Biblioteca Multimediale Marxista
Lo spunto per queste note è stato dato dalla pubblicazione, avvenuta
nel Quarto stato del 18 settembre, di un articolo sul problema meridionale,
firmato Ulenspiegel,(2) che la redazione della rivista ha fatto precedere da
un esordio alquanto buffo. Ulenspiegel dà notizia, nel suo articolo,
del recente libro di Guido Dorso (La Rivoluzione meridionale, edit. Piero Gobetti,
Torino 1925) e accenna al giudizio che il Dorso ha dato intorno all’atteggiamento
del nostro partito sulla questione del Mezzogiorno; nel suo esordio, la redazione
del Quarto stato, che si proclama costituita di "giovani che conoscono
perfettamente nelle sue linee generali (sic) il problema meridionale”,
protesta collettivamente per il fatto che si possano riconoscere dei “meriti”
al Partito comunista. E fin qui niente di male; i giovani del tipo Quarto stato,
hanno, in ogni tempo e luogo, fatto sopportare alla carta ben altre opinioni
e proteste, senza che la carta si ribellasse. Ma poi questi “giovani”
aggiungono testualmente: “Non abbiamo dimenticato che la formula magica
dei comunisti torinesi era: dividere il latifondo tra i proletari rurali. Quella
formula è agli antipodi con ogni sana realistica visione del problema
meridionale”. E qui occorre mettere le cose a posto, poiché di
“magico” esiste solo l’improntitudine e il superficiale dilettantismo
dei “giovani” scrittori del Quarto stato.
(1) Questo saggio, pubblicato qui sulla base del manoscritto conservato nell’Archivio del PCI, fu pubblicato per la prima volta a Parigi nel gennaio 1930 su Lo Stato operaio, preceduto dalla seguente nota: “Nel 1926 nei mesi che precedettero immediatamente il suo arresto, il compagno Gramsci preparava la pubblicazione di una rivista ideologica del nostro partito. La questione meridionale sarebbe stata da lui esaminata nei primi numeri della rivista in una serie di articoli che egli aveva ormai pronti e che lesse ad alcuni compagni della Centrale del partito. Pubblichiamo oggi uno di questi articoli, così come è venuto in nostro possesso, dopo mille vicende. Lo scritto non è completo e, probabilmente, sarebbe stato ancora ritoccato dall’autore qua e là...”. Gli altri articoli cui si accenna non sono stati trovati.
(2) Pseudonimo di Tommaso Fiore, collaboratore di Rivoluzione liberale.
La “formula magica” è inventata di sana
pianta. Devono avere ben poca stima dei loro intellettualissimi lettori i “giovani”
del Quarto stato se osano con tanta loquace sicumera simili capovolgimenti della
verità. Ecco, infatti, un brano dell’Ordine Nuovo (numero 3, gennaio
1920) nel quale è riassunto il punto di vista dei comunisti torinesi:
La borghesia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole
e le ha ridotte a colonie di sfruttamento; il proletariato settentrionale, emancipando
se stesso dalla schiavitù capitalistica, emanciperà le masse contadine
meridionali asservite alla banca e all’industrialismo parassitario del
Settentrione. La rigenerazione economica e politica dei contadini non deve essere
ricercata in una divisione delle terre incolte e mal coltivate, ma nella solidarietà
del proletariato industriale, che ha bisogno, a sua volta, della solidarietà
dei contadini, che ha “interesse” acché il capitalismo non
rinasca economicamente dalla proprietà terriera e ha interesse acché
l’Italia meridionale e le isole non diventino una base militare di controrivoluzione
capitalista. Imponendo il controllo operaio sull’industria, il proletariato
rivolgerà l’industria alla produzione di macchine agricole per
i contadini, di stoffe e calzature per i contadini, di energia elettrica per
i contadini; impedirà che più oltre l’industria e la banca
sfruttino i contadini e li soggioghino come schiavi alle loro casseforti. Spezzando
l’autocrazia nella fabbrica, spezzando l’apparato oppressivo dello
Stato capitalistico, instaurando lo Stato operaio che soggioghi i capitalisti
alla legge del lavoro utile, gli operai spezzeranno tutte le catene che tengono
avvinghiato il contadino alla sua miseria, alla sua disperazione; instaurando
la dittatura operaia, avendo in mano le industrie e le banche, il proletariato
rivolgerà l’enorme potenza dell’organizzazione statale per
sostenere i contadini nella loro lotta contro i proprietari, contro la natura,
contro la miseria; darà il credito ai contadini, istituirà le
cooperative, garantirà la sicurezza personale e dei beni contro i saccheggiatori,
farà le opere pubbliche di risanamento e di irrigazione. Farà
tutto questo perché è suo interesse dare incremento alla produzione
agricola, perché è suo interesse avere e conservare la solidarietà
delle masse contadine, perché è suo interesse rivolgere la produzione
industriale a lavoro utile di pace e di fratellanza fra città e campagna,
tra Settentrione e Mezzogiorno.(3)
(3) Cfr. Operai e contadini, in Ordine Nuovo 1919-1920, Einaudi, Torino 1954, pp. 317-18.
Ciò è stato scritto nel gennaio 1920. Sono passati
sette anni e noi siamo più anziani di sette anni anche politicamente;
qualche concetto potrebbe essere oggi espresso meglio, potrebbe e dovrebbe essere
meglio distinto il periodo immediatamente successivo alla conquista dello Stato,
caratterizzato dal semplice controllo operaio sull’industria, dai periodi
successivi. Ma quello che importa notare qui è che il concetto fondamentale
dei comunisti torinesi non è stato la “formula magica” della
divisione del latifondo, ma quello della alleanza politica tra operai del Nord
e contadini del Sud per rovesciare la borghesia dal potere di Stato: non solo,
ma proprio i comunisti torinesi (che pure sostenevano, come subordinata all’azione
solidale delle due classi, la divisione delle terre) mettevano in guardia contro
le illusioni “miracoliste” sulla spartizione meccanica dei latifondi.
Nello stesso articolo del 3 gennaio 1920 è scritto:
Cosa ottiene un contadino povero invadendo una terra incolta o mal coltivata?
Senza macchine, senza un’abitazione sul luogo di lavoro, senza credito
per attendere il tempo del raccolto, senza istituzioni cooperative che acquistino
il raccolto stesso (se il contadino arriva al raccolto senza prima essersi impiccato
al più forte arbusto delle boscaglie o al meno tisico fico selvatico
della terra incolta!) e lo salvino dalle grinfie degli usurai, cosa può
ottenere un contadino povero dall’invasione?
E tuttavia noi eravamo per la formula molto realistica e per nulla “magica”
della terra ai contadini; ma volevamo che essa fosse inquadrata in una azione
rivoluzionaria generale delle due classi alleate, sotto la direzione del proletariato
industriale. Gli scrittori del Quarto stato hanno inventato di sana pianta la
“formula magica” attribuita ai comunisti torinesi, dimostrando così
la loro poca serietà di pubblicisti e il loro poco scrupolo di intellettuali
da farmacia di villaggio; e anche questi sono elementi politici che pesano e
portano conseguenze.
Nel campo proletario, i comunisti torinesi hanno avuto un “merito”
incontestabile: di aver imposto la questione meridionale all’attenzione
dell’avanguardia operaia, prospettandola come uno dei problemi essenziali
della politica nazionale del proletariato rivoluzionario. In questo senso essi
hanno contribuito praticamente a far uscire la questione meridionale dalla sua
fase indistinta, intellettualistica, cosiddetta “concretista”, per
farla entrare in una fase nuova. L’operaio rivoluzionario di Torino e
di Milano diventava il protagonista della questione meridionale e non più
i Giustino Fortunato, i Gaetano Salvemini, gli Eugenio Azimonti, gli Arturo
Labriola, per non citare che i nomi dei santoni cari ai “giovani”
del Quarto stato.
