per lei insieme indeterminato; il non-io non
ha certamente alcun carattere positivo, ma ha quello negativo di essere un altro,
cioè un opposto in generale; - o, come si esprime Fichte, l'intelligenza
è condizionata da un urto, che tuttavia è in sé del tutto
indeterminato. Poiché il non- io esprime solo il negativo, un indeterminato,
questo carattere stesso gli spetta solo mediante un porre dell'io; l'io si pone
come non posto; l'opporre in generale, il porre un assolutamente indeterminato
mediante l'io, è esso stesso un porre dell'io. In questa svolta è
affermata l'immanenza dell'io, anche come intelligenza rispetto al suo essere
determinata mediante un altro = X; ma la contraddizione ha solo ottenuto un'altra
forma, mediante la quale essa stessa è diventata immanente; ovvero l'opporre
dell'io e il porre se stesso dell'io si contraddicono, e la facoltà teoretica
non è in grado di uscire da questa opposizione, perciò per lei
essa rimane assoluta. L'immaginazione produttiva è un oscillare tra assolutamente
opposti, che essa può sintetizzare solo al limite, ma le cui estremità
opposte non può unificare. Mediante la facoltà teoretica l'io
non diviene a sé oggettivo, invece di penetrare fino all'io = io, gli
sorge l'oggetto come io + non-io; ovvero la coscienza pura si dimostra non uguale
all'empirica. Risulta da ciò il carattere della deduzione trascendentale
di un mondo oggettivo. Io = io, come principio della speculazione o della riflessione
filosofica soggettiva, che è opposta alla coscienza empirica, deve dimostrarsi
oggettivamente come principio della filosofia per il fatto che toglie l'opposizione
contro la coscienza empirica. Questo deve accadere quando la coscienza pura
produce a partire da se stessa una molteplicità di attività che
è uguale alla molteplicità della coscienza empirica: in questo
modo io = io si dimostrerebbe come il fondamento reale immanente della totalità
dell'esteriorità reciproca dell'oggettività. Ma nella coscienza
empirica c'è un opposto, un X, che la coscienza pura, poiché è
un porre se stessa, non [43] può produrre a partire da sé, né
superare, ma al contrario deve presupporlo. La domanda è: l'identità
assoluta non può, in quanto si manifesta come facoltà teoretica,
anche astrarre completamente dalla soggettività e dall'opposizione verso
la coscienza empirica, e divenire dentro questa sfera a se stessa oggettiva,
A = A? Ma questa facoltà teoretica, come io, che si pone come io determinato
mediante il non-io, non è affatto una sfera pura immanente, anche dentro
essa ogni prodotto dell'io è insieme un non determinato mediante l'io;
la coscienza pura, nella misura in cui produce la molteplicità della
coscienza empirica a partire da sé, appare perciò con il carattere
della manchevolezza; questa sua manchevolezza originaria costituisce dunque
la possibilità di una deduzione del mondo oggettivo in generale, e il
soggettivo della coscienza pura si manifesta in questa deduzione nel modo più
chiaro. L'io pone un mondo oggettivo perché esso si riconosce, nella
misura in cui pone se stesso, manchevole; e con questo cade l'assolutezza della
coscienza pura. Il mondo oggettivo consegue verso l'autocoscienza la relazione
secondo cui esso diviene una sua condizione; coscienza pura ed empirica si condizionano
reciprocamente, l'una è tanto necessaria quanto l'altra; si progredisce,
secondo l'espressione di Fichte, fino alla coscienza empirica perché
la coscienza pura non è una coscienza completa. - In questa relazione
reciproca rimane la loro opposizione assoluta; l'identità che può
aver luogo è sommamente incompleta, e superficiale; è necessaria
un'altra identità, che comprende in sé la coscienza pura ed empirica,
ma le toglie entrambe per quello che sono. Della forma che ottiene l'oggettivo
(o la natura) mediante questo modo della deduzione si parlerà sotto.
Ma la soggettività della coscienza pura, che risulta dalla forma sopra
discussa della deduzione, ci spiega un'altra sua forma, in cui la produzione
dell'oggettivo è un atto puro della libera attività. Se l'autocoscienza
è condizionata dalla coscienza empirica, allora la coscienza empirica
non può essere prodotto della libertà assoluta, e la libera attività
dell'io diverrebbe solo un fattore nella costruzione dell'intuizione di un mondo
oggettivo. Che il mondo è un prodotto dell'attività dell'intelligenza
è il principio esplicitamente espresso dell'idealismo, e se l'idealismo
di Fichte non ha costruito questo principio in un sistema, il motivo di ciò
si troverà nel carattere con cui la libertà compare in questo
sistema. La riflessione filosofica è un atto della libertà assoluta,
essa si innalza con assoluto arbitrio fuori dalla sfera dell'essere-dato e produce
coscientemente ciò che nella coscienza empirica l'intelligenza produce
incoscientemente e ciò che quindi appare come dato. La produzione non
cosciente di un mondo oggettivo non viene affermata come un atto della libertà,
nello stesso senso in cui alla riflessione filosofica la [44] molteplicità
delle rappresentazioni necessarie sorge come un sistema prodotto mediante la
libertà, infatti sotto questo riguardo la coscienza empirica e filosofica
sono opposte, ma in quanto entrambe sono l'identità del porre se stesso;
il porre se stesso, identità del soggetto e dell'oggetto, è libera
attività. Nella precedente esposizione della produzione del mondo obiettivo
a partire dalla coscienza pura o dal porre se stesso compariva necessariamente
un opporre assoluto; questo viene alla luce, nella misura in cui il mondo oggettivo
deve essere dedotto come un atto della libertà, come un autolimitare
dell'io mediante se stesso; e l'immaginazione produttiva viene costruita a partire
dai fattori dell'attività indeterminata, che va all'infinito, e di quella
che limita dirigendosi alla finitizzazione. Se l'attività riflettente
viene posta altrettanto come infinita, come deve essere posta, poiché
qui essa è un fattore ideale, un assolutamente opposto, allora essa stessa
può essere posta come un atto della libertà, e l'io si limita
con libertà; in questo modo libertà e limite non si opporrebbero
l'una all'altro, ma si porrebbero come infiniti - e come finiti; lo stesso che
si presentò sopra come opposizione del primo e del secondo principio.
La limitazione è così veramente un immanente, perché è
l'io che limita se stesso, gli oggetti vengono posti solo per spiegare questa
limitazione, e il limitare se stessa dell'intelligenza è l'unico reale;
in questo modo è tolta l'opposizione assoluta che la coscienza empirica
pone tra soggetto e oggetto, ma essa è portata, in altra forma, nell'intelligenza
stessa; e l'intelligenza si trova infine rinchiusa in limiti incomprensibili,
è sua legge assolutamente incomprensibile limitare se stessa. Ma proprio
l'incomprensibilità dell'opposizione della coscienza comune per lei stessa
è ciò che spinge alla speculazione, eppure l'incomprensibilità
rimane nel sistema per mezzo dei limiti posti nell'intelligenza stessa, rompere
il cui cerchio è l'unico interesse del bisogno filosofico. - Se la libertà
viene opposta all'attività limitante, come porre se stesso opposto all'opporre,
allora la libertà è condizionata, e questo non deve essere; se
anche l'attività limitante viene posta come un'attività della
libertà, - come sopra porre se stesso e opporre furono entrambi posti
nell'io, - allora la libertà è identità assoluta, ma essa
contraddice alla sua manifestazione, che è sempre un non- identico, finito
e non libero; alla libertà non riesce di produrre se stessa nel sistema,
il prodotto non corrisponde al produttore, il sistema, che muove dal porre se
stesso, sospinge l'intelligenza verso la sua condizione condizionata in un infinito
di finitezze, senza ricostituirla in esse e a partire da esse. Poiché
la speculazione non può dimostrare compiutamente il suo principio, io
= io, nel produrre inconsapevole, ma al contrario l'oggetto della facoltà
teoretica [45] contiene in sé necessariamente un non determinato dall'io,
si rimanda alla facoltà pratica. Mediante il produrre inconsapevole non
può riuscire all'io di porsi come io = io, o di intuirsi come soggetto
= oggetto; è dunque ancora presente l'esigenza che l'io si produca come
identità, come soggetto = oggetto, cioè praticamente; che l'io
compia la metamorfosi di se stesso nell'oggetto. Questa suprema esigenza nel
sistema fichtiano rimane un'esigenza; non solo non viene risolta in un'autentica
sintesi, ma viene al contrario fissata come esigenza, e con ciò l'ideale
è assolutamente opposto al reale, e la suprema autointuizione dell'io
come di un soggetto = oggetto resa impossibile. Io = io viene postulato praticamente,
e viene rappresentato in modo tale che l'io diventi come io oggetto a se stesso
in quanto entra in relazione di causalità con il non-io, cosicché
il non-io scomparirebbe e l'oggetto sarebbe un assolutamente determinato dall'io,
e dunque = io. Qui la relazione di causalità diviene dominante, e così
la ragione, o il soggetto = oggetto, è fissata come uno degli opposti
e la vera sintesi è resa impossibile. Questa impossibilità che
l'io si ricostruisca a partire dall'opposizione della soggettività e
della X, che sorge per lui nel produrre inconsapevole, e diventi uno con la
sua manifestazione, si esprime così: che la sintesi suprema che il sistema
indica è un dover essere; io uguale io si trasforma in: io deve essere
uguale io; il risultato del sistema non ritorna al suo cominciamento. L'io deve
[soll] annientare il mondo oggettivo, l'io deve [soll] avere sul non-io una
causalità assoluta; ciò vien trovato contraddittorio, perché
così il non-io sarebbe tolto, e l'opporre, o il porre un non-io, è
assoluto; la relazione dell'attività pura ad un oggetto può dunque
essere posta solo come sforzo. L'io oggettivo uguale al soggettivo ha, poiché
rappresenta l'io = io, contro di sé un opporre, dunque un non- io; quello,
l'ideale, e questo, il reale, devono essere uguali. Questo postulato pratico
del dovere assoluto non esprime nient'altro che un'unificazione pensata dell'opposizione,
che non si unifica in un'intuizione, esprime solo l'antitesi del primo e del
secondo principio. Così l'io = io è stato abbandonato dalla speculazione
ed è toccato alla riflessione; la coscienza pura non compare più
come identità assoluta, bensì essa nella sua più alta dignità
è opposta alla coscienza empirica. - Da ciò diviene chiaro quale
carattere abbia la libertà in questo sistema, cioè essa non è
il togliere [aufheben] gli opposti, ma l'opposizione contro essi; e in questa
opposizione viene fissata come libertà negativa. La ragione si costruisce
mediante la riflessione come unità, a cui sta di contro assolutamente
una molteplicità; il dover essere esprime questa sussistente [46] opposizione,
il non-essere dell'assoluta identità. Il puro porre, la libera attività,
è posto come un'astrazione, nella forma assoluta di un soggettivo. L'intuizione
trascendentale, da cui muove il sistema, nella forma della riflessione filosofica,
che si innalza al puro pensare se stesso mediante un'astrazione assoluta, era
un soggettivo. Per avere l'intuizione trascendentale nella sua vera mancanza
di forma era necessario che si facesse astrazione da questo carattere di un
soggettivo; la speculazione doveva allontanare questa forma dal suo principio
soggettivo, per innalzarlo alla vera identità del soggetto e dell'oggetto;
così invece l'intuizione trascendentale, in quanto appartiene alla riflessione
filosofica, e l'intuizione trascendentale, in quanto non è né
un soggettivo né un oggettivo, sono rimaste uno e il medesimo, il soggetto
= oggetto non esce più dalla differenza e dalla riflessione, rimane un
soggetto = oggetto soggettivo, per il quale il fenomeno è assolutamente
un estraneo, e che non giunge a intuire se stesso nel fenomeno. Quanto poco
la facoltà teoretica dell'io poteva giungere all'autointuizione assoluta,
altrettanto poco può farlo quella pratica; questa come quella è
condizionata da un urto, che come fatto non si lascia dedurre dall'io e la cui
deduzione significa che esso è indicato come condizione della facoltà
teoretica e pratica. L'antinomia rimane come antinomia, e viene espressa nello
sforzo, che è il dover essere come attività. Questa antinomia
non è la forma in cui l'assoluto appare alla riflessione in quanto per
la riflessione non è possibile alcun altro modo di cogliere l'assoluto
che mediante l'antinomia; al contrario questa opposizione dell'antinomia è
il fissato, l'assoluto, essa deve essere, come attività - ovvero come
uno sforzo -, la suprema sintesi, e l'idea dell'infinitezza deve rimanere un'idea
nel senso kantiano, in cui è assolutamente opposta all'intuizione. Questa
opposizione assoluta dell'idea e dell'intuizione, e la loro sintesi, che non
è altro che un'esigenza che distrugge se stessa, cioè un'esigenza
dell'unificazione, la quale tuttavia non deve avvenire, si esprime nel progresso
all'infinito. L'opposizione assoluta viene così spinta nella forma di
un punto di vista inferiore, la quale è a lungo valsa come un vero togliere
l'opposizione e la suprema risoluzione dell'antinomia mediante la ragione. L'esistenza
prolungata nell'eternità include in sé entrambe, infinitezza dell'idea
ed intuizione, ma entrambe in forme tali da rendere impossibile la loro sintesi.
L'infinitezza dell'idea esclude ogni molteplicità. Il tempo al contrario
include in sé immediatamente l'opposizione, una reciproca esteriorità;
e l'esistenza nel tempo è un essere a sé opposto, un molteplice;
e l'infinitezza è fuori di lui. - Lo spazio è altrettanto un esser-posto-fuori-di-sè,
ma nel [47] suo carattere di opposizione esso può esser detto una sintesi
infinitamente più ricca del tempo. Il vantaggio che il tempo ottiene,
che in lui deve avvenire il progresso, può consistere solo nel fatto
che lo sforzo è opposto assolutamente a un mondo sensibile esterno ed
è posto come un interno, col che l'io viene ipostatizzato come soggetto
assoluto, come unità del punto, e, più popolarmente, come anima.
- Se il tempo deve essere totalità, come tempo infinito, allora il tempo
stesso è tolto, e non era necessario cercare rifugio nel suo nome e in
un progresso dell'esistenza prolungata. Il vero togliere il tempo è presente
atemporale, cioè eternità, e in questa scompaiono lo sforzo e
il sussistere dell'opposizione assoluta; quell'esistenza prolungata attenua
l'opposizione solo nella sintesi del tempo, la cui miseria non viene colmata,
ma al contrario diviene più evidente, tramite il legame, che dovrebbe
attenuare l'opposizione, con un'infinità ad essa assolutamente opposta.
Tutti gli ulteriori sviluppi di ciò che è contenuto nello sforzo,
e le sintesi delle opposizioni risultanti dallo sviluppo, hanno in sé
il principio della non-identità. Tutta la successiva realizzazione del
sistema appartiene ad una riflessione conseguente, la speculazione non ha in
essa alcuna parte. L'identità assoluta è presente solo nella forma
di un opposto, ovvero come idea; l'incompiuta relazione causale sta a fondamento
di ognuna delle sue unificazioni con l'opposto. L'io che si pone nell'opposizione,
o che limita se stesso, e quello che procede all'infinito entrano, quello sotto
il nome del soggettivo, questo sotto il nome dell'oggettivo, in questa connessione:
che il determinare se stesso dell'io soggettivo è un determinare secondo
l'idea dell'io oggettivo, dell'assoluta attività spontanea, dell'infinitezza;
e l'io oggettivo, l'attività spontanea assoluta, viene determinato mediante
l'io soggettivo secondo questa idea. Il loro determinare è un determinare
reciproco; l'io soggettivo, ideale, ottiene dall'oggettivo, per dir così,
la materia della sua idea, cioè l'assoluta attività spontanea,
l'indeterminatezza; l'oggettivo che procede all'infinito, io reale, viene limitato
dal soggettivo; ma il soggettivo, perché determinato secondo l'idea dell'infinitezza,
toglie nuovamente la limitazione, certamente rende l'io oggettivo finito nella
sua infinitezza, ma insieme infinito nella sua finitezza. In questa relazione
reciproca permane l'opposizione della finitezza e dell'infinitezza, della determinatezza
reale e dell'indeterminatezza ideale; idealità e realtà non sono
unificate; ovvero l'io, come attività insieme reale ed ideale, che si
differenziano solo come direzioni diverse, ha unificato le sue diverse direzioni
in singole sintesi incompiute, come si mostrerà sotto, nell'impulso,
nel sentimento, [48] ma in esse non è giunto ad una compiuta esposizione
di se stesso; nel progresso infinito dell'esistenza prolungata esso produce
infinitamente parti di sé, ma non se stesso nell'eternità dell'intuire
se stesso come soggetto-oggetto. Il tener fermo alla soggettività dell'intuizione
trascendentale, per cui l'io rimane un soggetto-oggetto soggettivo, si manifesta
nel modo più evidente nella relazione dell'io con la natura, in parte
nella deduzione della natura, in parte nelle scienze che si fondano su di essa.
Poiché l'io è soggettoggetto soggettivo, gli rimane un lato da
cui gli è assolutamente opposto un oggetto, da cui è condizionato
mediante esso: il dogmatico porre un oggetto assoluto si trasforma in questo
idealismo, come abbiamo visto, in un limitare se stesso - assolutamente opposto
alla libera attività -; questo essere-posto della natura mediante l'io
è la deduzione della natura ed il punto di vista trascendentale; si mostrerà
fin dove esso giunga e quale sia il suo significato. Come condizione dell'intelligenza
viene postulata una determinatezza originaria, e questo è apparso sopra
come necessità, poiché la coscienza pura non è una coscienza
compiuta, di procedere fino alla coscienza empirica. L'io deve limitare assolutamente
se stesso, deve opporsi a sé; esso è soggetto, ed il limite è
nell'io e mediante l'io. Questa autolimitazione diviene una limitazione tanto
dell'attività soggettiva, dell'intelligenza, quanto dell'attività
oggettiva. L'attività oggettiva limitata è l'impulso; l'attività
soggettiva limitata è il concetto di scopo. La sintesi di questa doppia
determinatezza è sentimento, in esso conoscenza e impulso sono unificati.
Ma nel contempo il sentimento è puramente soggettivo, e nell'opposizione
contro io = io, contro l'indeterminato, esso appare indubbiamente un determinato
in generale, e precisamente come un soggettivo contro l'io come oggettivo; esso
appare un finito in generale tanto a fronte dell'attività reale infinita,
quanto a fronte dell'infinitezza ideale, e in relazione all'ultima appare un
oggettivo. Ma per sé il sentire è stato caratterizzato come sintesi
del soggettivo e dell'oggettivo, della conoscenza e dell'impulso, e poiché
esso è sintesi cade la sua opposizione contro un indeterminato, sia che
questo indeterminato sia ora una attività infinita oggettiva o soggettiva.
Per la riflessione, che produce quella opposizione dell'infinitezza, esso è
in generale solo finito; in sé è uguale alla materia, insieme
soggettivo e oggettivo, identità, nella misura in cui questa non si è
ricostruita in totalità. Tanto il sentimento quanto l'impulso appaiono
come limitati e la manifestazione in noi del limitato e della limitazione è
impulso e sentimento; l'originario sistema determinato di impulsi e sentimenti
è la natura. Poiché la coscienza di essa ci si impone, e nello
stesso tempo la sostanza in cui si trova questo sistema di limitazioni [49]
deve essere quella che pensa e vuole liberamente, e che noi poniamo come noi
stessi, quel sistema è la nostra natura, e l'io e la mia natura costituiscono
il soggettoggetto soggettivo, la mia natura è essa stessa nell'io. Devono
tuttavia essere distinti due modi della mediazione dell'opposizione tra la natura
e la libertà, tra l'originariamente limitato e l'originariamente illimitato,
ed è essenziale provare che la mediazione avviene in modo diverso; questo
ci mostrerà in una nuova forma la diversità del punto di vista
trascendentale e del punto di vista della riflessione, l'ultimo dei quali sostituisce
il primo, - la differenza del punto d'inizio e del risultato di questo sistema.
Una volta c'è io = io, libertà e impulso sono uno e il medesimo
- questo è il punto di vista trascendentale -, anche se una parte di
ciò che mi spetta deve essere possibile solo mediante la libertà,
ed un'altra parte di ciò deve essere indipendente dalla libertà,
e la libertà indipendente da essa, tuttavia la sostanza a cui entrambe
appartengono è solo una e medesima, e vien posta come una e medesima.
Io che sento ed io che penso, io che sono spinto dall'impulso ed io che mi decido
con libera volontà, io sono lo stesso. Il mio impulso come essere naturale,
la mia tendenza come puro spirito, sono dal punto di vista trascendentale uno
e il medesimo impulso originario che costituisce il mio essere, solo che tale
impulso viene guardato da due lati diversi, la loro differenza è solo
nel fenomeno. L'altra volta essi sono diversi, l'uno la condizione dell'altro,
l'uno dominante sull'altro. La natura come impulso deve certo essere pensata
come determinante se stessa mediante se stessa, - ma è caratterizzata
mediante l'opposizione alla libertà; la natura determina se stessa significa
perciò: essa è determinata a determinarsi; per la sua essenza,
formaliter, non può mai essere indeterminata, come può ben essere
un essere libero; essa è anche determinata così materialiter,
e non ha, come l'essere libero, la scelta tra una certa determinazione e la
sua opposta. La sintesi della natura e della libertà dà ora la
seguente ricostruzione dell'identità nella totalità a partire
dalla scissione. Io come intelligenza, l'indeterminato - ed io che sono spinto
dall'impulso, la natura, il determinato, - divento il medesimo per il fatto
che l'impulso viene alla coscienza; pertanto esso ora sta in mio potere, non
agisce affatto in questa regione, al contrario io agisco o non agisco conformemente
ad esso. Il riflettente è superiore al riflesso; l'impulso del riflettente,
del soggetto della coscienza, si chiama l'impulso superiore; ciò che
è inferiore, la natura, deve essere posto sotto il dominio di ciò
che è superiore, della riflessione. Questo rapporto di dominio di una
manifestazione dell'io rispetto all'altra deve essere la sintesi suprema. Ma
quest'ultima identità e l'identità del punto di vista trascendentale
sono del tutto opposte tra loro; nel punto di vista trascendentale è
posto io = io, l'io è posto in [50] relazione di sostanzialità,
o almeno in relazione di azione reciproca; invece in questa ricostruzione dell'identità
l'uno è il dominante, l'altro il dominato, il soggettivo non è
uguale all'oggettivo, ma anzi stanno in relazione di causalità, uno viene
sottomesso. Delle due sfere della libertà e della necessità questa
è subordinata a quella. Così la conclusione del sistema diviene
infedele al suo cominciamento, il risultato al suo principio. Il principio era
io = io, il risultato è io non = io. La prima è un'identità
ideal-reale, forma e materia sono uno; la seconda un'identità meramente
ideale, forma e materia sono separate, è una sintesi meramente formale.
Questa sintesi del dominare risulta nel modo seguente: all'impulso puro, che
tende ad un assoluto autodeterminarsi all'attività per l'attività,
sta di contro un impulso oggettivo, un sistema di limitazioni; mentre la libertà
e la natura si unificano, quella rinuncia alla sua purezza, questa alla sua
impurezza. L'attività sintetica, perché sia veramente pura e infinita,
deve essere pensata come un'attività oggettiva il cui scopo finale sia
l'assoluta libertà, l'assoluta indipendenza da ogni natura, uno scopo
finale mai raggiungibile; una serie infinita, mediante la cui prosecuzione l'io
diverrebbe assolutamente = io, cioè l'io si toglie come oggetto stesso,
e quindi anche come soggetto. Ma l'io non deve togliersi, così per l'io
c'è solo un tempo indeterminabilmente prolungato riempito di limitazioni,
di quantità, ed il noto progresso deve venire in aiuto. Dove si attende
la sintesi suprema rimane sempre la stessa antitesi del presente limitato e
di una infinitezza che giace fuori di lui. Io = io è l'assoluto, la totalità,
fuori dall'io nulla è; ma l'io nel sistema non giunge a tanto, e se il
tempo deve intervenire non vi giungerà mai; esso è assolutamente
affetto da un non-io, e riesce sempre a porsi solo come un quantum di io. La
natura così è tanto sotto il rispetto teoretico quanto sotto quello
pratico qualcosa di essenzialmente determinato e morto. Sotto il primo rispetto
essa è l'autolimitazione intuita, cioè il lato oggettivo dell'autolimitarsi;
essendo dedotta come condizione dell'autocoscienza, ed essendo posta per spiegare
l'autocoscienza, essa è semplicemente un posto a vantaggio della spiegazione
mediante la riflessione, un prodotto ideale; se, già per il fatto che
l'autocoscienza viene dimostrata come condizionata mediante la natura, questa
ottiene una pari dignità di autonomia con quella, tuttavia la sua autonomia
è distrutta proprio per questo stesso fatto, poiché è posta
solo mediante la riflessione e il suo carattere fondamentale è quello
dell'essere-opposto. Ugualmente sotto il rispetto pratico, nella sintesi del
determinare se stesso inconsapevole e dell'autodeterminarsi mediante un concetto,
dell'impulso naturale e dell'impulso della libertà per la libertà,
la natura [51] viene prodotta come un reale mediante la causalità della
libertà; il risultato è che il concetto deve avere causalità
sulla natura, e che la natura deve essere posta come un assolutamente determinato.
Se la riflessione pone completamente in un'antinomia la sua analisi dell'assoluto,
se riconosce un membro come io, indeterminatezza, o determinare se stesso, l'altro
membro come oggetto, essere-determinato, e li riconosce entrambi come originari,
allora essa afferma la relativa incondizionatezza, e con ciò anche la
relativa condizionatezza, di entrambi. La riflessione non può uscire
al di sopra di questa azione reciproca del mutuo condizionare; essa si dimostra
come ragione in quanto stabilisce l'antinomia dell'incondizionato condizionato,
e, indicando mediante tale antinomia una sintesi assoluta della libertà
e dell'impulso naturale, non ha affermato l'opposizione, e il sussistere di
entrambi, o di uno di essi, e se stessa come l'assoluto ed eterno, ma al contrario
li ha annientati e gettati nell'abisso del loro compimento. Ma se la riflessione
afferma sé ed uno dei suoi opposti come l'assoluto, e si tien ferma al
rapporto di causalità, allora il punto di vista trascendentale e la ragione
sono sottoposti al punto di vista della semplice riflessione e dell'intelletto,
a cui è riuscito di fissare il razionale nella forma di un'idea, come
un assolutamente-opposto. Per la ragione non rimane che l'impotenza dell'esigenza
che toglie se stessa, e l'apparenza di una mediazione della natura e della libertà
- ma intellettuale, formale - nella semplice idea del togliere le opposizioni,
nell'idea dell'indipendenza dell'io e dell'assoluto essere-determinato della
natura, che è posta come qualcosa che deve essere negato, come assolutamente
dipendente. Ma l'opposizione non è scomparsa, al contrario, poiché
sussistendo un suo membro anche l'altro sussiste, è resa infinita. Da
questo supremo punto di vista la natura ha il carattere dell'assoluta oggettività
e della morte; solo da un punto di vista inferiore essa compare con l'apparenza
di una vita, come soggetto = oggetto. Come dal punto di vista supremo l'io non
perde la forma della sua manifestazione come soggetto, così il carattere
della natura, di essere soggetto = oggetto, diviene al contrario una mera parvenza,
e l'assoluta oggettività diviene la sua essenza. La natura è infatti
l'inconsapevole produrre dell'io, e il produrre dell'io è un determinare
se stesso; la natura è dunque essa stessa io, soggetto = oggetto, e così
come è posta la mia natura, c'è ancora altra natura fuori dalla
mia, che non è l'intera natura; la natura fuori di me viene posta per
spiegare la mia natura. Poiché la mia natura è determinata come
un impulso, un determinare se stesso mediante se stesso, allora anche la natura
fuori di me deve essere determinata così, questa determinazione fuori
di me è fondamento della spiegazione della mia natura. I prodotti della
riflessione, causa ed effetto, tutto e parte, ecc., devono ora essere predicati
nella loro antinomia di questo determinante se stesso mediante se stesso, [52]
la natura così deve essere posta come causa ed effetto di se stessa,
come insieme tutto e parte, ecc., col che essa ottiene l'apparenza di essere
un vivente ed un organico. Solo che questo punto di vista, secondo il quale
l'oggettivo viene caratterizzato dalla facoltà del giudizio riflettente
come un vivente, diviene un punto di vista inferiore. L'io infatti si trova
solo come natura, in quanto intuisce solo la sua originaria limitatezza e pone
oggettivamente il limite assoluto dell'impulso originario, dunque se stesso.
Ma secondo il punto di vista trascendentale il soggetto = oggetto viene riconosciuto
solo nella coscienza pura, nell'illimitato porre se stesso. Tuttavia questo
porre se stesso ha di contro a sé un assoluto opporre, che così
è determinato come limite assoluto dell'impulso originario. In quanto
l'io, come impulso, non si determina secondo l'idea dell'infinitezza, e dunque
si pone come finito, questo finito è la natura; esso in quanto io è
insieme infinito, ed è soggettoggetto. Il punto di vista trascendentale,
poiché pone solo l'infinito come io, compie con ciò una separazione
del finito e dell'infinito; trae fuori la soggett- = oggett-ività da
ciò che si manifesta come natura, e questa non rimane altro che il morto
guscio dell'oggettività; ad essa, che fin qui era il finitinfinito, viene
sottratta l'infinitezza, ed essa rimane semplice finitezza opposta all'io =
io; ciò che in lei era io viene ritirato nel soggetto. Se ora il punto
di vista trascendentale procede dall'identità, io = io, in cui non c'è
né soggettivo né oggettivo, alla loro differenza, che come opporre
è rimasta contro il porre se stesso, contro io = io, e se determina sempre
nuovamente gli opposti, allora esso giunge anche a un punto di vista secondo
il quale la natura è posta per sé, come soggetto = oggetto; ma
non si deve dimenticare che questo modo di considerare la natura è solo
un prodotto della riflessione dal punto di vista inferiore; nella deduzione
trascendentale il limite dell'impulso originario (posto oggettivamente, - natura)
rimane una pura oggettività opposta assolutamente all'impulso originario,
alla vera essenza, che è io = io, soggetto = oggetto. Questa opposizione
è la condizione mediante la quale l'io diventa pratico, cioè deve
togliere l'opposizione; questo togliere viene pensato in modo tale che un elemento
viene posto come dipendente dall'altro; sotto il rispetto pratico la natura
viene posta come un assolutamente determinato mediante il concetto; nella misura
in cui non è determinata dall'io, l'io non ha causalità, ovvero
non è pratico; e il punto di vista che poneva la natura vivente scompare
nuovamente, perché l'essenza della natura, il suo in sé, non doveva
essere altro che un limite, una negazione. Secondo questo punto di vista pratico
la ragione non rimane altro che la regola morta e uccidente dell'unità
formale data in mano alla riflessione, che pone soggetto e oggetto nella [53]
relazione della dipendenza dell'uno dall'altro o della causalità, e così
elimina completamente il principio della speculazione, l'identità. Nell'esposizione
e deduzione della natura, com'è data nel Sistema di diritto naturale,
si mostra in tutta la sua durezza l'assoluta opposizione della natura e della
ragione e il dominio della riflessione. L'essere razionale deve infatti costruire
una sfera per la propria libertà; egli si assegna questa sfera da sé,
ma egli è questa sfera stessa solo nell'opposizione, solo in quanto si
pone in essa escludendo che alcun'altra persona abbia scelta in essa; assegnandosela,
egli insieme se la contrappone essenzialmente. Il soggetto, - come l'assoluto,
attivo in se stesso, e determinante se stesso al pensare un oggetto -, pone
la sfera, a lui appartenente, della sua libertà fuori di sé, e
pone sé separato da essa; il suo rapporto con essa è solo un avere.
Il carattere fondamentale della natura è di essere un mondo dell'organico,
un assolutamente opposto; l'essenza della natura è un che di morto atomistico,
una materia più fluida o più dura e inalterabile che è
in molteplici maniere reciprocamente causa ed effetto; il concetto dell'azione
reciproca attenua di poco la piena opposizione di ciò che è semplicemente
causa e semplicemente effetto, la materia diviene così reciprocamente
modificabile in molti modi, ma la forza stessa per questo povero nesso giace
fuori di lei. L'indipendenza delle parti, grazie alla quale esse devono essere
in se stesse un tutto organico, come anche la dipendenza delle parti dal tutto,
è la dipendenza teleologica dal concetto, poiché l'articolazione
è posta a vantaggio di un altro, dell'essere razionale, che ne è
essenzialmente separato. Aria, luce ecc. diventano materia atomistica plasmabile;
e qui precisamente materia in generale nel senso comune, come assolutamente
opposta a ciò che pone se stesso. In questo modo Fichte giunge più
vicino di Kant a venire a capo del contrasto della natura e della libertà
e a dimostrare la natura come qualcosa di assolutamente prodotto e morto; in
Kant la natura è altrettanto posta come un assolutamente determinato.
Ma poiché essa non può essere pensata come determinata mediante
quello che in Kant si chiama intelletto, ma le sue molteplici manifestazioni
particolari vengono lasciate indeterminate dal nostro intelletto umano discorsivo,
allora esse devono essere pensate come determinate mediante un altro intelletto,
ma in modo tale che esso vale solo come massima della nostra facoltà
del giudizio riflettente, e nulla viene stabilito circa la realtà di
un altro intelletto. Fichte non ha bisogno di questa deviazione per far divenire
la natura un determinato solo attraverso l'idea di un altro intelletto distinto
da quello umano; essa lo è immediatamente mediante [54] e per l'intelligenza;
questa limita se stessa assolutamente, e tale limitare se stessa non deve essere
derivato dall'io = io, deve essere solo dedotto da esso, cioè la sua
necessità deve essere dimostrata a partire dalla manchevolezza della
coscienza pura, e l'intuizione di questa sua assoluta limitatezza, della negazione,
è la natura oggettiva. Più evidente, per le conseguenze che ne
risultano, diviene questa relazione di dipendenza della natura dal concetto,
l'opposizione della ragione, nei due sistemi della comunità umana. Questa
comunità è rappresentata come una comunità di esseri razionali
che deve percorrere la deviazione attraverso il dominio del concetto. Ogni essere
razionale è per l'altro un essere duplice: a) un essere libero, razionale;
b) una materia modificabile, un che di passibile di essere trattato come una
mera cosa. Questa separazione è assoluta, e, una volta posta a fondamento
nella sua innaturalezza, non è più possibile alcuna pura relazione
reciproca in cui si presenti e si riconosca l'identità originaria. Al
contrario ogni relazione è un dominare ed essere-dominati secondo leggi
di un intelletto coerente. L'intero edificio della comunità degli esseri
viventi è edificato dalla riflessione. La comunità degli esseri
razionali si manifesta come condizionata dalla necessaria limitazione della
libertà, che dà a se stessa la legge di limitarsi; e il concetto
del limitare costituisce un regno della libertà in cui ogni relazione
reciproca della vita veramente libera, per se stessa infinita e illimitata,
cioè bella, viene annientata dal fatto che il vivente è lacerato
in concetto e materia, e la natura è sottomessa ad un dominio. - La libertà
è il carattere della razionalità, è ciò che in sé
toglie ogni limitazione, e il punto supremo del sistema fichtiano; tuttavia
nella comunità con gli altri è necessario rinunciare ad essa perché
sia possibile la libertà di tutti gli esseri razionali che stanno in
comunità, e la comunità è nuovamente una condizione della
libertà; la libertà deve togliere se stessa, per essere libertà.