I comunisti torinesi si erano posti concretamente la questione dell’“egemonia
del proletariato”, cioè della base sociale della dittatura proletaria
e dello Stato operaio. Il proletariato può diventare classe dirigente
e dominante nella misura in cui riesce a creare un sistema di alleanze di classi
che gli permetta di mobilitare contro il capitalismo e lo Stato borghese la
maggioranza della popolazione lavoratrice, ciò che significa, in Italia,
nei reali rapporti di classe esistenti in Italia, nella misura in cui riesce
a ottenere il consenso delle larghe masse contadine. Ma la questione contadina
in Italia è storicamente determinata, non è la “questione
contadina e agraria in generale”; in Italia la questione contadina ha,
per la determinata tradizione italiana, per il determinato sviluppo della storia
italiana, assunto due forme tipiche e peculiari, la questione meridionale e
la questione vaticana. Conquistare la maggioranza delle masse contadine significa
dunque, per il proletariato italiano, far proprie queste due questioni dal punto
di vista sociale, comprendere le esigenze di classe che esse rappresentano,
incorporare queste esigenze nel suo programma rivoluzionario di transizione,
porre queste esigenze tra le sue rivendicazioni di lotta.
Il primo problema da risolvere, per i comunisti torinesi, era quello di modificare
l’indirizzo politico e l’ideologia generale del proletariato stesso,
come elemento nazionale che vive nel complesso della vita statale e subisce
inconsapevolmente l’influenza della scuola, del giornale, della tradizione
borghese. È noto quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare
dai propagandisti della borghesia nelle masse del Settentrione: il Mezzogiorno
è la palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo
civile dell’Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori,
dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno
è arretrato, la colpa non è del sistema capitalista o di qualsivoglia
altra causa storica, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci,
criminali, barbari, temperando questa sorte matrigna con l’esplosione
puramente individuale di grandi geni, che sono come le solitarie palme in un
arido e sterile deserto. Il Partito socialista fu in gran parte il veicolo di
questa ideologia borghese nel proletariato settentrionale; il Partito socialista
diede il suo crisma a tutta la letteratura “meridionalista” della
cricca di scrittori della cosiddetta scuola positiva, come i Ferri, i Sergi,
i Niceforo, gli Orano e i seguaci minori, che in articoli, in bozzetti, in novelle,
in romanzi, in libri di impressioni e di ricordi ripetevano in diverse forme
lo stesso ritornello; ancora una volta la “scienza” era rivolta
a schiacciare i miseri e gli sfruttati, ma questa volta essa si ammantava dei
colori socialisti, pretendeva essere la scienza del proletariato.
I comunisti torinesi reagirono energicamente contro questa ideologia, proprio
a Torino, dove i racconti e le descrizioni dei veterani della guerra contro
il “brigantaggio” nel Mezzogiorno e nelle Isole avevano maggiormente
influenzato la tradizione e lo spirito popolare. Reagirono energicamente, in
forme pratiche, riuscendo ad ottenere risultati concreti di grandissima portata
storica, riuscendo ad ottenere, proprio a Torino, embrioni di quella che sarà
la soluzione del problema meridionale.
D’altronde, già prima della guerra, si era verificato a Torino
un episodio che conteneva in potenza tutta l’azione e la propaganda svolte
nel dopoguerra dai comunisti. Quando, nel 1914, per la morte di Pilade Gay,
rimase vacante il IV Collegio della città e fu posta la questione del
nuovo candidato, un gruppo della sezione socialista, del quale facevano parte
i futuri redattori dell’Ordine Nuovo, ventilò il progetto di presentare
come candidato Gaetano Salvemini. Il Salvemini era allora l’esponente
più avanzato in senso radicale della massa contadina del Mezzogiorno.
Egli era fuori del Partito socialista, anzi conduceva contro il Partito socialista
una campagna vivacissima e pericolosissima, perché le sue affermazioni
e le sue accuse, nella massa lavoratrice meridionale, diventavano causa di odio
non solo contro i Turati, i Treves, i D’Aragona ma contro il proletariato
industriale nel suo complesso. (Molte delle pallottole che le guardie regie
scaricarono nel ‘19, ‘20, ‘21, ‘22 contro gli operai
erano fuse dello stesso piombo che servì a stampare gli articoli del
Salvemini). Tuttavia questo gruppo torinese voleva fare un’affermazione
sul nome del Salvemini, nel senso che al Salvemini stesso fu esposto dal compagno
Ottavio Pastore recatosi a Firenze per avere il consenso alla candidatura: “Gli
operai di Torino vogliono eleggere un deputato per i contadini pugliesi. Gli
operai di Torino sanno che nelle elezioni generali del 1913, i contadini di
Molfetta e di Bitonto erano, nella loro stragrande maggioranza, favorevoli al
Salvemini; la pressione amministrativa del governo Giolitti e la violenza dei
mazzieri e della polizia ha impedito ai contadini pugliesi di esprimersi. Gli
operai di Torino non domandano impegni di sorta al Salvemini, né di partito,
né di programma, né di disciplina al gruppo parlamentare; una
volta eletto il Salvemini si richiamerà ai contadini pugliesi, non agli
operai di Torino, i quali faranno la propaganda elettorale secondo i loro principi
e non saranno per nulla impegnati dall’attività politica del Salvemini”.
Il Salvemini non volle accettare la candidatura, quantunque fosse rimasto scosso
e persino commosso dalla proposta (in quel tempo non si parlava ancora di “perfidia”
comunista, e i costumi erano onesti e lieti); egli propose Mussolini come candidato
e si impegnò a venire a Torino per sostenere il Partito socialista nella
lotta elettorale. Tenne infatti due comizi grandiosi alla Camera del lavoro
e in piazza Statuto, tra la massa che vedeva ed applaudiva in lui il rappresentante
dei contadini meridionali oppressi e sfruttati in forme ancora più odiose
e bestiali che il proletariato settentrionale.
L’indirizzo, potenzialmente contenuto in questo episodio, che non ebbe
sviluppi maggiori solo per la volontà del Salvemini, fu ripreso e applicato
dai comunisti nel periodo del dopoguerra. Vogliamo ricordare i fatti più
salienti e sintomatici.
Nel 1919 si formò l’associazione della “Giovane Sardegna”,(4)
esordio e premessa di quel che sarà più tardi il Partito sardo
d’azione. La “Giovane Sardegna” si proponeva di unire tutti
i sardi dell’isola e del continente in un blocco regionale capace di esercitare
un’utile pressione sul governo per ottenere che fossero mantenute le promesse
fatte durante la guerra ai soldati; l’organizzatore della “Giovane
Sardegna” nel continente era un tale professor Pietro Nurra, socialista,
che molto probabilmente oggi fa parte del gruppo di “giovani” che
nel Quarto stato scopre ogni settimana qualche nuovo orizzonte da esplorare.
Vi aderivano con l’entusiasmo che crea ogni nuova probabilità di
pescar croci, commende e medaglini, avvocati, professori, funzionari. L’assemblea
costituente, convocata a Torino per i sardi abitanti nel Piemonte, riuscì
imponente per il numero degli intervenuti. Era in maggioranza povera gente,
popolani senza qualifica distinguibile, manovali d’officina, piccoli pensionati,
ex carabinieri, ex guardie carcerarie, ex soldati di finanza che esercitavano
piccoli negozi svariatissimi; tutti erano entusiasmati dall’idea di ritrovarsi
tra compaesani, di sentire discorsi sulla loro terra alla quale continuavano
ad essere legati da innumerevoli fili di parentele, di amicizie, di ricordi,
di sofferenze, di speranze: la speranza di ritornare al loro paese, ma ad un
paese più prospero e ricco, che offrisse le condizioni di vivere, sia
pure modestamente.