Da ciò si fa ancora una volta chiaro che qui la libertà è
un semplice negativo, cioè assoluta indeterminatezza, o, come è
stato mostrato sopra del porre se stesso, un fattore puramente ideale, la libertà
considerata dal punto di vista della riflessione. Questa libertà si trova
non come ragione, ma come essere razionale, cioè sintetizzata col suo
opposto, con un finito; e già questa sintesi della personalità
implica in sé la limitazione di uno dei fattori ideali, come qui è
la libertà. La ragione e la libertà come essere razionale non
sono più la ragione e la libertà, ma sono invece un singolo; e
la comunità della persona con gli altri deve perciò essere valutata
essenzialmente non come una limitazione della vera libertà dell'individuo
ma come un suo ampliamento; la comunità suprema è la libertà
suprema, tanto per la sua potenza quanto per il suo esercizio, - in tale suprema
[55] comunità tuttavia è soppressa completamente la libertà
come fattore ideale, e la ragione come opposta alla natura. Se la comunità
degli esseri razionali fosse essenzialmente un limitare la vera libertà,
allora sarebbe in sé e per sé la suprema tirannia, ma poiché
al presente è solo la libertà come indeterminato e come fattore
ideale che viene limitata, allora mediante quella rappresentazione per sé
non sorge ancora immediatamente nella comunità la tirannia. Ma essa sorge
nel modo più completo dal modo in cui la libertà deve essere limitata
perché sia possibile la libertà degli altri esseri razionali;
infatti mediante la comunità la libertà non deve perdere la forma
di essere un ideale, un opposto, ma deve come tale venire fissata e divenire
dominante. Mediante una comunità autenticamente libera di rapporti viventi
l'individuo ha rinunciato alla sua indeterminatezza, il che dovrebbe significare
alla libertà. Nel rapporto vivente c'è libertà solo nella
misura in cui esso implica la possibilità di togliere se stesso e di
contrarre altri rapporti, cioè la libertà è soppressa come
fattore ideale, come indeterminatezza. In una relazione vivente, in quanto è
libera, l'indeterminatezza è solo il possibile, non un reale reso dominante,
non un concetto imperativo. Ma nel sistema del diritto naturale l'indeterminatezza
tolta non è intesa come la libera limitazione della libertà di
tale relazione; al contrario, essendo la limitazione innalzata a legge mediante
la volontà comune e fissata come concetto, è distrutta la vera
libertà, la possibilità di togliere un rapporto determinato. Il
rapporto vivente, quello di essere indeterminato, non è più possibile
e quindi non è più razionale, ma assolutamente determinato e fissato
mediante l'intelletto; la vita si è sottomessa, e la riflessione ha ottenuto
il dominio su essa e la vittoria sulla ragione. Questa condizione di necessità
viene affermata come diritto naturale, e precisamente non nel senso che la meta
suprema sarebbe toglierla, e costruire mediante la ragione, al posto di questa
comunità intellettuale e irrazionale, un'organizzazione della vita libera
da ogni servitù sotto il concetto, ma al contrario la condizione di necessità
e la sua estensione infinita su tutti i moti della vita vale come necessità
assoluta. Tale comunità sotto il dominio dell'intelletto non è
rappresentata in modo tale che essa debba dare a se stessa la legge suprema
di togliere [aufzuheben] questa necessità della vita, in cui la vita
è posta mediante l'intelletto, e questa infinitezza del determinare e
del dominare, - nella vera infinitezza di un bella comunità, e di rendere
superflue le leggi mediante i costumi, gli eccessi della vita insoddisfatta
mediante il piacere santificato, e i delitti della forza oppressa mediante l'attività
possibile [56] per grandi obiettivi; - ma al contrario il dominio del concetto,
e la servitù della natura, è reso assoluto ed esteso all'infinito.
Il determinare senza fine, in cui l'intelletto deve cadere, mostra nel modo
più immediato la manchevolezza del suo principio, del dominare mediante
il concetto. - Anche questo stato di necessità conosce lo scopo di impedire
le violazioni dei suoi cittadini, più che di vendicarle quando sono già
avvenute. Quindi esso deve non solo proibire violazioni effettive sotto minaccia
di punizioni, ma anche prevenire la possibilità di una violazione, vietare
in vista dello scopo finale comportamenti che in sé e per sé non
danneggiano nessuno e sembrano del tutto indifferenti, ma che rendono più
facile la lesione degli altri, e più difficile la loro protezione o la
scoperta dei colpevoli. Ora anche se da un lato l'uomo si sottomette ad uno
stato per nessun altro impulso che per usare e godere quanto più liberamente
è possibile dei suoi mezzi, non c'è d'altro lato assolutamente
alcun atto dal quale il coerente intelletto di questo stato non possa calcolare
un possibile danno per altri, e con questa possibilità senza fine ha
a che fare l'intelletto preventivo e la sua forza, il dovere di polizia, e in
questo ideale di stato non c'è né fare né muovere che non
dovrebbe necessariamente essere sottoposto a una legge, preso sotto immediata
sorveglianza e controllato dalla polizia e dalle altre autorità, così
che (p. 155, II parte) in uno stato dalla costituzione stabilita secondo questo
principio la polizia sa pressappoco dove sia e cosa faccia ogni cittadino ad
ogni ora del giorno*. [57] In questa infinitezza verso cui devono procedere,
il determinare e l'essere determinato hanno tolto se stessi; la limitazione
della libertà deve essere essa stessa infinita; in questa antinomia della
limitatezza illimitata il limitare la libertà, e lo stato, sono scomparsi;
la teoria del determinare ha annientato il determinare, il suo principio, in
quanto l'ha esteso all'infinito. Gli stati abituali sono incoerenti in questo,
che il loro diritto di polizia superiore si estende solo a poche possibilità
di violazioni, e per il resto affida i cittadini a se stessi, nella speranza
che ognuno non debba essere limitato solo mediante [58] un concetto e in forza
di una legge nel non modificare la materia modificabile degli altri, come ognuno
propriamente può fare, poiché come essere razionale deve porsi
secondo la sua libertà, come determinante il non-io, e deve attribuirsi
la facoltà di modificare la materia in generale. Gli stati imperfetti
sono imperfetti perché devono fissare ogni opposizione; sono inconseguenti
perché non portano a compimento la loro opposizione attraverso tutte
le relazioni; ma rendere infinita l'opposizione, che scinde assolutamente l'uomo
in un essere razionale e in una materia modificabile, e rendere senza fine il
determinare, questa conseguenza toglie se stessa, e quell'inconseguenza è
quanto vi è di più perfetto negli stati imperfetti. Mediante l'opposizione
assoluta dell'impulso puro e di quello naturale, il diritto naturale diviene
un'esposizione del completo dominio dell'intelletto e della servitù del
vivente, un edificio in cui la ragione non ha alcuna parte, e che quindi essa
rigetta, poiché essa deve trovarsi massimamente espressa nella più
perfetta organizzazione che si può dare, nell'autoformazione in un popolo.
Ma quello stato- dell'intelletto non è un'organizzazione, ma una macchina;
il popolo non è il corpo organico di una vita comune e ricca, ma un'atomistica
moltitudine povera di vita, i cui elementi sono sostanze assolutamente opposte,
in parte una quantità di punti, gli esseri razionali, in parte materie
variamente modificabili mediante la ragione - cioè, in questa forma,
mediante l'intelletto, - elementi la cui unità è un concetto,
il cui nesso è un dominare senza fine. Questa assoluta sostanzialità
dei punti fonda un sistema dell'atomistica della filosofia pratica, in cui,
come nell'atomistica della natura, un intelletto estraneo agli atomi diviene
legge, che nella pratica si chiama diritto. Un concetto della totalità
che deve opporsi ad ogni azione - poiché ognuna è determinata
-, deve determinarla, e così uccidere il vivente in lei, la vera identità.
Fiat justitia, pereat mundus è la legge, e questa volta non nel senso
in cui Kant l'ha spiegata: si realizzi il diritto, a costo di far perire tutti
i furfanti del mondo; bensì nel senso: il diritto deve realizzarsi, anche
se per questo fiducia, gioia e amore, tutte le potenze di un'identità
autenticamente etica, fossero, come si dice, radicalmente estirpate. Passiamo
al sistema della comunità etica degli uomini. La dottrina dei costumi
ha in comune con il diritto naturale che l'idea domina assolutamente l'impulso,
la libertà la natura; ma essi si differenziano nel fatto che nel diritto
naturale la soggezione degli esseri liberi al concetto è un fine in sé
assoluto in generale, in modo che l'astratto fissato della volontà comune
sussista anche fuori dell'individuo e abbia potere coercitivo su di lui; nella
dottrina dei costumi il concetto e la natura debbono essere posti unificati
in una e nella medesima persona; nello stato deve dominare solo il diritto,
nel regno dell'eticità deve avere potere solo [59] il dovere, in quanto
è riconosciuto come legge dalla ragione dell'individuo. L'essere il proprio
signore e servo sembra certo avere un vantaggio rispetto alla condizione in
cui l'uomo è il servo di un estraneo. Se non che la relazione della libertà
e della natura, se nell'eticità deve divenire una servitù e una
signoria soggettiva, una propria oppressione della natura, diventa molto più
innaturale della relazione nel diritto naturale, in cui il sovrano, e detentore
del potere, si manifesta come un altro, reperibile fuori dall'individuo vivente.
In questa relazione il vivente ha pur sempre un'autonomia rinchiusa in lui stesso;
ciò che in lui non è concorde, egli lo esclude da sé; ciò
che contrasta è una potenza estranea; e, anche se è soppressa
la fede nell'unità dell'interiore con l'esteriore, può tuttavia
sussistere la fede nella sua armonia interiore, una identità come carattere;
la natura interiore è fedele a se stessa. Ma quando nella dottrina dei
costumi il sovrano è trasferito nell'uomo stesso, e dentro di lui è
opposto assolutamente un sovrano ed un suddito, allora l'armonia interiore è
distrutta, la discordia e la scissione assoluta costituiscono interamente l'essenza
dell'uomo. Egli deve cercare una unità, ma nell'assoluta non-identità
che sta a fondamento gli rimane solo un'unità formale. L'unità
formale del concetto, il quale deve dominare, e la molteplicità della
natura si contraddicono, e la ressa tra le due mostra subito un significativo
inconveniente; il concetto formale deve dominare, ma è un che di vuoto,
e deve essere riempito mediante il rapporto con l'impulso, e così sorge
una quantità infinita di possibilità di agire. Ma se la scienza
lo mantiene nella sua unità, mediante un tale principio vuoto e formale
non ha compiuto nulla. - L'io deve determinare se stesso, secondo l'idea dell'attività
spontanea assoluta, a togliere il mondo oggettivo, deve avere causalità
sull'io oggettivo, entra dunque in rapporto con esso. L'impulso etico diviene
un impulso misto, e con ciò qualcosa di tanto molteplice quanto lo è
lo stesso impulso oggettivo, dal che procede quindi una grande molteplicità
di doveri. Essa può essere molto diminuita se, come Fichte, si rimane
nella universalità del concetto, ma allora si hanno nuovamente solo principi
formali. L'opposizione dei molteplici doveri si presenta sotto il nome di collisioni,
e porta con sé una significativa contraddizione; se i doveri dedotti
sono assoluti, essi non possono collidere; ma essi collidono necessariamente,
perché sono opposti; a causa della loro uguale assolutezza la scelta
è possibile, e a causa della collisione è necessaria; non c'è
nulla che decida se non l'arbitrio. Se non dovesse aver luogo alcun arbitrio,
i doveri non dovrebbero trovarsi nello stesso ordine di assolutezza, uno dovrebbe,
come è necessario parlare a questo punto, essere più assoluto
dell'altro, il che contraddice il concetto, [60] perché ogni dovere in
quanto dovere è assoluto. Ma poiché in questa collisione si deve
pur sempre agire, e dunque rinunciare all'assolutezza ed anteporre un dovere
all'altro, così adesso, perché possa avvenire un'autodeterminazione,
tutto dipende da questo: accertare mediante il giudizio la precedenza di un
concetto di dovere sull'altro, e scegliere tra i doveri condizionati secondo
il miglior intendimento; se nell'autodeterminazione della libertà è
escluso mediante il concetto supremo l'arbitrio ed il casuale delle inclinazioni,
l'autodeterminazione trapassa ormai nella casualità dell'intendimento,
e così nella non coscienza di ciò mediante cui viene deciso un
intendimento casuale. Si vede bene, se Kant nella sua dottrina dei costumi aggiunge
ad ogni dovere stabilito come assoluto questioni di casistica, e non si vuol
credere che egli con ciò abbia proprio voluto farsi beffe dell'assolutezza
dei doveri stabiliti, che si deve ammettere che egli abbia piuttosto indicato
la necessità per la dottrina dei costumi di una casistica, e così
la necessità di non affidarsi al proprio intendimento, che è qualcosa
di completamente casuale. È solo la casualità ciò che deve
essere tolto mediante una dottrina dei costumi; trasformare la casualità
delle inclinazioni nella casualità dell'intendimento non può soddisfare
l'impulso etico, che è rivolto alla necessità. In tali sistemi
della dottrina dei costumi e del diritto naturale non si può pensare,
nella fissa, assoluta polarità di libertà e necessità,
ad alcuna sintesi né ad alcun punto di indifferenza; la trascendentalità
va completamente persa nel fenomeno e nella sua facoltà, l'intelletto;
nel fenomeno l'assoluta identità non si trova, e non si produce; l'opposizione
resta assolutamente fissata anche sotto l'imbellettatura del progresso infinito,
essa non può risolversi veramente, né per l'individuo nel punto-
di-indifferenza della bellezza del sentimento e dell'opera, né per la
compiuta comunità vivente degli individui in una comunione. Certamente
Fichte parla anche, dove viene a discorrere, tra i doveri dei diversi stati,
anche dei doveri dell'artista estetico come di uno degli ultimi corollari della
morale, del senso estetico come di un legame di unificazione tra intelletto
e cuore; e poiché l'artista non si rivolge né solo all'intelletto,
come il dotto, né solo al cuore, come il maestro popolare, ma a tutto
l'animo nell'unificazione delle sue facoltà, egli assegna all'artista
estetico ed alla cultura estetica un rapporto estremamente efficace con la promozione
dello scopo della ragione. A parte il fatto che non si comprende come nella
scienza che, come questo sistema della dottrina dei costumi, poggia sull'assoluta
opposizione si possa parlare di un [61] legame di unificazione tra l'intelletto
e il cuore, della totalità dell'animo, - poiché l'assoluta determinazione
della natura mediante un concetto è l'assoluto dominio dell'intelletto
sul cuore, dominio che è condizionato dall'unificazione tolta -, già
la posizione totalmente subalterna in cui la formazione estetica compare mostra
quanto poco in generale si faccia conto su di lei per il compimento del sistema.
L'arte viene rimandata ad avere un rapporto estremamente efficace con la promozione
dello scopo della ragione, in quanto prepara il terreno alla moralità,
sicché, quando compare la moralità, trova già fatto metà
del lavoro, cioè la liberazione dai vincoli della sensibilità.