(4) Movimento fondato da Emilio Lussu.
I comunisti sardi, in numero preciso di otto, si recarono
alla riunione, presentarono alla presidenza una loro mozione, domandarono di
fare una controrelazione. Dopo il discorso infiammato e retorico del relatore
ufficiale, adorno di tutte le veneri e gli amorini dell’oratoria regionalistica,
dopo che gli intervenuti avevano pianto ai ricordi dei dolori passati e del
sangue versato in guerra dai reggimenti sardi, e si erano entusiasmati fino
al delirio all’idea del blocco compatto di tutti i figli generosi della
Sardegna, era molto difficile “piazzare” la controrelazione; le
previsioni più ottimistiche erano se non il linciaggio, per lo meno una
passeggiata fino in questura dopo essere stati salvati dalle conseguenze del
“nobile sdegno della folla”. La controrelazione, se suscitò
una enorme stupefazione, fu però ascoltata con attenzione, e una volta
rotto l’incanto, rapidamente, se pur metodicamente, si giunse alla conclusione
rivoluzionaria. Il dilemma: siete voi, poveri diavoli di sardi, per un blocco
coi signori di Sardegna che vi hanno rovinato e sono i sorveglianti locali dello
sfruttamento capitalistico, o siete per un blocco con gli operai rivoluzionari
del continente, che vogliono abbattere tutti gli sfruttamenti ed emancipare
tutti gli oppressi? — questo dilemma fu fatto penetrare nei cervelli dei
presenti. Il voto per divisione fu un formidabile successo: da una parte un
gruppetto di signori sgargianti, di funzionari in tuba, di professionisti lividi
dalla rabbia e dalla paura con una quarantina di poliziotti per contorno di
consenso, e dall’altra tutta la moltitudine dei poveri diavoli e delle
donnette vestite da festa intorno alla piccolissima cellula comunista. Un’ora
dopo, alla Camera del lavoro era costituito il Circolo educativo socialista
sardo con 256 inscritti; la costituzione della “Giovane Sardegna”
fu rinviata sine die e non ebbe mai luogo.
Fu questa la base politica dell’azione condotta fra i soldati della brigata
Sassari, brigata a composizione quasi totalmente regionale. La brigata Sassari
aveva partecipato alla repressione del moto insurrezionale di Torino dell’agosto
1917; si era sicuri che essa non avrebbe mai fraternizzato con gli operai per
i ricordi di odio che ogni repressione lascia nella folla anche contro gli strumenti
materiali della repressione e nei reggimenti per il ricordo dei soldati caduti
sotto i colpi degli insorti. La brigata fu accolta da una folla di signori e
signore che offrivano ai soldati fiori, sigari, frutta. Lo stato d’animo
dei soldati è caratterizzato da questo racconto di un operaio conciatore
di Sassari, addetto ai primi sondaggi di propaganda: “Mi sono avvicinato
a un bivacco di piazza X (i soldati sardi nei primi giorni bivaccarono nelle
piazze come in una città conquistata) e ho parlato con un giovane contadino
che mi aveva accolto cordialmente perché di Sassari come lui. “Cosa
siete venuti a fare a Torino?”. “Siamo venuti a sparare contro i
signori che fanno sciopero”. “Ma non sono i signori quelli che fanno
sciopero, sono gli operai e sono poveri”. “Qui sono tutti signori:
hanno il colletto e la cravatta: guadagnano 30 lire al giorno. I poveri io li
conosco e so come sono vestiti, a Sassari, sì, ci sono molti poveri;
tutti “gli zappatori” siamo poveri e guadagniamo 1,50 al giorno”.
“Ma anche io sono operaio e sono povero”. “Tu sei povero perché
sei sardo”. “Ma se io faccio sciopero con gli altri sparerai contro
di me?”. Il soldato rifletté un poco poi mettendomi una mano sulla
spalla: “Senti, quando fai sciopero con gli altri, resta a casa!”.
Era questo lo spirito della stragrande maggioranza della brigata che contava
solo un piccolo numero di operai minatori del bacino di Iglesias. Eppure, dopo
pochi mesi, alla vigilia dello sciopero generale del 20-21 luglio, la brigata
fu allontanata da Torino, i soldati anziani furono congedati e la formazione
divisa in tre: un terzo fu mandato ad Aosta, un terzo a Trieste, un terzo a
Roma. La brigata fu fatta partire di notte, all’improvviso; nessuna folla
elegante li applaudiva alla stazione; i loro canti se erano anch’essi
guerrieri, non avevano più lo stesso contenuto di quelli cantati all’arrivo.
Questi avvenimenti sono rimasti senza conseguenze? No, essi hanno avuto risultati
che ancora oggi sussistono e continuano ad operare nella profondità della
massa popolare. Essi hanno illuminato per un momento cervelli che non avevano
mai pensato in quella direzione e che sono rimasti impressionati, modificati
radicalmente. I nostri archivi sono andati dispersi; molte carte sono state
da noi stessi distrutte per non provocare arresti e persecuzioni. Ma noi ricordiamo
decine e centinaia di lettere giunte dalla Sardegna alla redazione torinese
de l’Avanti!; lettere spesso collettive, spesso firmate da tutti gli ex
combattenti della Sassari di un determinato paese. Per vie incontrollate e incontrollabili,
l’atteggiamento politico da noi sostenuto si diffondeva; la formazione
del Partito sardo d’azione ne fu fortemente influenzata alla base, e sarebbe
possibile ricordare a questo proposito episodi ricchi di contenuto e di significato.
L’ultima ripercussione controllata di questa azione la si ebbe nel 1922,
quando, con gli stessi propositi che per la brigata Sassari, furono inviati
a Torino 300 carabinieri della legione di Cagliari. Ricevemmo, alla redazione
dell’Ordine Nuovo, una dichiarazione di principio, firmata da una grandissima
parte di questi carabinieri; essa echeggiava di tutta la nostra impostazione
del problema meridionale, essa era la prova decisiva della giustezza del nostro
indirizzo.
Il proletariato doveva fare suo questo indirizzo per dargli
efficienza politica: ciò è sottinteso. Nessuna azione di massa
è possibile se la massa stessa non è convinta dei fini che vuole
raggiungere e dei metodi da applicare. Il proletariato, per essere capace di
governare come classe, deve spogliarsi di ogni residuo corporativo, di ogni
pregiudizio o incrostazione sindacalista. Cosa significa ciò? Che non
solo devono essere superate le distinzioni che esistono tra professione e professione,
ma che occorre, per conquistarsi la fiducia e il consenso dei contadini e di
alcune categorie semiproletarie della città, superare alcuni pregiudizi
e vincere certi egoismi che possono sussistere e sussistono nella classe operaia
come tale anche quando nel suo seno sono spariti i particolarismi di professione.
Il metallurgico, il falegname, l’edile, ecc. devono non solo pensare come
proletari e non più come metallurgico, falegname, edile, ecc., ma devono
fare ancora un passo avanti: devono pensare come operai membri di una classe
che tende a dirigere i contadini e gli intellettuali, di una classe che può
vincere e può costruire il socialismo solo se aiutata e seguita dalla
grande maggioranza di questi strati sociali. Se non si ottiene ciò, il
proletariato non diventa classe dirigente, e questi strati, che in Italia rappresentano
la maggioranza della popolazione, rimanendo sotto la direzione borghese, danno
allo Stato la possibilità di resistere all’impeto proletario e
di fiaccarlo.