È notevole come Fichte si esprima sulla bellezza in modo eccellente,
ma incoerente rispetto al suo sistema, non ne faccia affatto alcuna applicazione
al sistema, e ne faccia immediatamente un'applicazione falsa alla rappresentazione
della legge morale. L'arte, si esprime Fichte, trasforma il punto di vista trascendentale
in quello comune, in quanto secondo quello il mondo è fatto, secondo
questo dato, secondo il punto di vista estetico esso è dato, come è
fatto. - Mediante la facoltà estetica è riconosciuta una vera
unificazione del produrre dell'intelligenza e del prodotto che le si manifesta
come dato, - dell'io che si pone come illimitato e insieme come limitatezza,
o piuttosto un'unificazione dell'intelligenza e della natura, la quale proprio
a causa di questa possibile unificazione ha un altro lato oltre a quello di
essere prodotto dell'intelligenza, - il riconoscimento dell'unificazione estetica
del produrre e del prodotto è qualcosa di completamente diverso dal porre
l'assoluto dovere e lo sforzo e dal progresso infinito, concetti che, non appena
viene riconosciuta quella suprema unificazione, si annunciano come antitesi,
o solo come sintesi di sfere subalterne, e quindi come bisognose di una sintesi
superiore. La prospettiva estetica viene inoltre descritta così. Il mondo
dato, la natura, ha due lati, è prodotto della nostra limitazione, ed
è prodotto del nostro libero agire ideale; ogni figura nello spazio deve
essere considerata come manifestazione dell'interiore pienezza e della forza
del corpo stesso che la ha. Chi segue la prima prospettiva vede solo forme distorte,
compresse, paurose, vede la bruttezza; chi segue la seconda vede la vigorosa
pienezza della natura, vita e tendere verso l'alto - vede la bellezza. - L'agire
dell'intelligenza nel diritto naturale aveva prodotto la natura solo come una
materia modificabile; non era dunque un libero agire ideale, un agire della
ragione, ma dell'intelletto. La prospettiva estetica della natura viene ora
applicata anche alla legge morale, e certamente la natura non potrebbe avere
rispetto alla legge morale il privilegio della capacità di una prospettiva
bella. La legge morale comanda assolutamente, e reprime ogni inclinazione naturale;
chi la considera così le si rapporta come schiavo. Eppure la legge morale
[62] è nello stesso tempo l'io stesso, proviene dalla profondità
interiore della nostro stesso essere; e quando le obbediamo, noi obbediamo tuttavia
solo a noi stessi; chi la considera così, la considera esteticamente.
- Noi obbediamo a noi stessi significa: la nostra inclinazione naturale obbedisce
alla nostra legge morale; ma nell'intuizione estetica della natura come manifestazione
dell'interiore pienezza e forza dei corpi non si presenta un tale essere-separato
dell'obbedire, come, secondo questo sistema nell'eticità, nell'obbedire
a se stessi noi osserviamo l'inclinazione naturale come limitata dall'adiacente
ragione, l'impulso sottomesso al concetto. Questa necessaria prospettiva di
tale eticità, invece di essere estetica, deve essere proprio quella che
mostra la forma distorta, paurosa, compressa, la bruttezza. Se la legge morale
pretende solo autonomia come un determinare secondo e mediante concetti, e se
la natura può giungere al suo diritto solo mediante una limitazione della
libertà secondo il concetto della libertà di molti esseri razionali,
e se questi due modi compressi sono i supremi con cui l'uomo si costituisce
come uomo, allora non si può trovare spazio nella legalità civile
e nella moralità per il senso estetico, - che deve esser preso nella
sua più ampia estensione, come la compiuta autoconfigurazione della totalità
nell'unificazione della libertà e della necessità, della coscienza
e del non-cosciente, - né in quanto il senso estetico si rappresenta
puramente nel suo illimitato godimento di sé, né nelle sue manifestazioni
limitate; perché nel senso estetico proprio ogni determinare secondo
concetti è tolto al punto tale che per lui questa essenza intellettuale
del dominare e determinare, quando giunge a lui, è brutta, ed odiosa.
CONFRONTO DEL PRINCIPIO SCHELLINGHIANO DELLA FILOSOFIA CON QUELLO FICHTIANO
Come carattere fondamentale del principio fichtiano è stato indicato
che il soggetto = oggetto esce da questa identità, e non è in
grado di ristabilirsi in essa, perché il differente è stato trasposto
nella relazione di causalità; il principio di identità non diviene
principio del sistema; non appena il sistema comincia a formarsi, si rinuncia
all'identità, il sistema stesso è una coerente massa intellettuale
di finitezze, che l'identità originaria [63] non è in grado di
far convergere nel fuoco della totalità, in una autointuizione assoluta.
Il soggetto = oggetto si trasforma così in un soggettivo, e non gli riesce
di togliere questa soggettività e di porsi oggettivamente. Il principio
dell'identità è principio assoluto dell'intero sistema schellinghiano;
filosofia e sistema coincidono, l'identità non si perde nelle parti,
e tanto meno nel risultato. Perché l'identità assoluta sia il
principio di un intero sistema è necessario che il soggetto e l'oggetto
siano posti entrambi come soggettoggetto; nel sistema fichtiano l'identità
si è costituita solo in un soggettoggetto soggettivo; questo necessita
per il suo completamento di un soggettoggetto oggettivo, sicché l'assoluto
si espone in ciascuno dei due, si trova compiutamente solo in entrambi insieme,
come sintesi suprema nel loro annientamento in quanto sono opposti, come loro
punto di indifferenza assoluto li racchiude entrambi in sé, li genera
entrambi, e si genera da entrambi. Se il togliere la scissione viene posto come
compito formale della filosofia, la ragione può tentare di assolvere
il compito annientando uno degli opposti, ed accrescendo l'altro in un infinito;
questo è in realtà accaduto nel sistema fichtiano; solo che in
questo modo l'opposizione rimane, perché ciò che vien posto come
assoluto è condizionato dall'altro, e come esso sussiste, sussiste anche
l'altro. Per togliere l'opposizione, devono essere tolti entrambi gli opposti,
soggetto e oggetto; essi vengono tolti come soggetto e oggetto in quanto sono
posti come identici. Nell'identità assoluta soggetto e oggetto sono riferiti
l'uno all'altro, e con ciò annientati; sotto tale riguardo per la riflessione
e il sapere non c'è nulla. A questo punto giunge in generale quel filosofare
che non è capace di giungere ad un sistema; esso è soddisfatto
del lato negativo, che sprofonda ogni finito nell'infinito; esso potrebbe anche
uscire nuovamente nel sapere, ed è una casualità soggettiva se
con ciò sia o no legato il bisogno di un sistema. Ma se questo lato negativo
stesso è principio, allora non si deve uscire nel sapere, perché
ogni sapere unilaterale entra nella sfera della finitezza. A questo intuire
la luce senza colori si tien ferma la fantasticheria esaltata; in essa è
possibile una molteplicità solo in quanto combatte il molteplice. Alla
fantasticheria esaltata manca la coscienza di se stessa, del fatto che la sua
contrazione è condizionata da un'espansione; essa è unilaterale,
perché essa stessa si tiene ferma ad un opposto, e trasforma l'identità
assoluta in un opposto. Nell'identità assoluta soggetto e oggetto sono
tolti, ma, poiché sono nell'identità assoluta, essi nel contempo
sussistono; e questo loro sussistere è ciò che rende possibile
un sapere, perché nel sapere è posta in parte la loro separazione;
l'attività separante è il riflettere; essa, nella misura in cui
viene considerata per se stessa, toglie l'identità e [64] l'assoluto;
ed ogni conoscenza sarebbe semplicemente un errore, perché vi è
presente un separare. Questo lato, da cui il conoscere è un separare,
e il suo prodotto un finito, rende ogni sapere un limitato, e quindi una falsità;
ma nella misura in cui ogni sapere è insieme un'identità, in tal
misura non c'è alcun errore assoluto. - Quanto l'identità vien
fatta valere, altrettanto deve essere fatta valere la separazione; nella misura
in cui l'identità e la separazione vengono opposte l'una all'altra, entrambe
sono assolute; e se l'identità deve essere tenuta ferma distruggendo
la scissione, esse restano opposte l'una all'altra. La filosofia deve restituire
al separare in soggetto e oggetto il suo diritto, ma ponendo tale separare come
assoluto ugualmente all'identità, opposta alla separazione, l'ha posto
solo come condizionato, come anche una simile identità, - che è
condizionata dall'annientare gli opposti -, è solo relativa. Ma l'assoluto
stesso è perciò l'identità dell'identità e della
non-identità; in lui sono insieme opporre ed essere-uno. La filosofia,
nel separare, non può porre i separati senza porli nell'assoluto, perché
altrimenti ci sono semplicemente opposti, che non hanno alcun altro carattere,
se non che uno non è nella misura in cui l'altro è. Questo rapporto
all'assoluto non è nuovamente un toglierli entrambi, perché così
non avverrebbe la separazione, bensì essi devono restare come separati,
e non perdere questo carattere, in quanto essi son posti nell'assoluto o l'assoluto
è posto in loro. E certamente devono entrambi essere posti nell'assoluto;
quale diritto avrebbe uno più dell'altro? In entrambi si verifica non
solo uguale diritto, ma uguale necessità, perché se solo Uno fosse
posto in relazione all'assoluto, e l'altro no, la loro essenza sarebbe posta
come non uguale e la loro unificazione, e dunque il compito della filosofia,
di togliere la scissione, sarebbe impossibile. Fichte ha posto solo Uno degli
opposti nell'assoluto, o come assoluto; per lui il diritto e la necessità
stanno nell'autocoscienza, poiché solo questa è un porre se stesso,
un soggetto = oggetto; e questa autocoscienza non solo viene riferita all'assoluto
come qualcosa di superiore, ma è essa stessa l'assoluto, l'assoluta identità;
il suo più alto diritto ad essere posta come l'assoluto consiste proprio
nel fatto che essa pone se stessa; al contrario l'oggetto, che è posto
solo mediante la coscienza, no. Ma che questa collocazione [Stellung] dell'oggetto
sia solo casuale si chiarisce dalla casualità del soggettoggetto in quanto
è posto come autocoscienza, perché questo soggettoggetto è
esso stesso un condizionato; perciò il suo punto di vista non è
il supremo, esso è la ragione posta in una forma limitata; e solo a partire
dal punto di vista di questa forma limitata l'oggetto appare come qualcosa che
non determina [65] se stesso, come un assolutamente determinato. Devono dunque
entrambi essere posti nell'assoluto, o l'assoluto in entrambe le forme, e nel
contempo sussistere entrambi come separati. Il soggetto è così
soggettoggetto soggettivo, - l'oggetto soggettoggetto oggettivo; e poiché,
in quanto è posta una dualità, ognuno degli opposti è altrettanto
un opposto a se stesso, e la divisione procede all'infinito, ognuna delle parti
del soggetto, e ognuna delle parti dell'oggetto, è essa stessa nell'assoluto
un'identità del soggetto e dell'oggetto; ogni conoscere è una
verità, come ogni granello di polvere è un'organizzazione. Io
= io è l'assoluto solo in quanto l'oggetto stesso è un soggettoggetto;
solo allora, se l'oggettivo è lo stesso io, soggetto = oggetto, io =
io non si trasforma in: io deve essere uguale io. In quanto altrettanto il soggetto
che l'oggetto sono un soggetto-oggetto, l'opposizione del soggetto e dell'oggetto
è un'opposizione reale, perché entrambi sono posti nell'assoluto
ed hanno così realtà. La realtà degli opposti, e l'opposizione
reale, ha luogo solo mediante la loro identità*. Se l'oggetto è
un oggetto assoluto, allora è un meramente ideale, così come l'opposizione
è meramente ideale; per il fatto che l'oggetto è solo un ideale,
e non è nell'assoluto, anche il soggetto diviene un meramente ideale;
e simili fattori ideali sono l'io, come porre se stesso, e il non-io, come opporre
a sé. Non serve a nulla che l'io sia tutto vita e agilità, il
fare e l'agire stesso, il massimamente reale ed il più immediato nella
coscienza di ognuno, non appena esso viene opposto assolutamente all'oggetto
esso non è un reale, ma qualcosa soltanto pensato, un puro prodotto della
riflessione, una mera forma del conoscere. E l'identità non può
costruirsi come totalità a partire da meri prodotti della riflessione,
perché essi sorgono mediante astrazione dall'identità assoluta,
che può comportarsi immediatamente verso di loro solo annientando, non
costruendo. Proprio simili prodotti della riflessione sono infinitezza e finitezza,
indeterminatezza e determinatezza, ecc., dall'infinito non c'è nessun
passaggio al finito, dall'indeterminato nessun passaggio al determinato; il
passaggio, come sintesi, diviene un'antinomia; ma la riflessione, l'assoluto
separare, non può permettere che abbia luogo una sintesi del finito e
dell'infinito, del determinato [66] e dell'indeterminato, ed è essa a
prescrivere qui la legge. Essa ha diritto di far valere solo un'unità
formale, perché la scissione in infinito e finito, che è la sua
opera, fu concessa ed accolta; tuttavia la ragione li sintetizza nell'antinomia
e così li annienta. Se un'opposizione ideale è opera della riflessione,
che astrae completamente dall'identità assoluta, al contrario un'opposizione
reale è opera della ragione, che pone gli opposti, non solo nella forma
del conoscere ma anche nella forma dell'essere, l'identità e la non-identità
come identici; e solo una tale opposizione reale è quella in cui soggetto
e oggetto sono posti entrambi come soggettoggetto, entrambi sussistenti nell'assoluto,
l'assoluto in entrambi, e così in entrambi realtà. Perciò
anche il principio di identità è un principio reale solo nell'opposizione
reale; se l'opposizione è ideale e assoluta, l'identità rimane
un principio meramente formale, è posta solo in una delle forme opposte,
e non può farsi valere come soggettoggetto. La filosofia il cui principio
è un principio formale diviene esse stessa una filosofia formale, come
anche Fichte dice da qualche parte, che per l'autocoscienza di Dio, - una coscienza
nella quale mediante l'essere posto dell'io fosse posto tutto, - il suo sistema
avrebbe solo un'esattezza formale. Se invece la materia, l'oggetto, è
essa stessa un soggettoggetto, allora può cadere la separazione della
forma e della materia, e il sistema, come il suo principio, non è più
un sistema meramente formale, ma insieme formale e materiale; esso è
posto tutto mediante la ragione assoluta. Solo nell'opposizione reale l'assoluto
può porsi nella forma del soggetto o dell'oggetto; il soggetto può
secondo l'essenza passare nell'oggetto, o l'oggetto nel soggetto, - il soggetto
divenire oggettivo a se stesso, poiché è originariamente oggettivo,
o perché l'oggetto stesso è soggettoggetto; oppure l'oggetto divenire
soggettivo, perché solo originariamente è soggettoggetto. Solo
in ciò, che entrambi sono un soggettoggetto, consiste la vera identità,
e insieme la vera opposizione, di cui sono capaci. Se non sono entrambi soggettoggetto,
allora l'opposizione è ideale, ed il principio di identità formale.
In un'identità formale ed un'opposizione ideale non è possibile
altra sintesi che una sintesi incompiuta, cioè l'identità, nella
misura in cui sintetizza gli opposti, è essa stessa solo un quantum,
e la differenza è qualitativa; al modo delle categorie, nelle quali la
prima, ad es. quella di realtà, come la seconda, è posta solo
quantitativamente nella terza. Ma se al contrario l'opposizione è reale,
essa è solo quantitativa, il principio è ideale e reale insieme,
esso è l'unica qualità, e l'assoluto, che si ricostruisce dalla
differenza quantitativa, non è un quantum, ma totalità. [67] Per
porre la vera identità del soggetto e dell'oggetto, vengono posti entrambi
come soggettoggetto; e ognuno per sé è ormai capace di essere
oggetto di una scienza particolare. Ognuna di queste scienze esige l'astrazione
dal principio dell'altra; nel sistema dell'intelligenza gli oggetti non sono
nulla in sé, la natura ha una sussistenza solo nella coscienza; si astrae
dal fatto che l'oggetto è una natura, e che l'intelligenza, in quanto
coscienza, ne è condizionata; - nel sistema della natura si dimentica
che la natura è un saputo, le determinazioni ideali che la natura ottiene
nella scienza le sono nel contempo immanenti. Ma l'astrazione reciproca non
è una unilateralità delle scienze, non è un'astrazione
soggettiva dal principio reale dell'altra, che sarebbe fatta a vantaggio del
sapere, e che da un punto di vista superiore scomparirebbe in quanto, in sé
considerati, gli oggetti della coscienza, che nell'idealismo non sono nient'altro
che prodotti della coscienza, sarebbero pure assolutamente qualcosa d'altro,
ed avrebbero un assoluto sussistere fuori dall'essenza della coscienza; - e
inversamente la natura, che nella sua scienza viene posta come determinante
se stessa ed in se stessa ideale, sarebbe, in sé considerata, solo oggetto,
e tutte le identità che la ragione riconosce in lei sarebbero solo una
forma prestatale dal sapere. Non si fa astrazione dal principio interno, ma
solo dalla forma propria dell'altra scienza, per ottenere ognuna pura, cioè
per ottenere l'identità interiore di entrambe; e l'astrazione da ciò
che è proprio dell'altra è un'astrazione dall'unilateralità.
Natura ed autocoscienza sono in sé così come sono poste dalla
speculazione nella scienza propria di ognuna di esse; esse sono così
in se stesse, perché è la ragione che le pone, e la ragione le
pone come soggettoggetto, dunque come l'assoluto, e l'unico In sé è
l'assoluto; la ragione le pone come soggettoggetto, perché lo è
essa stessa, che si produce come natura, e come intelligenza, e si riconosce
in esse. A causa della vera identità in cui soggetto e oggetto sono posti,
cioè in quanto sono entrambi soggettoggetto, e poiché la loro
opposizione perciò è un'opposizione reale, e dunque l'uno è
capace di passare nell'altro, il diverso punto di vista delle due scienze non
è contraddittorio. Se soggetto e oggetto fossero assolutamente opposti,
e solo uno fosse il soggettoggetto, allora le due scienze non potrebbero sussistere
una accanto all'altra con la stessa dignità, solo uno dei punti di vista
sarebbe il razionale. Entrambe le scienze sono possibili esclusivamente in quanto
in esse viene costruito l'uno e il medesimo nelle forme necessarie della sua
esistenza. Le due scienze sembrano contraddirsi perché in ognuna l'assoluto
è posto in una forma opposta; ma la loro contraddizione non si toglie
per il fatto che solo Una di esse venga affermata come l'unica scienza, [68]
e che a partire dal suo punto di vista l'altra venga annientata; il punto di
vista superiore, che toglie nella verità l'unilateralità di entrambe
le scienze, è quello che riconosce in entrambe il medesimo assoluto.
La scienza del soggettoggetto soggettivo si è sinora chiamata filosofia
trascendentale; quella del soggettoggetto oggettivo filosofia della natura.
In quanto esse sono opposte l'una all'altra, in quella il primo è il
soggettivo, in questa l'oggettivo. In entrambe il soggettivo e l'oggettivo sono
posti in relazione di sostanzialità; nella filosofia trascendentale il
soggetto, come intelligenza, è la sostanza assoluta, e la natura è
oggetto, un accidente; - nella filosofia della natura la natura è la
sostanza assoluta, e il soggetto, l'intelligenza, solo un accidente. Ora il
punto di vista superiore non è né tale che in esso l'una o l'altra
scienza sia tolta, e sia affermato come assoluto o solo il soggetto o solo l'oggetto,
né tale che in esso le due scienze vengano confuse insieme. Per quanto
riguarda il confondere, quanto appartiene alla scienza della natura, mischiato
nel sistema dell'intelligenza, dà le ipotesi trascendenti, che possono
abbagliare con una falsa apparenza di unificazione della coscienza e dell'inconscio;
esse si spacciano per naturali ed effettivamente non sorvolano neppure il palpabile,
come la teoria della fibre della coscienza; - inversamente l'intelligente come
tale, mischiato nella dottrina della natura, dà le spiegazioni iperfisiche,
in particolare teleologiche. Entrambi i passi falsi del confondere derivano
dalla tendenza dello spiegare, a vantaggio della quale intelligenza e natura
sono posti in relazione di causalità, l'una come fondamento, l'altra
come fondato, con il che tuttavia viene fissata come assoluta solo l'opposizione,
e mediante la parvenza di una tale identità formale, come è l'identità
causale, viene completamente sbarrata la strada verso l'unificazione assoluta.
L'altro punto di vista, mediante il quale dovrebbe essere tolto quanto delle
due scienze è contraddittorio, sarebbe quello che non fa valere l'una
o l'altra delle due scienze come una scienza dell'assoluto. Il dualismo può
benissimo seguire alla scienza dell'intelligenza, e far valere tuttavia le cose
come essenze proprie; esso può prendere a questo scopo la scienza della
natura come un tale sistema dell'essenza propria delle cose; ogni scienza varrebbe
per lui quanto essa vuole, esse hanno posto pacificamente l'una accanto all'altra;
ma così si perderebbe di vista l'essenza di entrambe le scienze, quella
di essere scienze dell'assoluto, perché l'assoluto non è uno stare-l'uno-accanto-all'altro.
Oppure c'è ancora un punto di vista dal quale l'una o l'altra scienza
non varrebbe come scienza dell'assoluto, cioè quello secondo [69] il
quale sarebbe tolto il principio di una di esse come posto nell'assoluto, o
l'assoluto come posto nella manifestazione di questo principio. Sotto questo
rispetto il punto di vista più notevole è il punto di vista di
quello che abitualmente è chiamato idealismo trascendentale; è
stato affermato che questa scienza del soggettoggetto soggettivo è essa
stessa una delle scienze integranti la filosofia, ma anche che è solo
una di esse. È stata mostrata l'unilateralità di questa scienza,
se afferma se stessa come la scienza ???'??????, e la figura che la natura ha
a partire da essa. Qui resta ancora da considerare la forma che la scienza della
natura ottiene se viene costruita a partire da questo punto di vista. Kant riconosce
una natura, in quanto pone l'oggetto come un indeterminato (mediante l'intelletto);
ed espone la natura come un soggettoggetto, in quanto considera il prodotto
della natura come scopo della natura, conforme al fine senza concetto di scopo,
necessario senza meccanismo, concetto ed essere identici. Ma nello stesso tempo
questa visione della natura deve valere solo teleologicamente, cioè come
massima del nostro intelletto limitato, umano, che pensa discorsivamente, nei
cui concetti universali non sono contenuti i fenomeni particolari della natura.
Mediante questo modo di considerare umano nulla deve essere affermato sulla
realtà della natura; il modo di considerare rimane così qualcosa
di totalmente soggettivo, e la natura un puramente oggettivo, un semplicemente
pensato. La sintesi in un intelletto sensibile della natura determinata mediante
l'intelletto ed insieme indeterminata deve invero restare una semplice idea,
per noi uomini deve invero essere impossibile che la spiegazione sulla via del
meccanismo si incontri con la conformità allo scopo; queste visioni critiche
estremamente subordinate e non razionali si innalzano, anche se oppongono semplicemente
l'una all'altra la ragione umana e quella assoluta, proprio all'idea di un intelletto
sensibile, cioè della ragione; in sé, e ciò significherebbe
per la ragione, non deve essere impossibile che il meccanismo della natura e
la conformità allo scopo della natura si incontrino. Tuttavia Kant non
ha lasciato cadere la differenza tra un in sé possibile ed un reale,
né ha elevato a realtà l'idea suprema necessaria di un intelletto
sensibile, e perciò nella sua scienza della natura in parte la comprensione
della possibilità delle forze fondamentali è per lui in generale
qualcosa di impossibile, in parte una simile scienza della natura, per la quale
la natura è una materia, cioè un assolutamente opposto, non determinante
se stesso, può costruire solo una meccanica; essa con la miseria delle
forze di attrazione e repulsione ha fatto la materia già troppo ricca,
perché la forza è un interno che produce un esterno, un porre
se stessa, = io, e dal punto di vista puramente idealistico un simile carattere
non può addirsi alla materia; Kant comprende la materia semplicemente
come [70] l'oggettivo, l'opposto all'io; quelle forze per lui sono non solo
superflue, ma o puramente ideali, e quindi non sono forze, o trascendenti. Per
lui non rimane una costruzione dinamica, ma solo matematica dei fenomeni. Il
compimento dei fenomeni, che devono essere dati, mediante le categorie, può
ben dare diversi concetti esatti, ma nessuna necessità per i fenomeni,
e la catena della necessità è il formale dello scientifico della
costruzione; i concetti per la natura, come la natura per i concetti, rimangono
un contingente; sintesi correttamente costruite mediante categorie non avrebbero
dunque necessariamente un riscontro nella natura stessa; la natura può
solo offrire molteplici giochi, che potrebbero valere come schemi contingenti
per leggi dell'intelletto, esempi in cui quanto hanno di proprio e vivente cadrebbe
immediatamente via nella misura in cui in essi vengono riconosciute solo le
determinazioni della riflessione; ed inversamente le categorie sono solo poveri
schemi della natura. Se la natura è solo materia, non soggetto-oggetto,
non è possibile alcuna sua costruzione scientifica per la quale conoscente
e conosciuto debbano essere uno; una ragione che si è fatta riflessione
mediante l'opposizione assoluta all'oggetto può dichiarare a priori della
natura, solo mediante la deduzione, più del suo carattere universale
di materia; questo resta a fondamento, le molteplici determinazioni ulteriori
sono poste per e mediante la riflessione; una simile deduzione ha l'apparenza
di un'apriorità in quanto pone il prodotto della riflessione, il concetto,
come un oggettivo; poiché essa non pone nient'altro, rimane indubbiamente
immanente. Una tale deduzione è secondo la sua essenza lo stesso di quella
visione che riconosce nella natura solo una finalità esteriore; la differenza
è solo che quella procede più sistematicamente da un punto determinato,
ad esempio il corpo dell'essere razionale; in entrambe la natura è un
assolutamente determinato dal concetto, da un esteriore. La visione teleologica,
che riconosce la natura determinata solo secondo scopi esteriori, ha un vantaggio
riguardo alla completezza, perché assume la molteplicità della
natura come è empiricamente data; invece la deduzione della natura, che
muove da un punto determinato, e, a causa dell'incompletezza di questo, postula
ancora altro - e in questo consiste questo dedurre - è immediatamente
soddisfatta di quel che ha postulato, il quale deve immediatamente compiere
tutto quanto è preteso dal concetto; se solo un oggetto reale della natura
può compiere quanto è preteso, ciò non la riguarda, ed
essa può trovarlo mediante la sola esperienza; se l'oggetto immediatamente
postulato non si trova adeguatamente nella natura, ne viene dedotto un altro,
e così via finché lo scopo non si trova realizzato. L'ordine di
questi oggetti dedotti dipende dagli scopi determinati da cui si muove; e solo
nella misura in cui essi hanno una relazione con [71] questo scopo hanno una
connessione tra di loro. Ma propriamente essi non sono capaci di alcuna connessione
interiore; infatti se l'oggetto che è stato dedotto immediatamente viene
trovato nell'esperienza come inadeguato al concetto che deve essere riempito
di contenuto, allora mediante un tale unico oggetto, poiché è
esteriormente infinitamente determinabile, si apre la dispersione all'infinito,
una dispersione che sarebbe in qualche modo impedita solo se la deduzione curvasse
i suoi molteplici punti in un circolo, nel cui centro essa non è tuttavia
capace di porsi poiché è fin dall'inizio all'esterno; l'oggetto
per il concetto, ed il concetto per l'oggetto, è un esterno. Nessuna
delle due scienze può quindi costituirsi come l'unica; nessuna delle
due può togliere l'altra; l'assoluto così verrebbe posto solo
in una forma della sua esistenza; e come esso si pone nella forma dell'esistenza,
deve porsi in una dualità della forma, perché manifestarsi e scindersi
è una sola cosa. A causa dell'identità interiore delle due scienze,
poiché entrambe espongono l'assoluto come si genera, a partire dalla
potenze inferiori di Una forma del fenomeno, alla totalità in questa
forma, ogni scienza è uguale all'altra per connessione e per gerarchia,
l'una è una giustificazione dell'altra; come un filosofo del passato
ne ha all'incirca parlato: l'ordine e la connessione delle idee (del soggettivo)
è uguale alla connessione e all'ordine delle cose (dell'oggettivo); tutto
è solo in una totalità: la totalità oggettiva e la totalità
soggettiva, il sistema della natura ed il sistema dell'intelligenza è
uno e il medesimo; ad una determinazione soggettiva corrisponde la medesima
determinazione oggettiva. Come scienze esse sono totalità oggettive,
e procedono dal limitato al limitato; ma ogni limitato è esso stesso
nell'assoluto, e dunque interiormente un illimitato; esso perde la sua limitazione
esteriore per il fatto che è posto in connessione sistematica nella totalità
oggettiva: in questa esso ha verità anche come un limitato, e determinazione
della sua posizione è il sapere su di esso. - All'espressione di Jacobi,
che i sistemi sarebbero un'ignoranza organizzata, deve essere aggiunto solo
che l'ignoranza, - il sapere le cose singole - in quanto è organizzata
diviene un sapere. Oltre all'uguaglianza esteriore, nella misura in cui queste
scienze restano separate nel contempo i loro principi si compenetrano necessariamente
immediatamente. Se il principio dell'una è il soggettoggetto soggettivo,
l'altro è il soggettoggetto oggettivo, così certamente nel sistema
della soggettività c'è nel contempo l'oggettivo, nel sistema dell'oggettività
nel contempo il soggettivo; la natura è altrettanto un'idealità
immanente, quanto l'intelligenza una realtà immanente; entrambi i poli
del conoscere e dell'essere [72] sono in ciascun sistema, entrambi così
hanno in sé anche il punto-di-indifferenza; solo che in un sistema è
preponderante il polo dell'ideale, nell'altro il polo del reale; quello non
giunge nella natura fino al punto dell'astrazione assoluta, che pone sé
in se stessa come punto contro l'espansione infinita, come l'ideale si costruisce
nella ragione; questo non giunge nell'intelligenza fino all'inviluppamento dell'infinito,
che in questa contrazione si pone infinitamente fuori di sé, come il
reale si costruisce nella materia. Ogni sistema è un sistema della libertà
e della necessità insieme. Libertà e necessità sono fattori
ideali, quindi non in opposizione reale; perciò l'assoluto non può
porsi come assoluto in nessuna delle due forme; e le scienze della filosofia
non possono essere l'una un sistema della libertà, l'altra un sistema
della necessità. Una simile libertà separata sarebbe una libertà
formale, come una necessità separata una necessità formale. La
libertà è carattere dell'assoluto, quando esso è posto
come un interno che, nella misura in cui si pone in una forma limitata, in punti
determinati della totalità oggettiva, rimane ciò che è,
un non limitato, dunque quando esso viene considerato in opposizione al suo
essere, cioè come interno, e quindi con la possibilità di lasciare
tale essere e di passare in un'altra manifestazione. La necessità è
carattere dell'assoluto nella misura in cui esso è considerato come un
esterno, come una totalità oggettiva, dunque come una reciproca esteriorità,
alle cui parti però non spetta alcun essere, se non nell'intero dell'oggettività.
Poiché tanto l'intelligenza quanto la natura, per il fatto che sono poste
nell'assoluto, hanno un'opposizione reale, i fattori ideali della libertà
e della necessità spettano a ciascuna di loro. Ma l'arbitrio, l'apparenza
della libertà, cioè una libertà in cui si farebbe completa
astrazione dalla necessità, o dalla libertà come una totalità,
- il che può accadere solo in quanto la libertà è già
posta all'interno di una singola sfera; - così come il caso, che corrisponde
all'arbitrio nell'ambito della necessità, con il quale singole parti
sono poste come se fossero non nella totalità oggettiva, e solo mediante
lei, ma per sé; - arbitrio e caso, che hanno posto solo da punti di vista
subordinati, sono banditi dal concetto delle scienze dell'assoluto. Invece la
necessità appartiene all'intelligenza come alla natura; poiché
infatti l'intelligenza è posta nell'assoluto, le spetta altrettanto la
forma dell'essere; essa deve scindersi e manifestarsi; essa è un'organizzazione
completa di conoscere ed intuire; ognuna delle sue figure è condizionata
da opposti, e se l'identità astratta delle figure viene isolata dalle
figure stesse come libertà, allora essa è solo Un polo ideale
del punto- di-indifferenza dell'intelligenza, il quale ha una totalità
oggettiva come [73] l'altro polo immanente. La natura al contrario ha libertà
perché non è un essere immobile, ma insieme un divenire; un essere
che non viene scisso e sintetizzato dall'esterno, ma che si divide e si unifica
in se stesso, e non si pone in nessuna delle sue figure come un semplice limitato,
ma liberamente come il tutto; il suo sviluppo inconscio è una riflessione
della forza vivente, che si scinde incessantemente, ma in ogni figura limitata
pone se stessa ed è identica; e per questo nessuna figura della natura
è limitata, ma libera. - Se dunque la scienza della natura è in
generale la parte teoretica, la scienza dell'intelligenza la parte pratica della
filosofia, allora ognuna ha nel contempo per sé una propria parte teoretica
e pratica. Come nel sistema della natura l'identità, nella potenza della
luce, è, non in sé ma come potenza, qualcosa di estraneo alla
materia grave, che la scinde e l'unifica in vista della coesione, e produce
un sistema della natura inorganica; così, per l'intelligenza che si produce
nelle intuizioni oggettive, l'identità nella potenza del porre se stesso
è qualcosa di non presente, l'identità non riconosce se stessa
nell'intuizione; entrambe sono un produrre l'identità che non riflette
sul suo agire, dunque oggetto di una parte teoretica. Nello stesso modo, inversamente,
come l'intelligenza si riconosce nella volontà, e si introduce come se
stessa dentro l'oggettività, annienta le sue intuizioni prodotte inconsciamente,
così la natura nella natura organica diviene pratica, in quanto la luce
entra nel suo prodotto, e diviene un interno. Se nella natura inorganica la
luce, nella cristallizzazione, pone il punto di contrazione all'esterno come
un'idealità esteriore, nella natura organica essa si configura come interno
in vista della contrazione del cervello, già nella pianta come fiore,
nel quale il principio luminoso interiore si disperde in colori, ed in essi
presto avvizzisce; ma nella pianta, come più saldamente nell'animale,
essa si pone insieme soggettivamente e oggettivamente mediante la polarità
dei sessi; l'individuo cerca e trova se stesso in un altro. La luce resta nell'interno
più intensamente nell'animale, nel quale essa pone come voce più
o meno mutevole la sua individualità come un soggettivo nella comunicazione
universale, che si conosce e può essere riconosciuta. Poiché la
scienza della natura espone l'identità ricostruendo i momenti della natura
inorganica a partire dall'interno, essa ha in sé una parte pratica; il
ricostruito, pratico magnetismo è il togliere la forza di gravità
che nei poli si espande verso l'esterno, la sua ricontrazione nel punto di indifferenza
del cervello, e il suo spostare i due poli all'interno, come due punti di indifferenza,
come la natura li stabilisce anche nelle orbite ellittiche dei pianeti; l'elettricità
ricostruita dall'interno pone la differenza dei sessi delle organizzazioni,
ognuna delle quali produce mediante se [74] stessa la differenza, a causa della
sua manchevolezza si pone idealmente, e si trova oggettivamente in un'altra,
e si deve dare l'identità mediante il congiungersi con essa; - la natura,
nella misura in cui diviene pratica mediante il processo chimico, ha riposto
il terzo, ciò che media i diversi, in loro stessi come un interno, il
quale come tono, un suono interno che produce se stesso, come il terzo corpo
del processo inorganico, è qualcosa senza potenza, e svanisce, estingue
la sostanzialità assoluta dei differenti esseri, e li conduce all'indifferenza
del reciproco riconoscersi, di un porre ideale che, come il rapporto dei sessi,
non torna a spegnersi in un'identità reale. Abbiamo sinora opposto le
due scienze nella loro interna identità; nell'una l'assoluto è
un soggettivo, nella forma del conoscere, nell'altra è un oggettivo nella
forma dell'essere. Essere e conoscere diventano fattori ideali, o forme, per
il fatto che sono opposti l'uno all'altro; entrambi sono in entrambe le scienze,
ma nell'una il conoscere è la materia, l'essere la forma; nell'altra
l'essere è la materia, il conoscere la forma. Poiché l'assoluto
è in entrambe il medesimo, e le scienze non espongono gli opposti semplicemente
come forme ma nella misura in cui il soggettoggetto si pone in essi, allora
le scienze stesse sono in opposizione non ideale ma reale, e quindi devono essere
considerate nel contempo in Una continuità, come Una scienza coerente.