Ebbene: ciò che si è verificato nel terreno della questione meridionale,
dimostra che il proletariato ha compreso questi suoi doveri. Due fatti sono
da ricordare, uno verificatosi a Torino, l’altro a Reggio Emilia, cioè
nella cittadella del riformismo, del corporativismo di classe, del protezionismo
operaio portato ad esempio dai “meridionalisti” nella loro propaganda
tra i contadini del Sud.
Dopo l’occupazione delle fabbriche, la direzione della Fiat fece la proposta
agli operai di assumere la gestione dell’azienda in forma di cooperativa.
Come è naturale, i riformisti erano favorevoli. Si profilava una crisi
industriale, lo spettro della disoccupazione angosciava le famiglie operaie.
Se la Fiat diventava cooperativa, una certa sicurezza dell’impiego avrebbe
potuto essere acquistata dalla maestranza e specialmente dagli operai politicamente
più attivi, che erano persuasi di essere destinati al licenziamento.
La sezione socialista guidata dai comunisti intervenne energicamente nella questione.
Fu detto agli operai : una grande azienda cooperativa come la Fiat può
essere assunta dagli operai, solo se gli operai sono decisi a entrare nel sistema
di forze politiche borghesi che oggi governa l’Italia. La proposta della
direzione della Fiat rientra nel piano politico giolittiano. In che consiste
questo piano? La borghesia, già prima della guerra, non poteva più
governare tranquillamente. L’insurrezione dei contadini siciliani nel
1894 e l’insurrezione di Milano nel 1898 furono l’experimentum crucis
della borghesia italiana. Dopo il decennio sanguinoso 1890-1900, la borghesia
dovette rinunciare ad una dittatura troppo esclusivista, troppo violenta, troppo
diretta: insorgevano contro di lei simultaneamente, se anche non coordinatamente,
i contadini meridionali e gli operai settentrionali. Nel nuovo secolo la classe
dominante inaugurò una nuova politica di alleanze di classe, di blocchi
politici di classe, cioè di democrazia borghese. Doveva scegliere: o
una democrazia rurale, cioè un’alleanza con i contadini meridionali,
una politica di libertà doganale, di suffragio universale, di decentramento
amministrativo, di bassi prezzi nei prodotti industriali, o un blocco industriale
capitalista-operaio, senza suffragio universale, per il protezionismo doganale,
per il mantenimento dell’accentramento statale (espressione del dominio
borghese sui contadini, specialmente del Mezzogiorno e delle Isole), per una
politica riformistica dei salari e delle libertà sindacali. Scelse, non
a caso, questa seconda soluzione. Giolitti impersonò il dominio borghese,
il Partito socialista divenne lo strumento della politica giolittiana. Se osservate
bene, nel decennio 1900-1910 si verificano le crisi più radicali nel
movimento socialista e operaio: la massa reagisce spontaneamente contro la politica
dei capi riformisti. Nasce il sindacalismo, che è l’espressione
istintiva, elementare, primitiva, ma sana, della reazione operaia contro il
blocco con la borghesia e per un blocco con i contadini e in primo luogo con
i contadini meridionali. Proprio così : anzi, in un certo senso, il sindacalismo
è un debole tentativo dei contadini meridionali, rappresentati dai loro
intellettuali più avanzati, di dirigere il proletariato. Da chi è
costituito il nucleo dirigente del sindacalismo italiano, quale è l’essenza
ideologica del sindacalismo italiano? Il nucleo dirigente del sindacalismo è
costituito di meridionali quasi esclusivamente: Labriola, Leone, Longobardi,
Orano. L’essenza ideologica del sindacalismo è un nuovo liberalismo
più energico, più aggressivo, più pugnace di quello tradizionale.
Se osservate bene due sono i motivi fondamentali intorno ai quali avvengono
le crisi successive del sindacalismo e il passaggio graduale dei dirigenti sindacalisti
nel campo borghese: l’emigrazione e il libero scambio, due motivi strettamente
legati al meridionalismo. Il fatto dell’emigrazione fa nascere la concezione
della “nazione proletaria " di Enrico Corradini; la guerra libica
appare a tutto uno strato di intellettuali come l’inizio dell’offensiva
del “grande proletariato” contro il mondo capitalistico e plutocratico.
Tutto un gruppo di sindacalisti passa al nazionalismo, anzi il Partito nazionalista
viene costituito originariamente da intellettuali ex sindacalisti (Monicelli,
Forges-Davanzati, Maraviglia). Il libro di Labriola Storia di 10 anni (i dieci
anni dal ‘900 al ‘910) è l’espressione più tipica
e caratteristica di questo neoliberalismo antigiolittiano e meridionalista.
In questi dieci anni il capitalismo si rafforza e si sviluppa, e riversa una
parte della sua attività nell’agricoltura della Valle Padana. Il
tratto più caratteristico di questi dieci anni sono gli scioperi di massa
degli operai agricoli della Valle Padana. Un profondo rivolgimento avviene tra
i contadini settentrionali, si verifica una profonda differenziazione di classe
(il numero dei braccianti aumenta del 50 per cento, secondo i dati del censimento
del 1911), e ad essa corrisponde una rielaborazione delle correnti politiche
e degli atteggiamenti spirituali. La democrazia cristiana e il mussolinismo
sono i due prodotti più salienti dell’epoca: la Romagna è
il crogiolo regionale di queste due nuove attività, il bracciante pare
essere diventato il protagonista sociale della lotta politica. La democrazia
sociale nei suoi organismi di sinistra (l’Azione, di Cesena) e anche il
mussolinismo cadono rapidamente sotto il controllo dei “meridionalisti”.
L’Azione di Cesena è una edizione regionale de l’Unità
di Gaetano Salvemini. L’Avanti! diretto dal Mussolini, lentamente, ma
sicuramente, si viene trasformando in una palestra per gli scrittori sindacalisti
e meridionalisti. I Fancello, i Lanzillo, i Panunzio, i Ciccotti ne diventano
assidui collaboratori; lo stesso Salvemini non nasconde le sue simpatie per
Mussolini, che diventa anche un beniamino della Voce di Prezzolini. Tutti ricordano
che in realtà, quando Mussolini esce dall’Avanti! e dal Partito
socialista, egli è circondato da questa coorte di sindacalisti e di meridionalisti.
La ripercussione più notevole di questo periodo nel campo rivoluzionario
è la settimana rossa del giugno 1914: la Romagna e le Marche sono l’epicentro
della settimana rossa. Nel campo della politica borghese la ripercussione più
notevole è il patto Gentiloni. Poiché il Partito socialista per
effetto dei movimenti agrari della Valle Padana, era ritornato dopo il 1910
alla tattica intransigente, il blocco industriale, sostenuto e rappresentato
da Giolitti, perde la sua efficienza; Giolitti muta spalla al suo fucile; alla
alleanza tra borghesi e operai sostituisce l’alleanza tra borghesi e cattolici,
che rappresentano le masse contadine dell’Italia settentrionale e centrale.