Nella misura in cui esse sono opposte l'una all'altra, sono certamente internamente
in sé conchiuse, e totalità; ma nel contempo sono solo relative,
e come tali si sforzano verso [streben nach] il punto-di- indifferenza; esso
come identità e totalità relativa si trova dovunque in esse stesse;
come totalità assoluta si trova fuori di esse. Tuttavia nella misura
in cui entrambe sono scienze dell'assoluto, e la loro opposizione è reale,
esse sono connesse come poli dell'indifferenza nell'indifferenza stessa, sono
esse stesse le linee che annodano il polo con il centro. Ma questo centro è
esso stesso un duplice, una volta identità, l'altra totalità,
e quanto a ciò le due scienze appaiono come il processo dello sviluppo
o come autocostruzione dell'identità in totalità. Il punto di
indifferenza verso il quale si sforzano entrambe le scienze, nella misura in
cui, considerate dal lato dei loro fattori ideali, sono opposte, è il
tutto, rappresentato come un'autocostruzione dell'assoluto, l'ultimo ed il supremo
di tale autocostruzione. Il medio, il punto di passaggio dall'identità
che si costruisce come natura alla sua costruzione come intelligenza, è
il farsi interiore della luce alla natura, il fulmine che cade dall'ideale nel
reale, come dice Schelling, e il suo costituire se stessa come punto. Questo
[75] punto, come ragione il punto di svolta di entrambe le scienze, è
il vertice supremo della piramide della natura, il suo ultimo prodotto, a cui
essa giunge compiendosi; ma come punto esso deve altrettanto espandersi in una
natura. Se la scienza si è posta in esso come nel centro, e da esso si
è separata in due parti, e ad un lato assegna il produrre inconscio,
all'altro quello conscio, essa sa altrettanto che l'intelligenza, come fattore
reale, insieme assume con sé l'intera autocostruzione della natura nell'altro
lato, ed ha in sé quanto la precede, o le sta a fianco, come sa che nella
natura come fattore reale è immanente ciò che le sta di contro
nella scienza: e con ciò è tolta ogni idealità dei fattori
e la loro forma unilaterale. Questo è l'unico punto di vista superiore,
dal quale le due scienze sono perdute l'una nell'altra, essendo la loro separazione
riconosciuta come una separazione solo scientifica, e l'idealità dei
fattori come qualcosa di posto solo a questo scopo. Questa visione è
immediatamente solo negativa, è solo il togliere la separazione delle
due scienze e delle forme in cui l'assoluto si è posto, non una sintesi
reale, non il punto-di- indifferenza assoluto, in cui queste forme sono annientate
in quanto sussistono entrambe unificate. L'identità originaria, che dispiegava
la sua contrazione inconscia, - soggettivamente, del sentire, oggettivamente,
della materia,- nell'essere-uno-accanto e uno-dopo-l'altro organizzato senza
fine dello spazio e del tempo, nella totalità oggettiva, e che a questa
espansione opponeva la contrazione, che si costituisce mediante il suo annientamento,
nel punto autoconoscentesi della ragione (soggettiva), - la totalità
soggettiva -, deve unificarle entrambe nell'intuizione dell'assoluto che diviene
se stesso oggettivamente nella totalità compiuta, - nell'intuizione dell'eterna
incarnazione di Dio, del generare del Verbo in principio. Questa intuizione
dell'assoluto che configura se stesso, o che si trova oggettivamente, può
altrettanto essere nuovamente considerata in una polarità, in quanto
i fattori di questo equilibrio, da un lato la coscienza, dall'altro l'inconscio,
sono posti in modo preponderante. Nell'arte quell'intuizione si manifesta più
concentrata in un punto e deprimente la coscienza - o in quella che è
propriamente detta arte, come opera che, in quanto obiettiva, in parte è
duratura, in parte può essere presa dall'intelletto come un morto esterno,
un prodotto dell'individuo, del genio, ma appartenente all'umanità, -
o nella religione, come movimento vivente che in quanto soggettivo, in quanto
occupa solo momenti, può essere posto dall'intelletto come un mero interno;
il prodotto di una moltitudine, di una genialità universale, ma anche
appartenente ad ogni individuo. Nella speculazione quell'intuizione si manifesta
più come coscienza, e dispiegata nella coscienza, come un fare della
ragione soggettiva, che toglie l'oggettività e l'inconscio. Se all'arte
nella sua vera estensione l'assoluto si manifesta più nella forma [76]
dell'essere assoluto, esso si manifesta alla speculazione più come qualcosa
che genera se stesso nella propria intuizione infinita; ma in quanto la speculazione
certo lo comprende come un divenire, essa pone altrettanto l'identità
del divenire e dell'essere, e ciò che le si manifesta come generante
sé viene posto altrettanto come l'essere originario assoluto, che può
divenire solo in quanto è; in questo modo la speculazione sa prendersi
essa stessa la preponderanza che la coscienza ha in lei; una preponderanza che
è comunque un inessenziale; entrambe, arte e speculazione, sono nella
loro essenza culto divino; entrambe sono un intuire vivente la vita assoluta,
e quindi un essere-uno con essa. Così la speculazione, ed il suo sapere,
è nel punto-di-indifferenza; ma non è in sé e per sé
nel vero punto di indifferenza; se essa si trovi in esso dipende da ciò:
se si riconosce solo come Una parte di esso; la filosofia trascendentale è
Una scienza dell'assoluto, poiché il soggetto è esso stesso soggettoggetto,
e in quanto tale ragione; se essa si pone, in quanto è una tale ragione
soggettiva, come l'assoluto, essa è una ragione pura, cioè formale,
i cui prodotti, idee, sono assolutamente opposti ad una sensibilità o
natura, e possono servire ai fenomeni solo come la regola di un'unità
ad essi estranea. In quanto l'assoluto è posto nella forma di un soggetto,
questa scienza ha un limite immanente; essa si innalza alla scienza dell'assoluto,
e nel punto-di-indifferenza assoluto, solo in quanto conosce i suoi limiti,
e sa togliere essi e se stessa, e proprio scientificamente - perché si
è ben parlato in passato dei pali di confine della ragione umana, ed
anche l'idealismo trascendentale riconosce limiti inafferrabili dell'autocoscienza
in cui siamo richiusi una volta per sempre; ma in quanto i limiti sono spacciati
là per pali di confine, qui per inafferrabili, la scienza riconosce la
sua incapacità a togliersi mediante se stessa, cioè non mediante
un salto mortale, ovvero ad astrarre nuovamente dal soggettivo, in cui essa
ha posto la ragione. Poiché la filosofia trascendentale pone il suo soggetto
come un soggettoggetto, e così è un lato del punto-di-indifferenza
assoluto, la totalità è indubbiamente in essa, la stessa intera
filosofia della natura cade, come un sapere, all'interno della sua sfera; e
alla scienza del sapere,- che costituirebbe solo una parte della filosofia trascendentale
-, non può essere impedito, come nemmeno alla logica, di avanzare pretese
sulla forma che dà al sapere e sull'identità che è nel
sapere, o meglio di isolare la forma come coscienza e di costruire per sé
il fenomeno. Ma questa identità, separata da tutto il molteplice del
sapere, come pura autocoscienza, si mostra in ciò come un'identità
relativa: nel fatto che non esce in nessuna delle sue forme dal suo esser-condizionata
mediante un opposto. Il principio assoluto, l'unico fondamento reale e punto
di vista fermo della filosofia, è, tanto nella filosofia di Fichte quanto
in quella di Schelling, l'intuizione intellettuale; - [77] espresso per la riflessione,
l'identità del soggetto e dell'oggetto [Objekt]. Essa nella scienza diviene
oggetto [Gegenstand] della riflessione, e perciò la stessa riflessione
filosofica è intuizione trascendentale, essa si fa oggetto [Objekt] a
se stessa, ed è una con esso, in tal modo essa è speculazione;
perciò la filosofia di Fichte è autentico prodotto della speculazione.
La riflessione filosofica è condizionata, ovvero l'intuizione trascendentale
giunge alla coscienza, mediante libera astrazione da tutta la molteplicità
della coscienza empirica, e pertanto è un soggettivo; se la riflessione
filosofica si fa oggetto [Gegenstand] a se stessa in tal modo, essa così
fa di un condizionato il principio della sua filosofia; per cogliere puramente
l'intuizione trascendentale la riflessione filosofica deve ancora astrarre da
questo soggettivo, affinché essa come fondamento della filosofia non
sia per lei né soggettiva né oggettiva, né autocoscienza
opposta alla materia, né materia opposta all'autocoscienza, bensì
identità assoluta, né soggettiva né oggettiva, pura intuizione
trascendentale. Come oggetto [Gegenstand] della riflessione essa diviene soggetto
e oggetto [Objekt]; la riflessione filosofica pone questi prodotti della pura
riflessione, nella loro permanente opposizione, nell'assoluto; l'opposizione
della riflessione speculativa non è più un oggetto [Objekt] e
un soggetto, ma un'intuizione trascendentale soggettiva ed un'intuizione trascendentale
oggettiva; quella io, questa natura, entrambe le supreme manifestazioni della
ragione assoluta che intuisce se stessa. Che entrambi questi opposti, - si chiamino
ora io e natura, autocoscienza pura ed empirica, conoscere ed essere, porre
se stesso ed opporre, finitezza ed infinitezza -, vengano posti insieme nell'assoluto,
in questa antinomia la riflessione comune non scorge altro che la contraddizione;
solo la ragione scorge in questa contraddizione assoluta la verità mediante
la quale entrambi sono posti ed entrambi annientati, entrambi non sono, ed insieme
entrambi sono. Rimane ancora da dire qualcosa in parte della visione di Reinhold
della filosofia di Fichte e di Schelling, in parte della sua propria filosofia.
Per quanto riguarda quella visione, in primo luogo Reinhold non ha visto la
differenza delle due filosofie come sistemi, e in secondo luogo non le ha prese
come filosofie. Reinhold sembra non aver presagito che da molto tempo sta davanti
al pubblico un filosofia diversa dal puro idealismo trascendentale; egli, in
modo straordinario, non scorge nella filosofia, come Schelling l'ha enunciata,
nient'altro che un principio, [quello] del comprensibile della soggettività,
l'egoità. Reinhold riesce a dire, connettendo le due affermazioni, che
Schelling ha fatto la scoperta che l'assoluto, nella misura in cui non è
mera soggettività, non è e non può essere nient'altro [78]
che la mera oggettività, o la mera natura in quanto tale; e che la strada
per giungervi è porre l'assoluto nell'assoluta identità dell'intelligenza
e della natura; - dunque riesce a rappresentare in Un solo tratto il principio
di Schelling così: a) l'assoluto in quanto non è mera soggettività
è mera oggettività, dunque non la loro identità, e b) l'assoluto
è la loro identità. Al contrario il principio dell'identità
del soggetto e dell'oggetto doveva divenire la strada per riconoscere che l'assoluto,
come identità, non è né mera soggettività né
mera oggettività; dopo ciò Reinhold rappresenta giustamente il
rapporto della due scienze in modo che entrambe siano solo diverse visioni dell'una
e della medesima - non certamente cosa, dell'assoluta medesimezza, del solo;
e proprio per questo né il principio dell'una né il principio
dell'altra è mera soggettività, né mera oggettività,
né, ancor meno, ciò in cui entrambe solo si compenetrano, la pura
egoità, che come la natura è inghiottito nel punto-di-indifferenza
assoluto. Chi, ritiene Reinhold, è preso dall'amore e dalla fede nella
verità, e non dal sistema, si convincerà facilmente che l'errore
di questa soluzione descritta sta nel modo e maniera dell'assunzione del compito
- ma dove stia l'errore della descrizione reinholdiana di ciò che secondo
Schelling è filosofia, e come sia stato possibile questo modo e maniera
di coglierla, su ciò non è così facile trovare chiarimenti.
Non serve a nulla rimandare all'Introduzione all'Idealismo trascendentale stesso,
nella quale è esposto il suo rapporto con il tutto della filosofia e
il concetto di questo tutto della filosofia, perché nei suoi giudizi
sull'idealismo trascendentale Reinhold si limita ad essa, e vi vede il contrario
di ciò che vi è contenuto; altrettanto poco si può richiamare
l'attenzione su singoli passi di essa, in cui il vero punto di vista è
espresso nel modo più preciso; perché Reinhold cita i passi più
determinati nel suo primo giudizio di questo sistema, - i quali contengono che
solo in una scienza fondamentale necessaria della filosofia, nell'idealismo
trascendentale, il soggettivo è il primo; non, come la cosa in Reinhold
si pone immediatamente rovesciata, il primo dell'intera filosofia, e nemmeno
è principio dell'idealismo trascendentale solo come puro soggettivo,
bensì come soggetto- oggetto soggettivo. Per coloro che sono capaci di
non capire da espressioni determinate il loro contrario forse non è superfluo,
oltre all'introduzione del Sistema dell'idealismo trascendentale e ugualmente
ai recenti numeri della Rivista per la fisica speculativa, richiamare l'attenzione
sul secondo fascicolo del primo volume [79] dove Schelling si esprime così:
la filosofia della natura è un spiegazione fisica dell'idealismo; - la
natura ha già da lontano posto il progetto per l'altezza che essa raggiunge
nella ragione. - Al filosofo questo sfugge solo perché fin dal primo
atto egli assume il suo oggetto già nella potenza più alta - come
io, come coscienza, e solo il fisico scopre questa illusione. L'idealista ha
ragione quando fa della ragione l'autocreatrice di tutto; ha dalla sua parte
l'intenzione propria della natura a proposito dell'uomo, ma proprio perché
ciò è l'intenzione della natura - quello stesso idealismo diviene
qualcosa di spiegabile, - e con ciò coincide la realtà teoretica
dell'idealismo. - Solo quando gli uomini impareranno a pensare in modo puramente
teoretico, SEMPLICEMENTE OGGETTIVO SENZA ALCUNA MESCOLANZA DEL SOGGETTIVO, essi
impareranno a comprenderlo. Se Reinhold pone il difetto principale della filosofia
datasi finora nel fatto che sinora il pensare è stato rappresentato con
il carattere di una mera attività soggettiva, ed esige che si faccia
il tentativo di astrarre dalla sua soggettività, allora, come si trova
non solo nel passo citato ma anche nel principio di tutto il sistema schellinghiano,
l'astrazione dal soggettivo dell'intuizione trascendentale è il formale
carattere fondamentale di questa filosofia, che è giunto ad espressione
in modo ancora più preciso (Rivista di fisica speculativa, II vol., I
fascicolo) in occasione delle Obiezioni alla filosofia della natura di Eschenmayer,
che sono prese dai fondamenti dell'idealismo trascendentale, nel quale la totalità
è posta solo come un'idea, un pensiero, cioè un soggettivo. Per
quanto concerne la visione reinholdiana del lato comune dei due sistemi, il
loro essere filosofie speculative, essi appaiono necessariamente al punto di
vista peculiare di Reinhold come peculiarità, e quindi non come filosofie.
Se secondo Reinhold il più essenziale compito, tema e principio della
filosofia è fondare la realtà della conoscenza mediante l'analisi,
cioè mediante il separare, allora la speculazione, il cui più
alto compito è togliere la separazione nell'identità del soggetto
e dell'oggetto, certamente non ha alcun significato, ed il lato più essenziale
di un sistema filosofico, l'essere speculazione, non può venire in considerazione;
esso non resta nient'altro che una visione peculiare, ed un più debole
o più forte smarrimento spirituale. Così ad esempio anche il materialismo
appare a Reinhold solo secondo il lato di uno smarrimento spirituale, che non
è di casa in Germania, ed in esso non riconosce nulla dell'autentico
[80] bisogno filosofico di togliere la scissione nella forma di spirito e materia.
Se la località occidentale della cultura, da cui questo sistema è
provenuto, lo tiene distante da un paese, la domanda è se questa distanza
non abbia origine da un'opposta unilateralità della cultura; e se anche
il suo valore scientifico fosse molto scarso, non bisogna tuttavia disconoscere
che ad esempio nel Systeme de la nature si esprime uno spirito che si è
smarrito per il suo tempo e che si riproduce nella scienza, e come la sofferenza
per il generale inganno del suo tempo, per la disgregazione senza fondo della
natura, per l'infinita menzogna, che si chiamava verità e diritto, come
la sofferenza per tutto ciò, che soffia attraverso il tutto, conserva
forza sufficiente per costruirsi l'assoluto, sfuggito dalla manifestazione della
vita, come verità con autentico bisogno filosofico e con vera speculazione
in una scienza, la cui forma si manifesta nel principio locale dell'oggettivo,
così come inversamente la cultura tedesca si annida, spesso senza speculazione,
nella forma del soggettivo, a cui appartengono anche l'amore e la fede. Poiché
al lato analitico, in quanto poggia sull'assoluta opposizione, deve sfuggire
in una filosofia proprio il suo lato filosofico, che è rivolto verso
l'assoluta unificazione, gli si presenta come la cosa più straordinaria
che Schelling, come si esprime Reinhold, abbia introdotto nella filosofia il
legame del finito e dell'infinito - come se filosofare fosse qualcosa di diverso
dal porre il finito nell'infinito; - in altre parole al lato analitico si presenta
come la cosa più straordinaria che nella filosofia debba essere introdotto
il filosofare. Allo stesso modo non solo a Reinhold sfugge, nel sistema di Fichte
e di Schelling, il lato speculativo, filosofico in generale, ma egli ritiene
un'importante scoperta e una rivelazione quando i principi di questa filosofia
gli si trasformano nel più particolare, ed il più universale,
l'identità di soggetto e oggetto, si trasforma per lui nel più
particolare, cioè l'individualità propria, individuale, dei signori
Fichte e Schelling. Se Reinhold così cade dalla montagna del suo principio
limitato e della sua visione peculiare nell'abisso della visione limitata di
questi sistemi, questo è comprensibile e necessario; ma è casuale
e maligna la svolta, quando Reinhold preliminarmente nel Deutscher Mercur, ed
in futuro nel prossimo quaderno dei Contributi*, spiegherà la particolarità
di questi sistemi a partire dall'immoralità, e precisamente così:
che l'immoralità avrebbe conseguito in questi sistemi la forma di un
principio, e della filosofia. Si può chiamare una simile svolta una meschinità,
un espediente del rancore, e così via, ed ingiuriarla, perché
una cosa simile è bandita. Una filosofia procede certamente dal suo tempo,
e, se si vuole comprendere la disunione del tempo [81] come un'immoralità,
dall'immoralità, ma per ricostituire a partire da sé l'uomo contro
la disgregazione del tempo, e per conseguire la totalità che il tempo
ha lacerato. Per quanto riguarda la filosofia propria di Reinhold, egli ne dà
una storia ufficiale: che egli nel corso della sua metempsicosi filosofica prima
ha peregrinato in quella kantiana, dopo l'abbandono di questa nella fichtiana,
da questa in quella di Jacobi, e, da quando ha lasciato anch'essa, si è
ritirato nella logica di Bardili; dopo di che, secondo pagina 163 dei Contributi,
"ha limitato la sua occupazione con essa al puro imparare, al semplice
accogliere, e riflettere nell'intelletto più proprio, per vincere l'immaginazione
viziata e scacciare infine dalla testa i vecchi tipi trascendentali mediante
i nuovi tipi razionalistici" - così ormai nei Contributi alla più
agevole visione complessiva della filosofia all'inizio del 19° secolo comincia
la loro elaborazione. Questi Contributi prendono l'epoca, così importante
per il progresso della cultura dello spirito umano, dell'inizio di un nuovo
secolo, "per augurargli fortuna, perchè il motivo di tutte le rivoluzioni
filosofiche - è stato scoperto, e con ciò tolto nella cosa stessa,
non prima e non dopo il penultimo anno del 18° secolo." Come in Francia
è stato troppo spesso decretato: la revolution est finie, così
anche Reinhold ha già annunciato parecchie fini della rivoluzione filosofica;
ora egli riconosce l'ultima fine delle fini, sebbene le gravi conseguenze della
trascendentale "rivoluzione continueranno a durare ancora per un lungo
tempo;" egli aggiunge anche la domanda "se egli non torni ad ingannarsi
anche ora? - se nonostante tutto anche questa vera e propria fine - non potrebbe
essere nuovamente all'incirca solo l'inizio di una nuova brusca svolta?".
Dovrebbe piuttosto essere posta la domanda, se questa fine, quanto poco è
capace di essere una fine, sia capace di essere l'inizio di una cosa qualsiasi.
La tendenza a fondare ed approfondire, il filosofare prima della filosofia,
è cioè infine riuscita ad esprimersi compiutamente, essa ha esattamente
trovato cosa si tratta di fare; si tratta di trasformare la filosofia nel formale
del conoscere, nella logica. Se la filosofia come tutto fonda in se stessa,
secondo la forma e il contenuto, sé e la realtà delle conoscenze,
al contrario il fondare ed approfondire, nella sua ressa di dimostrare ed analizzare,
e di perché e nella misura in cui, e di poiché ed in questa misura,
non esce fuori da sé, né entra nella [82] filosofia. Per l'ansietà
priva di contegno, che sempre solo si accresce nel suo affaccendarsi, tutte
le ricerche giungono troppo presto, ed ogni inizio è un precipitare,
come ogni filosofia solo un esercizio preliminare. La scienza afferma di fondarsi
in sé per il fatto che pone assolutamente ognuna della sue parti, e perciò
costituisce un'identità ed un sapere nell'inizio ed in ogni singolo punto;
come totalità oggettiva il sapere nel contempo si fonda tanto più,
quanto più esso si costruisce, e le sue parti sono fondate solo contemporaneamente
a questo tutto delle conoscenze; centro e circonferenza sono in rapporto reciproco
in modo tale che il primo inizio della circonferenza è già un
rapporto con il centro, e questo non è un centro compiuto se non sono
compiuti tutti i suoi rapporti, l'intera circonferenza; un tutto che ha tanto
poco bisogno di un particolare appiglio del fondare, quanto poco la terra ha
bisogno di un particolare appiglio per essere afferrata dalla forza che la conduce
intorno al sole ed insieme la mantiene nell'intera vivente molteplicità
delle sue forme. Ma il fondare si dedica a cercare sempre l'appiglio ed a prendere
la rincorsa verso la filosofia vivente; esso fa di questo prendere la rincorsa
la vera opera, e mediante il suo principio si rende impossibile giungere al
sapere e alla filosofia. La conoscenza logica, se procede effettivamente fino
alla ragione, deve essere condotta al risultato che essa nella ragione si annienta,
deve riconoscere l'antinomia come sua legge suprema. Nel tema reinholdiano dell'applicazione
del pensiero, il pensiero come infinita ripetibilità dell'A come A in
A e mediante A diviene certo anche antinomico, poiché A nell'applicazione
viene posto di fatto come B. Ma questa antinomia è presente in modo del
tutto inconsapevole e non riconosciuto, poiché il pensiero, la sua applicazione
e la sua materia stanno pacificamente l'uno accanto all'altro. Perciò
il pensiero come facoltà dell'astratta unità è, come la
conoscenza, meramente formale, e l'intera fondazione deve essere solo problematica
ed ipotetica, finché con il tempo, nel progresso del problematico e dell'ipotetico,
ci si imbatte nel vero-originario [Urwahre] nel vero, e nel vero mediante il
vero-originario [Urwahre]. Ma questo è impossibile, in parte poiché
da una assoluta formalità non si può giungere ad alcuna materialità,
esse sono assolutamente opposte, ed ancor meno ad una assoluta sintesi, che
deve essere più che un mero congiungere; - in parte con un ipotetico
e problematico non si fonda assolutamente nulla. Oppure la conoscenza viene
tuttavia messa in relazione con l'assoluto, diviene un'identità del soggetto
e dell'oggetto, del pensare e della materia; allora essa non è più
formale, è sorto un sapere increscioso, ed il fondare prima del [83]
sapere viene di nuovo mancato. Alla paura di cascare dentro il sapere non resta
nient'altro che riscaldarsi al suo amore e alla sua fede, ed alla sua tendenza
fissa e mirante allo scopo con l'analizzare, il metodizzare e il narrare. Se
il prendere la rincorsa non riesce a saltare oltre il fosso, l'errore non viene
attribuito al perenne continuare del prendere la rincorsa, bensì al suo
metodo. Ma il metodo vero sarebbe quello con cui il sapere è tirato già
da questa parte del fosso, al di qua, nello spazio della rincorsa, e la filosofia
è ridotta alla logica. Non possiamo passare subito alla considerazione
di questo metodo, con cui la filosofia deve essere spostata nell'ambito del
prendere la rincorsa, bensì dobbiamo prima parlare dei presupposti che
Reinhold ritiene necessari alla filosofia, dunque della rincorsa verso la rincorsa.
Come condizione preliminare del filosofare, da cui deve partire lo sforzo di
approfondire la conoscenza, Reinhold indica l'amore per la verità e per
la certezza; e poiché questo viene riconosciuto subito e abbastanza facilmente,
anche Reinhold non ci si sofferma oltre. In effetti l'oggetto della riflessione
filosofica non può essere altro che il vero e il certo; se ora la coscienza
è colma di questo oggetto, non può avervi alcuno spazio una riflessione
sul soggettivo, nella forma di un amore; questa riflessione produce l'amore
solo in quanto fissa il soggettivo, e precisamente fa dell'amore che ha un oggetto
tanto sublime come la verità, - e non meno dell'individuo che, animato
da tale amore, postula la verità, - qualcosa di sommamente sublime. La
seconda condizione essenziale del filosofare, la fede nella verità come
verità, Reinhold pensa che non venga riconosciuta così facilmente
come l'amore. Fede avrebbe ben espresso adeguatamente ciò che deve essere
espresso; in relazione alla filosofia si potrebbe parlare all'incirca della
fede nella ragione come dell'autentica salute; la superfluità dell'espressione:
fede nella verità come verità, invece di renderla più edificante
vi introduce qualcosa di ambiguo. La cosa principale è che Reinhold dichiara
con serietà che non gli si deve domandare, cosa sia la fede nella verità?
Colui al quale tale fede non è chiara per se stessa, non ha e non conosce
il bisogno di trovarla dimostrata nel sapere che solo da questa fede può
muovere; egli stesso non si comprende nemmeno nel porre quella domanda, e Reinhold
non ha infatti nient'altro da dirgli. Se Reinhold si crede autorizzato a postulare,
- nel postulato dell'intuizione trascendentale si trova altrettanto il presupposto
di un sublime al di là di ogni prova, e il conseguente diritto e necessità
del postulare. Infatti Fichte e Schelling hanno descritto, come dice Reinhold
stesso, il [84] fare proprio della ragione pura, l'intuizione trascendentale,
come un agire che ritorna in se stesso; ma Reinhold a chi potrebbe essere preso
dal problema di una descrizione della fede reinholdiana non ha proprio nulla
da dire; - eppure egli fa più di quanto creda di essere obbligato a fare;
egli determina la fede almeno mediante l'opposizione al sapere, come un saldo
tenere-per-vero senza alcun sapere; e la determinazione di cosa sia il sapere,
come anche la sfera comune del sapere e della fede, si proverà nel corso
della fondazione problematica ed ipotetica, e così la descrizione si
farà completa. Se Reinhold si crede esentato mediante un postulato da
ogni ulteriore spiegazione, al contrario sembra presentarglisi come strano che
i signori Fichte e Schelling postulino; il loro postulato è per lui un'idiosincrasia
nella coscienza di certi straordinari individui, dotati del senso particolare
necessario per esso, nei cui scritti la stessa ragion pura pubblica il suo sapere
operante ed il suo operare sapiente. Anche Reinhold crede (pag. 143) di essersi
trovato in questo cerchio magico, di esserne uscito, e di trovarsi ora nella
condizione di svelare il segreto; ciò che poi egli spettegola fuori dalla
scuola, è che il più universale, il fare della ragione, per lui
si trasforma nel più particolare, in un'idiosincrasia dei signori Fichte
e Schelling. - Colui al quale l'amore e la fede reinholdiani non sono chiari
per sé, ed al quale Reinhold non ha nulla da dire in proposito, deve
non meno scorgere lui nel cerchio magico di un arcano, il cui possessore come
rappresentante dell'amore e della fede dà ad intendere di essere appunto
dotato di un senso particolare; di un arcano che si presentava ed esponeva nella
coscienza di questo individuo straordinario, ed ha voluto rendersi pubblico
nel mondo sensibile mediante il Compendio di logica ed i Contributi che lo elaborano,
ecc.. Il postulato dell'amore e della fede suona un po' più piacevole
e delicato della strana pretesa di un'intuizione trascendentale; un pubblico
può essere più edificato da un postulato delicato, ma dal rude
postulato dell'intuizione trascendentale può essere respinto; solo che
ciò non ha alcuna importanza per la questione principale. Veniamo ormai
al presupposto principale che infine riguarda più immediatamente il filosofare.
Ciò che deve essere presupposto preliminarmente alla filosofia, perché
sia pensabile anche solo come tentativo, Reinhold lo chiama il vero- originario
[Urwahre]*, [85] il vero e certo per se stesso, il fondamento della spiegazione
di ogni comprensibile vero; ma ciò con cui comincia la filosofia deve
essere il primo comprensibile Vero, e precisamente il vero Primo comprensibile,
il quale nel filosofare come sforzo per il momento viene assunto solo problematicamente
e ipoteticamente; ma nel filosofare come sapere esso si dimostra solo, e come
Primo unicamente possibile solo allora ed in tal misura, quando ed in quanto
risulta con piena certezza che, e per quale ragione, esso stesso e la possibilità
e la realtà tanto del conoscibile come della conoscenza siano possibili
mediante il vero-originario come fondamento-originario di tutto ciò che
si annuncia nel possibile e nel reale, e come e perché tale primo vero
sia vero mediante il vero originario, il quale al di fuori della sua relazione
col possibile ed il reale, in cui esso si rivela, è il semplicemente
incomprensibile, inspiegabile ed indicibile. Da questa forma dell'assoluto come
un vero-originario si vede che dopo di esso nella filosofia non si tratta di
produrre il sapere e la verità mediante la ragione; che l'assoluto, nella
forma della verità, non è un'opera della ragione, bensì
è già in sé e per sé un vero e certo, dunque un
saputo e conosciuto; la ragione non può darsi alcuna relazione attiva
ad esso; al contrario ogni attività della ragione, ogni forma che l'assoluto
ottenesse mediante lei, sarebbe da riguardare come una sua alterazione, ed un'alterazione
del vero-originario sarebbe la produzione dell'errore. Dunque filosofare significa
assumere in sé con ricettività semplicemente passiva il saputo
già interamente compiuto; - e non si può negare la comodità
di questa maniera. Non c'è bisogno di ricordare che verità e certezza
fuori dalla conoscenza, sia essa ora una fede o un sapere, sono un non-senso,
e che solo mediante l'autoattività della ragione l'assoluto diviene un
vero e un certo. Ma diviene comprensibile come a questa comodità, che
presuppone già un compiuto vero- originario, debba presentarsi come strano
che si pretenda che il pensare si potenzi in sapere mediante autoattività
della ragione, che la natura venga creata per la coscienza mediante la scienza,
e che il soggetto-oggetto non sia nulla a cui esso non si crei mediante l'autoattività.