Per questa alleanza il partito conservatore di Sonnino viene completamente distrutto
conservando una sua piccolissima cellula solo nell’Italia meridionale,
intorno ad Antonio Salandra. La guerra e il dopoguerra hanno visto svolgersi
una serie di processi molecolari nella classe borghese della più alta
importanza. Salandra e Nitti furono i primi due capi di governo meridionali
(per non parlare dei siciliani, naturalmente, come Crispi, che fu il più
energico rappresentante della dittatura borghese nel secolo XIX) e cercarono
di attuare il piano borghese industriale-agrario meridionale, nel terreno conservatore
il Salandra, nel terreno democratico il Nitti (tutti e due questi capi di governo
furono aiutati solidamente dal Corriere della Sera, cioè dall’industria
tessile lombarda). Già durante la guerra, il Salandra cercò di
spostare a favore del Mezzogiorno le forze tecniche dell’organizzazione
statale, cioè di sostituire al personale giolittiano dello Stato, un
nuovo personale che incarnasse il nuovo corso politico della borghesia. Voi
ricordate la campagna condotta dalla Stampa, specialmente nel 1917-18 per una
stretta collaborazione tra giolittiani e socialisti per impedire la “pugliesizzazione”
dello Stato; quella campagna fu condotta nella Stampa da Francesco Ciccotti,
cioè era di fatto una espressione dell’accordo esistente tra Giolitti
e i riformisti. La questione non era da poco, e i giolittiani, nel loro accanimento
difensivo, giunsero fino ad oltrepassare i limiti consentiti a un partito della
grande borghesia, giunsero fino a quelle manifestazioni di antipatriottismo
e di disfattismo, che sono nella memoria di tutti. Oggi Giolitti è nuovamente
al potere, nuovamente la grande borghesia si affida a lui, per il panico che
la invade innanzi all’impetuoso movimento delle masse popolari. Giolitti
vuole addomesticare gli operai di Torino. Li ha battuti due volte: nello sciopero
dell’aprile scorso e nell’occupazione delle fabbriche con l’aiuto
della Confederazione generale del lavoro, cioè del riformismo corporativo.
Ritiene ora di poterli inquadrare nel sistema borghese statale. Infatti, che
avverrà se le maestranze Fiat accettano le proposte della direzione?
Le attuali azioni industriali diventeranno obbligazioni, cioè la cooperativa
dovrà pagare ai portatori di obbligazioni un dividendo fisso, qualunque
sia il giro degli affari. L’azienda Fiat sarà taglieggiata in tutti
i modi dagli istituti di credito, che rimangono in mano ai borghesi, i quali
hanno l’interesse a ridurre gli operai alla loro discrezione. Le maestranze
necessariamente dovranno legarsi allo Stato, il quale “verrà in
aiuto agli operai” attraverso l’opera dei deputati operai, attraverso
la subordinazione del partito politico operaio alla politica governativa. Ecco
il piano di Giolitti nella sua piena applicazione. Il proletariato torinese
non esisterà più come classe indipendente, ma solo come una appendice
dello Stato borghese. Il corporativismo di classe avrà trionfato, ma
il proletariato avrà perduto la sua posizione e il suo ufficio di dirigente
e di guida; esso apparirà alle masse degli operai più poveri come
un privilegiato, apparirà ai contadini come uno sfruttatore alla stessa
stregua dei borghesi, perché la borghesia, come ha sempre fatto, presenterà
alle masse contadine i nuclei operai privilegiati come l’unica causa dei
loro mali e della loro miseria.
Le maestranze della Fiat accettarono quasi all’unanimità il nostro
punto di vista e le proposte della direzione furono respinte. Ma questo esperimento
non poteva essere sufficiente. Il proletariato torinese, con tutta una serie
di azioni, aveva dimostrato di avere raggiunto un altissimo grado di maturità
e capacità politica. I tecnici e gli impiegati d’officina, nel
1919, poterono migliorare le condizioni solo perché appoggiati dagli
operai. Per stroncare l’agitazione dei tecnici, gli industriali proposero
agli operai di nominare essi stessi, elettivamente, nuovi capisquadra e capireparto;
gli operai respinsero la proposta, quantunque avessero parecchie ragioni di
conflitto coi tecnici che erano sempre stati uno strumento padronale di repressione
e di persecuzione. Allora i giornali fecero una furiosa campagna per isolare
i tecnici, mettendo in vista i loro altissimi salari, che raggiungevano fino
le 7000 lire al mese. Gli operai qualificati aiutarono l’agitazione dei
manovali, che solo così riuscirono a imporsi : nell’interno delle
fabbriche furono spazzati via tutti i privilegi e gli sfruttamenti delle categorie
più qualificate ai danni delle meno qualificate. Attraverso queste azioni
l’avanguardia proletaria si guadagnò la sua posizione sociale di
avanguardia; è stata questa la base di sviluppo del Partito comunista
a Torino. Ma fuori di Torino? Ebbene, noi volemmo di proposito portare la questione
fuori di Torino, e precisamente a Reggio Emilia, dove esisteva la maggiore concentrazione
di riformismo e di corporativismo di classe.
Reggio Emilia era sempre stato il bersaglio dei “meridionalisti”. Una frase di Camillo Prampolini: “L’Italia si divide in nordici e sudici”, era come l’espressione più caratteristica dell’odio violento che tra i meridionali si spargeva contro gli operai del nord. A Reggio Emilia si presentò una questione simile a quella della Fiat: una grande officina doveva passare nelle mani degli operai come azienda cooperativa. I riformisti reggiani erano entusiasti dell’avvenimento e lo strombazzavano nei loro giornali e nelle riunioni.(5) Un comunista torinese(6) si recò a Reggio, prese la parola nel comizio di fabbrica, espose tutto il complesso della questione tra Nord e Sud, e si ottenne il “miracolo”: gli operai, a grandissima maggioranza, respinsero la tesi riformista e corporativa. Fu dimostrato che i riformisti non rappresentavano lo spirito degli operai reggiani; ne rappresentavano solo la passività e altri lati negativi. Erano riusciti a instaurare un monopolio politico, data la notevole concentrazione nelle loro file di organizzatori e propagandisti d’un certo valore professionale, e quindi a impedire lo sviluppo e l’organizzazione di una corrente rivoluzionaria; ma era bastata la presenza di un rivoluzionario capace, per metterli in scacco e rivelare che gli operai reggiani sono dei valorosi combattenti e non dei porci allevati con la biada governativa.
(5) Cfr. Un asino bardato, in Socialismo e fascismo, Einaudi, Torino 1966, pp. 64-67.
(6) Si tratta di Umberto Terracini.
Nell’aprile 1921, 5000 operai rivoluzionari furono licenziati dalla Fiat, i Consigli di fabbrica furono aboliti, i salari reali furono abbassati.(7) A Reggio Emilia avvenne probabilmente qualcosa di simile. Gli operai cioè furono battuti. Ma il sacrificio che essi avevano fatto, è restato inutile? Non lo crediamo: siamo anzi sicuri che esso non è stato inutile. È certo difficile registrare tutta una fila di grandi avvenimenti di massa che provino l’efficacia immediata e fulminea di queste azioni. D’altronde, per ciò che riguarda i contadini, queste registrazioni sono sempre difficili e quasi impossibili; sono ancora più difficili per ciò che riguarda la massa contadina del Mezzogiorno.
(7) Cfr. L’avvento della democrazia industriale e Uomini in carne e ossa, in Socialismo e fascismo, Einaudi, Torino 1966, pp. 128-30, 154-56.
Il Mezzogiorno può essere definito una grande disgregazione
sociale; i contadini, che costituiscono la grande maggioranza della sua popolazione,
non hanno nessuna coesione tra loro (si capisce che occorre fare delle eccezioni:
la Puglia, la Sardegna, la Sicilia, dove esistono caratteristiche speciali nel
grande quadro della struttura meridionale). La società meridionale è
un grande blocco agrario costituito di tre strati sociali: la grande massa contadina
amorfa e disgregata, gli intellettuali della piccola e media borghesia rurale,
i grandi proprietari terrieri e i grandi intellettuali. I contadini meridionali
sono in perpetuo fermento, ma come massa essi sono incapaci di dare una espressione
centralizzata alle loro aspirazioni e ai loro bisogni. Lo strato medio degli
intellettuali riceve dalla base contadina le impulsioni per la sua attività
politica e ideologica. I grandi proprietari nel campo politico e i grandi intellettuali
nel campo ideologico centralizzano e dominano, in ultima analisi, tutto questo
complesso di manifestazioni. Come è naturale, è nel campo ideologico
che la centralizzazione si verifica con maggiore efficacia e precisione. Giustino
Fortunato e Benedetto Croce rappresentano perciò le chiavi di volta del
sistema meridionale e, in un certo senso, sono le due più grandi figure
della reazione italiana.