In virtù di quella comoda maniera l'unificazione dell'assoluto e della
riflessione nel sapere accade interamente secondo l'ideale di un'utopia filosofica
in cui l'assoluto si prepara già per sé come un vero e saputo
e [86] si dà interamente da godere alla passività del pensiero,
il quale deve solo spalancare la bocca; - da questa utopia è bandito
il faticoso creare e costruire assertorio e categorico; dall'albero della conoscenza,
piantato sulla sabbia del fondare, cadono con uno scossone problematico ed ipotetico
i frutti masticati e digeriti da sé. Per l'intero compito della filosofia
ridotta [alla logica], che pretende di essere solo un tentativo problematico
ed ipotetico ed un preliminare, l'assoluto deve essere posto necessariamente
già come originariamente-vero e saputo, altrimenti come dovrebbe dal
problematico ed ipotetico risultare verità e sapere? Ora poiché
ed in quanto il presupposto della filosofia è l'in sé inconcepibile
e vero- originario, perciò ed in tal misura esso deve potersi annunciare
solo in un vero concepibile, ed il filosofare non può muovere da un Vero-originario
inconcepibile, bensì da un Vero concepibile. - Non solo questa deduzione
non è dimostrata, ma anzi bisogna trarre la conclusione opposta: - se
il vero-originario, presupposto della filosofia, è un inconcepibile,
allora in un concepibile il vero-originario si annuncerebbe mediante il suo
opposto, dunque falsamente. Si dovrebbe piuttosto dire che la filosofia deve
certamente cominciare, procedere e finire con concetti, ma con concetti inconcepibili;
infatti nella limitazione di un concetto l'inconcepibile anziché essere
annunciato è tolto; - e l'unificazione di concetti opposti nell'antinomia
(cioè, per la facoltà del comprendere, la contraddizione), non
è la manifestazione puramente problematica ed ipotetica dell'inconcepibile,
ma, a causa dell'immediata connessione con esso, la sua manifestazione assertoria
e categorica, e la vera rivelazione dell'inconcepibile in concetti possibile
mediante la riflessione. Se secondo Reinhold l'assoluto è un inconcepibile
solo al di fuori della sua relazione al reale ed al possibile, in cui esso si
rivela, e dunque si può conoscere nel possibile e nel reale, allora questa
sarebbe solo una conoscenza mediante l'intelletto, e non una conoscenza dell'assoluto,
poiché la ragione, che intuisce la relazione del reale e possibile all'assoluto,
proprio con ciò toglie il possibile e reale come possibile e reale; per
lei questa determinazioni scompaiono, come anche la loro opposizione; e così
essa non conosce la manifestazione esteriore come rivelazione, bensì
l'essenza che si rivela, ed al contrario deve conoscere un concetto per sé,
come anche l'astratta unità del pensiero, non come un annunciarsi dell'essenza,
ma come un suo scomparire dalla coscienza; essa non è certamente scomparsa
in sé, ma da una simile speculazione. [87] Passiamo alla considerazione
di quello che è il vero compito della filosofia ridotta alla logica;
cioè mediante l'analisi dell'applicazione del pensare in quanto pensare
bisogna scoprire e stabilire il vero-originario insieme al vero, ed il vero
mediante il vero-originario, e vediamo i diversi assoluti che per ciò
sono necessari: a. Il pensare non diviene un pensare solo nell'applicazione
e mediante l'applicazione e come un applicato, bensì qui deve essere
compreso il suo carattere interiore, e questo è l'infinita ripetibilità
dell'uno e medesimo nell'uno e medesimo, e mediante l'uno e medesimo - la pura
identità, l'infinità assoluta escludente da sé ogni reciproca
esteriorità, successione e giustapposizione. b. Una cosa completamente
diversa dal pensare stesso è l'applicazione del pensare; come il pensare
stesso non è certamente l'applicazione del pensare, altrettanto certamente
nell'applicazione, e mediante essa, al pensare deve c. aggiungersi ancora un
terzo termine = C, la materia dell'applicazione del pensare; questa materializzazione
in parte annientata dal pensare, in parte aggiungentesi ad esso, viene postulata;
e la liceità e la necessità di assumere e presupporre la materia
sta nel fatto che sarebbe impossibile che il pensiero potesse essere applicato,
se una materia non fosse. Ora poiché la materia non può essere
ciò che è il pensare, - infatti, se essa fosse lo stesso, non
sarebbe un altro, e non avrebbe luogo alcuna applicazione -; poiché il
carattere interiore del pensare è l'unità, - allora il carattere
interiore della materia è quello opposto al carattere del pensare, molteplicità.
- Ciò che un tempo veniva francamente assunto come dato empiricamente,
dai tempi di Kant viene postulato, e questo poi si chiama rimanere immanente;
solo nel soggettivo - l'oggettivo deve essere postulato - vengono ancora ammesse
leggi, forme o cos'altro si vuole date empiricamente, sotto il nome di dati
di fatto della coscienza. Per ciò che riguarda in primo luogo il pensare,
Reinhold pone, come è già stato ricordato sopra, l'errore fondamentale
di tutta la filosofia moderna nel pregiudizio fondamentale e nella cattiva abitudine
di assumere il pensare come un'attività meramente soggettiva, e domanda,
solo come tentativo, provvisoriamente, di astrarre per una volta da ogni soggettività
ed oggettività del pensare. Ma non è difficile vedere che dal
momento che il pensare viene posto nell'unità pura, cioè astraente
dalla materializzazione, dunque opposta, e poi, come è necessario, segue
a questa astrazione il postulato di una materia essenzialmente diversa ed indipendente
dal pensare, - quello stesso errore fondamentale e pregiudizio fondamentale
si fa innanzi in tutta la sua forza; qui il pensare è essenzialmente
non l'identità del soggetto e dell'oggetto, con la quale esso [88] è
caratterizzato come l'attività della ragione, e nel contempo viene astratto
da ogni soggettività ed oggettività per il fatto che è
insieme entrambe; bensì l'oggetto è una materia postulata per
il pensare, e per questo il pensare non è altro che un pensare soggettivo.
Dunque anche se si volesse fare a questa richiesta il piacere di astrarre dalla
soggettività del pensare, e di porlo come al contempo soggettivo e oggettivo,
e quindi insieme senza nessuno di questi predicati, questo non è concesso,
ma il pensare viene determinato come un soggettivo mediante l'opposizione di
un oggettivo, e l'opposizione assoluta diviene il tema e principio della filosofia
caduta nella riduzione mediante la logica. Secondo questo principio allora viene
a cadere anche la sintesi; essa è espressa con un termine popolare come
un'applicazione, ed anche in questa misera figura, per la quale non può
ottenere molto da due assolutamente opposti al sintetizzare, essa non concorda
con il fatto che il primo tema della filosofia deve essere un comprensibile;
infatti anche la scadente sintesi dell'applicare contiene un passaggio dell'unità
nel molteplice, un'unificazione del pensare e della materia, dunque include
in sé un cosiddetto incomprensibile; per poterli sintetizzare, pensiero
e materia non dovrebbero essere posti come assolutamente opposti, ma come originariamente
uno, e così ci troveremmo nell'incresciosa identità del soggetto
e dell'oggetto, nell'intuizione trascendentale, nel pensare intellettuale. Eppure
Reinhold in questa esposizione preliminare ed introduttiva non ha addotto tutto
ciò che nel Compendio di logica può servire per l'attenuazione
di quel tipo di difficoltà che si trova nell'opposizione assoluta; infatti
il Compendio postula, oltre alla materia postulata e alla sua dedotta molteplicità,
anche un'interna capacità e disposizione della materia ad essere pensata;
accanto alla materializzazione, che nel pensare deve essere annientata, ancora
qualcosa che non si lascia annientare dal pensare, che non mancherebbe nemmeno
alle percezioni dei cavalli: una forma indipendente dal pensare, con la quale,
poiché secondo la legge della natura la forma non si lascia distruggere
dalla forma, la forma del pensare si deve congiungere; - oltre all'impensabile
materializzazione, alla cosa in sé, un contenuto assoluto e rappresentabile
che è indipendente dal rappresentante, ma nella rappresentazione è
posto in relazione con la forma. Reinhold chiama sempre questo porre in relazione
la forma con il contenuto applicazione del pensare, ed evita l'espressione:
rappresentare, che Bardili usa per esso. È stato infatti affermato che
il Compendio di logica non è altro che la filosofia elementare riscaldata.
Non sembra che si sia attribuita a Reinhold l'intenzione di aver voluto reintrodurre
la filosofia [89] elementare, non più richiesta dal pubblico filosofico,
nel mondo filosofico in questa forma appena modificata, ma piuttosto che lo
schietto accogliere ed il puro apprendere la logica sia inconsapevolmente andato
a scuola proprio da se stesso; Reinhold nei Contributi oppone a questa visione
della cosa i seguenti argomenti: che Egli, in primo luogo, anziché cercare
nel Compendio di logica la sua filosofia elementare, "ha visto in esso
la parentela con l'idealismo, e, proprio a causa dell'amaro scherno con cui
Bardili cita in ogni occasione la Teoria reinholdiana, vi ha supposto piuttosto
qualsiasi altra filosofia; - che le parole rappresentazione, rappresentato e
semplice rappresentazione ecc. si presentano nel Compendio interamente in un
senso che è completamente opposto a quello in cui sono state usate dall'autore
della filosofia elementare, ciò che Egli deve ben sapere nel migliore
dei modi; - con l'affermazione che quel Compendio, anche solo in un qualsiasi
pensabile senso, sia una rielaborazione della reinholdiana filosofia elementare,
colui che afferma ciò dimostra evidentemente che non ha capito ciò
che giudica." Sul primo argomento, l'amaro scherno, non è il caso
di soffermarsi oltre; gli altri sono affermazioni, la cui validità risulterà
da un breve confronto dei momenti fondamentali della Teoria con il Compendio.
Secondo la Teoria appartiene al rappresentare, come condizione interna, parte
essenziale della rappresentazione, a) un contenuto della rappresentazione, ciò
che è dato alla recettività, la cui forma è la molteplicità;
b) una forma della rappresentazione, ciò che è prodotto mediante
la spontaneità, la cui forma è l'unità. Nella Logica a)
un pensare, un'attività il cui carattere fondamentale è unità,
b) una materia, il cui carattere è molteplicità, c) il porre entrambi
in relazione reciproca si chiama, nella Teoria e nella Logica, rappresentare,
solo che Reinhold dice sempre applicazione del pensare; forma e contenuto, pensare
e materia sono in entrambi gli scritti per se stessi sussistenti. Per ciò
che ancora riguarda la materia, a) una parte di essa, nella Teoria e nella Logica,
è la cosa in sé; nella Teoria l'oggetto stesso, in quanto non
è rappresentabile, ma può essere negato tanto poco quanto gli
stessi oggetti rappresentabili; nella Logica la materializzazione che deve essere
annientata nel pensare, il non pensabile nella materia. [90] b) L'altra parte
dell'oggetto è nella Teoria il celebre contenuto della rappresentazione;
nella Logica la forma indipendente dal pensare e indistruttibile dell'oggetto,
con la quale la forma del pensare deve congiungersi, perché la forma
non può annientare la forma. Ed il pensare deve precipitarsi nella vita
al di là di questa bipartizione dell'oggetto, - da un lato in una assoluta
materializzazione per il pensare, con la quale il pensare non può congiungersi,
anzi non sa far altro che annientarla, cioè astrarne, - dall'altro in
una costituzione che giunge di nuovo all'oggetto indipendentemente da ogni pensare,
ma in una forma che rende l'oggetto adatto ad essere pensato, con cui il pensare
deve congiungersi come meglio può; - nella filosofia il pensare giunge
con il collo rotto dal salto in una tale assoluta dualità, una dualità
che può cambiare infinitamente le sue forme, ma genera sempre una e la
stessa non-filosofia. In questa teoria nuovamente esposta della sua propria
dottrina Reinhold, non diversamente da quell'uomo che con la massima soddisfazione
veniva ospitato, senza saperlo, dalla propria cantina, trova tutte le speranze
ed i desideri giunti ad esaudimento, le rivoluzioni filosofiche finite con il
nuovo secolo, così che d'ora in poi può immediatamente cominciare
la pace perpetua filosofica nella riduzione universalmente valida della filosofia
mediante la logica. Reinhold comincia il nuovo lavoro in questa vigna filosofica,
come sempre il Politisches Journal cominciava ognuno dei suoi pezzi, con il
racconto che le cose sono andate diversamente ed ancora diversamente da come
egli aveva predetto - " diversamente - da come egli aveva annunciato all'inizio
della rivoluzione; diversamente, da come a metà di essa aveva cercato
di promuoverne lo svolgimento; - diversamente, da come verso la sua fine riteneva
raggiunta la sua meta; - egli chiede, se non si illuda per la quarta volta?
". Del resto se la quantità delle illusioni può facilitare
il calcolo della verosimiglianza e può venire in considerazione riguardo
a ciò che di solito si chiama un'autorità, allora nei Contributi
prima di questa illusione, che non dovrebbe essere reale, ed in aggiunta a quelle
tre note se ne possono enumerare ancora parecchie; - infatti secondo pag. 126
Reinhold ha dovuto lasciare per sempre il punto di vista intermedio tra le filosofie
fichtiana e jacobiana, che credeva di aver trovato - - egli credeva, sperava
ecc. (pag. 129) che l'essenziale della filosofia bardiliana si lasciasse ricondurre
all'essenziale della fichtiana e viceversa; e presso Bardili mirò con
tutta serietà a convincerlo che era un idealista, ma non solo non fu
possibile convincere Bardili, al contrario Reinhold fu costretto dalle lettere
di Bardili (pag. 130) ad abbandonare l'idealismo in generale; [91] - poiché
il tentativo con Bardili era fallito, raccomandò vivamente ed insistentemente
il Compendio a Fichte (pag. 163) al che esclama: "che trionfo per la buona
causa se Fichte superando il baluardo del significato letterale proprio e di
Lei (di Bardili) penetrasse fino all'unità con Lei!" - Ciò
che è accaduto, è noto. Infine anche riguardo alle considerazioni
storiche non si può dimenticare che le cose stanno diversamente da come
Reinhold pensasse, quando credeva di vedere in una parte del sistema schellinghiano
l'intero sistema, e riteneva questa filosofia ciò che abitualmente si
chiama idealismo. Su ciò che infine accadrà della riduzione logica
della filosofia, non è facile predire qualcosa; l'invenzione per restare
al di fuori dalla filosofia, eppure filosofare, è troppo utile perché
non si dovesse desiderarla, solo che essa porta con sé il suo proprio
giudizio; cioè poiché essa tra molte possibili forme del punto
di vista della riflessione ne deve scegliere una qualunque, sta ad ogni piacimento
di procurarsene un'altra; qualcosa del genere significa poi sostituire un vecchio
sistema mediante un nuovo sistema, e deve significare ciò, perché
la forma della riflessione deve essere presa per l'essenza del sistema; così
anche lo stesso Reinhold ha potuto vedere nella logica di Bardili un sistema
diverso dalla sua teoria. La tendenza al fondamento, che cerca di ricondurre
la filosofia alla logica, deve, come una manifestazione che si fissa di un lato
dell'universale bisogno della filosofia, assumere il suo posto oggettivo necessario
e determinato nella molteplicità degli sforzi della cultura, che si pongono
in relazione alla filosofia, ma si danno una figura fissa prima di giungere
alla filosofia stessa. L'assoluto nella linea del suo sviluppo, che egli produce
fino al compimento di se stesso, deve nel contempo fermarsi in ogni punto ed
organizzarsi in una figura; ed in questa molteplicità esso si manifesta
come formante se stesso. Se il bisogno della filosofia non raggiunge il centro
della filosofia, esso mostra separati i due lati dell'assoluto, che è
insieme interno ed esterno, essenza e manifestazione; in particolare l'essenza
interna e la manifestazione esterna. La manifestazione esterna per sé
diviene la totalità assoluto-oggettiva, la molteplicità dispersa
nell'infinito, che nello sforzo verso la quantità infinita rivela la
sua inconscia connessione con l'assoluto; e si deve rendere giustizia all'affaticarsi
non scientifico, per il fatto che esso percepisce il bisogno di una totalità
nella misura in cui si sforza di estendere all'infinito l'empirico, anche se
proprio per ciò alla fine il contenuto diviene necessariamente molto
rarefatto. Questo affaticarsi con l'infinito contenuto oggettivo [92] fa del
polo opposto il polo della densità, che si sforza di rimanere nell'interna
essenza, e a causa della contrazione della suo puro contenuto non può
uscire nell'espansione scientifica. Quello, il primo polo, mediante un infinito
affaccendarsi porta nella morte dell'essenza che esso tratta non certo la vita,
ma almeno un movimento; e se le Danaidi non giungono mai alla pienezza a causa
dell'eterno defluire dell'acqua, invece quegli sforzi non vi giungono in quanto
con il costante aggiungere danno al loro mare un'ampiezza infinita; se non ottengono
la soddisfazione di non trovare più nulla che non sia bagnato, proprio
in ciò l'affaccendarsi trova eterno nutrimento sulla smisurata superficie;
stando fermo al detto comune, che nell'interno della natura non penetra alcuno
spirito creato, esso rinuncia a creare lo spirito e un interno e ad animare
il morto facendone natura. - La gravità interiore dell'entusiasta sognatore
invece disprezza l'acqua, mediante il cui ingresso nella densità essa
potrebbe cristallizzarsi in una figura; l'impeto fermentante che nasce dalla
necessità della natura di produrre una figura respinge la possibilità
di tale figura e risolve la natura in spiriti; la plasma in figure prive di
forma, o, se la riflessione è preponderante sulla fantasia, sorge un
autentico scetticismo. Un falso centro tra i due poli è costituito da
una filosofia popolare e formulistica, che non ha compreso nessuno dei due,
e perciò crede di poterli accontentare in quanto il principio di ognuno
dei due rimane nella sua essenza, e mediante una modificazione entrambi si piegano
l'uno nell'altro; essa non prende in sé entrambi i poli, bensì
l'essenza di entrambi le scompare in una modificazione superficiale ed in un'unificazione
per semplice vicinanza, ed essa è estranea ad entrambi come alla filosofia.
Essa ha dal polo della dispersione il principio dell'opposizione, ma gli opposti
non devono essere mere manifestazioni e concetti procedenti all'infinito, bensì
Uno di essi deve essere anche un infinito ed incomprensibile; così dovrebbe
venir soddisfatto il bisogno di un soprasensibile del sognatore entusiasta.
Ma il principio della dispersione disdegna il soprasensibile, come il principio
della fantasia esaltata disdegna l'opposizione del soprasensibile ed un qualche
sussistere di un limitato accanto ad esso. Allo stesso modo ogni apparenza di
un centro, che la filosofia popolare dà al suo principio dell'assoluta
non-identità di un finito e di un infinito, vien rigettata dalla filosofia,
che mediante l'assoluta identità innalza alla vita la morte degli scissi,
e mediante la ragione, che li intreccia entrambi in sé e maternamente
li pone come uguali, si sforza di raggiungere la coscienza di questa identità
del finito e dell'infinito, cioè il sapere e la verità.