Gli intellettuali meridionali sono uno strato sociale dei più interessanti
e dei più importanti nella vita nazionale italiana. Basta pensare che
più di tre quinti della burocrazia statale è costituita di meridionali
per convincersene. Ora, per comprendere la particolare psicologia degli intellettuali
meridionali occorre tenere presenti alcuni dati di fatto:
1. In ogni paese lo strato degli intellettuali è stato radicalmente modificato
dallo sviluppo del capitalismo. Il vecchio tipo dell’intellettuale era
l’elemento organizzativo di una società a base contadina e artigiana
prevalentemente; per organizzare lo Stato, per organizzare il commercio la classe
dominante allevava un particolare tipo di intellettuali. L’industria ha
introdotto un nuovo tipo di intellettuale: l’organizzatore tecnico, lo
specialista della scienza applicata. Nelle società, dove le forze economiche
si sono sviluppate in senso capitalista, fino ad assorbire la maggior parte
dell’attività nazionale, è questo secondo tipo di intellettuale
che ha prevalso, con tutte le sue caratteristiche di ordine e disciplina intellettuale.
Nei paesi invece dove l’agricoltura esercita un ruolo ancora notevole
o addirittura preponderante, è rimasto in prevalenza il vecchio tipo,
che dà la massima parte del personale statale e che anche localmente,
nel villaggio e nel borgo rurale, esercita la funzione di intermediario tra
il contadino e l’amministrazione in generale. Nell’Italia meridionale
predomina questo tipo con tutte le sue caratteristiche: democratico nella faccia
contadina, reazionario nella faccia rivolta verso il grande proprietario e il
governo, politicante, corrotto, sleale; non si comprenderebbe la figura tradizionale
dei partiti politici meridionali, se non si tenesse conto dei caratteri di questo
strato sociale.
2. L’intellettuale meridionale esce prevalentemente da un ceto che nel
Mezzogiorno è ancora notevole: il borghese rurale, cioè il piccolo
e medio proprietario di terre che non è contadino, che non lavora la
terra, che si vergognerebbe di fare l’agricoltore ma che dalla poca terra
che ha, data in affitto o a mezzadria semplice, vuol ricavare: di che vivere
convenientemente, di che mandare all’università o in seminario
i figli, di che fare la dote alle figlie che devono sposare un ufficiale o un
funzionario civile dello Stato. Da questo ceto gli intellettuali ricevono un’aspra
avversione per il contadino lavoratore, considerato come una macchina da lavoro
che deve essere munta fino all’osso e che può essere sostituita
data la superpopolazione lavoratrice; ricavano anche il sentimento atavico e
istintivo della folle paura del contadino e delle sue violenze distruttrici
e quindi un abito di ipocrisia raffinata e una raffinatissima arte di ingannare
e addomesticare le masse contadine.
Poiché al gruppo sociale degli intellettuali appartiene il clero, occorre
notare le diversità di caratteristiche tra il clero meridionale nel suo
complesso e il clero settentrionale. Il prete settentrionale comunemente è
il figlio di un artigiano o di un contadino, ha sentimenti democratici, è
più legato alla massa dei contadini; moralmente è più corretto
del prete meridionale, il quale spesso convive quasi apertamente con una donna,
e perciò esercita un ufficio spirituale più completo socialmente,
cioè è un dirigente di tutta l’attività di una famiglia.
Nel Settentrione la separazione della Chiesa dallo Stato e l’espropriazione
dei beni ecclesiastici è stata più radicale che nel Mezzogiorno,
dove le parrocchie e i conventi o hanno conservato o hanno ricostituito notevoli
proprietà immobiliari e mobiliari. Nel Mezzogiorno il prete si presenta
al contadino: 1. come un amministratore di terre col quale il contadino entra
in conflitto per la questione degli affitti; 2. come un usuraio che domanda
elevatissimi tassi di interesse e fa giocare l’elemento religioso per
riscuotere sicuramente o l’affitto o l’usura; 3. come un uomo sottoposto
alle passioni comuni (donne e danaro) e che pertanto spiritualmente non dà
affidamento di discrezione e di imparzialità. La confessione esercita
perciò uno scarsissimo ufficio dirigente e il contadino meridionale,
se spesso è superstizioso in senso pagano, non è clericale. Tutto
questo complesso spiega il perché nel Mezzogiorno il Partito popolare
(eccettuata qualche zona della Sicilia) non abbia una posizione notevole, non
possieda nessuna rete di istituzioni e di organizzazioni di massa. L’atteggiamento
del contadino verso il clero è riassunto nel detto popolare: “Il
prete è prete sull’altare; fuori è un uomo come tutti gli
altri”.
Il contadino meridionale è legato al grande proprietario terriero per
il tramite dell’intellettuale. I movimenti dei contadini, in quanto si
riassumono non in organizzazioni di massa autonome e indipendenti, sia pure
formalmente (cioè capaci di selezionare quadri contadini di origine contadina
e di registrare e accumulare le differenziazioni e i progressi che nel movimento
si realizzano) finiscono col sistemarsi sempre nelle ordinarie articolazioni
dell’apparato statale — comuni, province, Camera dei deputati —
attraverso composizioni e scomposizioni dei partiti locali, il cui personale
è costituito di intellettuali, ma che sono controllati dai grandi proprietari
e dai loro uomini di fiducia, come Salandra, Orlando, Di Cesarò. La guerra
parve introdurre un elemento nuovo in questo tipo di organizzazione col movimento
degli ex combattenti, nel quale i contadini-soldati e gli intellettuali-ufficiali
formavano un blocco più unito tra di loro e in una certa misura antagonista
rispetto ai grandi proprietari. Non durò a lungo, e l’ultimo residuo
di esso è l’Unione nazionale concepita da Amendola, che ha una
larva di esistenza per il suo antifascismo; tuttavia, data la nessuna tradizione
di organizzazione esplicita degli intellettuali democratici nel Mezzogiorno,
anche questo aggruppamento deve essere rilevato e tenuto da conto, perché
può diventare, da tenuissimo filo di acqua, un limaccioso e gonfio torrente
in mutate condizioni di politica generale. La sola regione dove il movimento
degli ex combattenti assunse un profilo più preciso e riuscì a
crearsi una struttura sociale più solida, è la Sardegna. E si
capisce: appunto perché in Sardegna la classe dei grandi proprietari
terrieri è tenuissima, non svolge nessuna funzione e non ha le antichissime
tradizioni culturali e governative del Mezzogiorno continentale. La spinta dal
basso, esercitata dalle masse dei contadini e dei pastori, non trova un contrappeso
soffocante nel superiore strato sociale dei grandi proprietari; gli intellettuali
dirigenti subiscono in pieno la spinta e fanno dei passi in avanti più
notevoli che l’Unione nazionale. La situazione siciliana ha caratteri
differenziali molto profondi sia dalla Sardegna che dal Mezzogiorno. I grandi
proprietari vi sono molto più coesi e decisi che nel Mezzogiorno continentale;
vi esiste inoltre una certa industria e un commercio sviluppato (la Sicilia
è la più ricca regione di tutto il Mezzogiorno e una delle più
ricche d’Italia); le classi superiori sentono moltissimo la loro importanza
nella vita nazionale e la fanno pesare. La Sicilia e il Piemonte sono le due
regioni che hanno dato maggior numero di dirigenti politici allo Stato italiano,
sono le due regioni che hanno esercitato un ufficio preminente dal 1870 in poi.
Le masse popolari siciliane sono più avanzate che nel Mezzogiorno, ma
il loro progresso ha assunto una forma tipicamente siciliana: esiste un socialismo
di massa siciliano che ha tutta una tradizione e uno sviluppo peculiare; nella
Camera del 1922 esso contava circa 20 deputati su 52 che ne erano eletti nell’isola.
Abbiamo detto che il contadino meridionale è legato al grande proprietario
terriero per il tramite dell’intellettuale. Questo tipo di organizzazione
è il tipo più diffuso in tutto il Mezzogiorno continentale e in
Sicilia. Esso realizza un mostruoso blocco agrario che nel suo complesso funziona
da intermediario e da sorvegliante del capitalismo settentrionale e delle grandi
banche. Il suo unico scopo è di conservare lo statu quo. Nel suo interno
non esiste nessuna luce intellettuale, nessun programma, nessuna spinta a miglioramenti
e progressi. Se qualche idea e qualche programma è stato affermato, essi
hanno avuto la loro origine fuori del Mezzogiorno, nei gruppi politici agrari
conservatori, specialmente della Toscana, che nel Parlamento erano consorziati
ai conservatori del blocco agrario meridionale. Il Sonnino e il Franchetti furono
dei pochi borghesi intelligenti che si posero il problema meridionale come problema
nazionale e tracciarono un piano di governo per la sua soluzione. Quale fu il
punto di vista di Sonnino e di Franchetti? La necessità di creare nell’Italia
meridionale uno strato medio indipendente di carattere economico che funzionasse,
come allora si diceva, da “opinione pubblica” e limitasse i crudeli
arbitrii dei proprietari da una parte e moderasse l’insurrezionalismo
dei contadini poveri dall’altra. Sonnino e Franchetti erano rimasti spaventatissimi
della popolarità che avevano nel Mezzogiorno le idee del bakunismo della
I Internazionale. Questo loro spavento fece loro prendere degli abbagli spesso
grotteschi. In una loro pubblicazione, per esempio, si accenna al fatto che
una osteria o una trattoria popolare di un paese della Calabria (citiamo a memoria)
è intitolata agli “scioperanti”, per dimostrare quanto diffuse
e radicate fossero le idee internazionalistiche. Il fatto, se vero (come deve
essere vero, data la probità intellettuale degli autori) si spiega più
semplicemente, ricordando come nel Mezzogiorno siano numerose le colonie di
Albanesi e come la parola skipetari abbia subito nei dialetti le deformazioni
più strane e curiose (così in alcuni documenti della Repubblica
veneta si parla di formazioni militari di e “S’ciopetà”).
Ora nel Mezzogiorno non tanto erano diffuse le teorie del Bakunin, quanto la
situazione stessa era tale da aver probabilmente suggerito al Bakunin le sue
teorie: certamente i contadini poveri meridionali pensavano allo “sfascio”
molto prima che il cervello di Bakunin avesse escogitato la teoria della “pandistruzione”.
Il piano governativo di Sonnino e Franchetti non ebbe mai neanche l’inizio
di una attuazione. E non poteva averlo. Il nodo di rapporti tra Settentrione
e Mezzogiorno nell’organizzazione dell’economia nazionale e dello
Stato, è tale per cui la nascita di una classe media diffusa di natura
economica (ciò che significa poi la nascita di una borghesia capitalista
diffusa) è resa quasi impossibile. Ogni accumulazione di capitali sul
luogo e ogni accumulazione di risparmi è resa impossibile dal sistema
fiscale e doganale e dal fatto che i capitalisti proprietari di aziende non
trasformano sul posto il profitto in nuovo capitale perché non sono del
posto. Quando l’emigrazione assunse nel secolo XX le forme gigantesche
che assunse, e le prime rimesse cominciarono ad affluire dall’America,
gli economisti liberali gridarono trionfalmente: — Il sogno di Sonnino
si avvera. Una silenziosa rivoluzione si verifica nel Mezzogiorno che, lentamente
ma sicuramente, muterà tutta la struttura economica e sociale del paese
—. Ma lo Stato intervenne e la rivoluzione silenziosa fu soffocata nel
nascere. Il governo offri dei buoni del tesoro ad interesse certo e gli emigranti
e le loro famiglie da agenti della rivoluzione silenziosa si mutarono in agenti
per dare allo Stato i mezzi finanziari per sussidiare le industrie parassitarie
del nord. Francesco Nitti, nel piano democratico e formalmente fuori del blocco
agrario meridionale, poteva sembrare un fattivo realizzatore del programma di
Sonnino, fu invece il migliore agente del capitalismo settentrionale per rastrellare
le ultime risorse del risparmio meridionale. I miliardi inghiottiti dalla Banca
di sconto erano quasi tutti dovuti al Mezzogiorno: i 400.000 creditori della
Banca italiana di sconto erano in grandissima maggioranza risparmiatori meridionali.
Al disopra del blocco agrario funziona nel Mezzogiorno un blocco intellettuale
che praticamente ha servito finora a impedire che le screpolature del blocco
agrario divenissero troppo pericolose e determinassero una frana. Esponenti
di questo blocco intellettuale sono Giustino Fortunato e Benedetto Croce, i
quali, perciò, possono essere giudicati come i reazionari più
operosi della penisola.
Abbiamo detto che l’Italia meridionale è una grande disgregazione
sociale. Questa formula oltre che ai contadini si può riferire anche
agli intellettuali. È notevole il fatto che nel Mezzogiorno, accanto
alla grandissima proprietà, siano esistite ed esistano grandi accumulazioni
culturali e di intelligenza in singoli individui o in ristretti gruppi di grandi
intellettuali, mentre non esiste una organizzazione della cultura media. Esiste
nel Mezzogiorno la casa editrice Laterza e la rivista la Critica, esistono accademie
e imprese culturali di grandissima erudizione; non esistono piccole e medie
riviste, non esistono case editrici intorno a cui si raggruppino formazioni
medie di intellettuali meridionali. I meridionali che hanno cercato di uscire
dal blocco agrario e di impostare la questione meridionale in forma radicale
hanno trovato ospitalità e si sono raggruppati intorno a riviste stampate
fuori del Mezzogiorno. Si può dire anzi che tutte le iniziative culturali
dovute agli intellettuali medi che hanno avuto luogo nel XX secolo nell’Italia
centrale e settentrionale furono caratterizzate dal meridionalismo, perché
fortemente influenzate da intellettuali meridionali: tutte le riviste del gruppo
di intellettuali fiorentini, Voce, Unità; le riviste dei democratici
cristiani, come l’Azione di Cesena; le riviste dei giovani liberali emiliani
e milanesi di G. Borelli, come la Patria di Bologna o l’Azione di Milano;
infine la Rivoluzione liberale di Gobetti. Orbene: supremi moderatori politici
e intellettuali di tutte queste iniziative sono stati Giustino Fortunato e Benedetto
Croce. In una cerchia più ampia di quella molto soffocante del blocco
agrario, essi hanno ottenuto che l’impostazione dei problemi meridionali
non soverchiasse certi limiti, non diventasse rivoluzionaria. Uomini di grandissima
cultura e intelligenza, sorti sul terreno tradizionale del Mezzogiorno ma legati
alla cultura europea e quindi mondiale, essi avevano tutte le doti per dare
una soddisfazione ai bisogni intellettuali dei più onesti rappresentanti
della gioventù colta del Mezzogiorno, per consolarne le irrequiete velleità
di rivolta contro le condizioni esistenti, per indirizzarli secondo una linea
media di serenità classica del pensiero e dell’azione. I cosiddetti
neoprotestanti o calvinisti non hanno capito che in Italia, non potendoci essere
una riforma religiosa di massa, per le condizioni moderne della civiltà,
si è verificata la sola riforma storicamente possibile con la filosofia
di Benedetto Croce: è stato mutato l’indirizzo e il metodo del
pensiero, è stata costruita una nuova concezione del mondo che ha superato
il cattolicismo e ogni altra religione mitologica. In questo senso Benedetto
Croce ha compiuto una altissima funzione “nazionale”, ha distaccato
gli intellettuali radicali del Mezzogiorno dalle masse contadine, facendoli
partecipare alla cultura nazionale ed europea, e attraverso questa cultura li
ha fatti assorbire dalla borghesia nazionale e quindi dal blocco agrario.
L’Ordine Nuovo e i comunisti torinesi, se in un certo senso possono essere
collegati alle formazioni intellettuali cui abbiamo accennato e se pertanto
hanno anch’essi subito l’influenza intellettuale di Giustino Fortunato
e di Benedetto Croce, rappresentano però nello stesso tempo una rottura
completa con quella tradizione e l’inizio di un nuovo svolgimento, che
ha già dato dei frutti e che ancora ne darà. Essi, come è
stato già detto, hanno posto il proletariato urbano come protagonista
moderno della storia italiana e quindi della questione meridionale. Avendo servito
da intermediari tra il proletariato e determinati strati di intellettuali di
sinistra, sono riusciti a modificare, se non completamente, certo notevolmente
l’indirizzo mentale di essi. È questo l’elemento principale
della figura di Piero Gobetti, se ben si riflette. Il quale non era un comunista
e probabilmente non lo sarebbe mai diventato, ma aveva capito la posizione sociale
e storica del proletariato e non riusciva più a pensare astraendo da
questo elemento. Gobetti, nel lavoro comune del giornale, era stato da noi posto
a contatto con un mondo vivente che aveva prima conosciuto solo attraverso le
formule dei libri. La sua caratteristica più rilevante era la lealtà
intellettuale e l’assenza completa di ogni vanità e piccineria
di ordine inferiore: perciò non poteva non convincersi come tutta una
serie di modi di vedere e di pensare tradizionali verso il proletariato erano
falsi e ingiusti. Quale conseguenza ebbero in Gobetti questi contatti col mondo
proletario? Essi furono l’origine e l’impulso per una concezione
che non vogliamo discutere e approfondire, una concezione che in gran parte
si riattacca al sindacalismo e al modo di pensare dei sindacalisti intellettuali;
i principi del liberalismo vengono in essa proiettati dall’ordine dei
fenomeni individuali a quello dei fenomeni di massa. Le qualità di eccellenza
e di prestigio nella vita degli individui vengono trasportate nelle classi,
concepite quasi come individualità collettive. Questa concezione di solito
porta negli intellettuali che la condividono alla pura contemplazione e registrazione
dei meriti e dei demeriti, a una posizione odiosa e melensa di arbitri tra le
contese, di assegnatori dei premi e delle punizioni. Praticamente il Gobetti
sfuggì a questo destino. Egli si rivelò un organizzatore della
cultura di straordinario valore ed ebbe in questo ultimo periodo una funzione
che non deve essere né trascurata né sottovalutata dagli operai.
Egli scavò una trincea oltre la quale non arretrarono quei gruppi di
intellettuali più onesti e sinceri che nel 1919-20-21 sentirono che il
proletariato come classe dirigente sarebbe stato superiore alla borghesia. Alcuni
in buona fede e onestamente, altri in cattivissima fede e disonestamente andarono
ripetendo che il Gobetti era nient’altro che un comunista camuffato, un
agente se non del Partito comunista, per lo meno del gruppo comunista dell’Ordine
Nuovo. Non occorre neanche smentire tali insulse dicerie. La figura di Gobetti
e il movimento da lui rappresentato furono spontanee produzioni del nuovo clima
storico italiano: in ciò è il loro significato e la loro importanza.
Ci è stato qualche volta rimproverato da compagni di partito di non aver
combattuto contro la corrente di idee di Rivoluzione liberale: questa assenza
di lotta anzi sembrò la prova del collegamento organico, di carattere
machiavellico (come si suol dire) tra noi e il Gobetti. Non potevamo combattere
contro Gobetti perché egli svolgeva e rappresentava un movimento che
non deve essere combattuto, almeno in linea di principio. Non comprendere ciò
significa non comprendere la questione degli intellettuali e la funzione che
essi svolgono nella lotta delle classi. Gobetti praticamente ci serviva di collegamento:
1. con gli intellettuali nati sul terreno della tecnica capitalistica che avevano
assunto una posizione di sinistra, favorevole alla dittatura del proletariato
nel 1919-20; 2. con una serie di intellettuali meridionali che, per collegamenti
più complessi, ponevano la questione meridionale su un terreno diverso
da quello tradizionale, introducendovi il proletariato del Nord: di questi intellettuali
Guido Dorso è la figura più completa e interessante. Perché
avremmo dovuto lottare contro il movimento di Rivoluzione liberale? forse perché
esso non era costituito di comunisti puri che avessero accettato dall’A
alla Z il nostro programma e la nostra dottrina? Questo non poteva essere domandato
perché sarebbe stato politicamente e storicamente un paradosso. Gli intellettuali
si sviluppano lentamente, molto più lentamente di qualsiasi altro gruppo
sociale, per la stessa loro natura e funzione storica. Essi rappresentano tutta
la tradizione culturale di un popolo, vogliono riassumerne e sintetizzarne tutta
la storia: ciò sia detto specialmente del vecchio tipo di intellettuale,
dell’intellettuale nato sul terreno contadino. Pensare possibile che esso
possa, come massa, rompere con tutto il passato per porsi completamente sul
terreno di una nuova ideologia, è assurdo. È assurdo per gli intellettuali
come massa, e forse assurdo anche per moltissimi intellettuali presi individualmente,
nonostante tutti gli onesti sforzi che essi fanno e vogliono fare. Ora a noi
interessano gli intellettuali come massa, e non solo come individui. È
certo importante e utile per il proletariato che uno o più intellettuali,
individualmente, aderiscano al suo programma e alla sua dottrina, si confondano
nel proletariato, ne diventino e se ne sentano parte integrante. Il proletariato,
come classe, è povero di elementi organizzativi, non ha e non può
formarsi un proprio strato di intellettuali che molto lentamente, molto faticosamente
e solo dopo la conquista del potere statale. Ma è anche importante e
utile che nella massa degli intellettuali si determini una frattura di carattere
organico, storicamente caratterizzata; che si formi, come formazione di massa,
una tendenza di sinistra, nel significato moderno della parola, cioè
orientata verso il proletariato rivoluzionario. L’alleanza tra proletariato
e masse contadine esige questa formazione; tanto più la esige l’alleanza
tra il proletariato e le masse contadine del Mezzogiorno. Il proletariato distruggerà
il blocco agrario meridionale nella misura in cui riuscirà, attraverso
il suo partito, ad organizzare in formazioni autonome e indipendenti, sempre
più notevoli masse di contadini poveri; ma riuscirà in misura
più o meno larga in tale suo compito obbligatorio anche subordinatamente
alla sua capacità di disgregare il blocco intellettuale che è
l’armatura flessibile ma resistentissima del blocco agrario. Per la soluzione
di questo compito il proletariato è stato aiutato da Piero Gobetti e
noi pensiamo che gli amici del morto continueranno, anche senza la sua guida,
l’opera intrapresa che è gigantesca e difficile, ma appunto degna
di tutti i sacrifici (anche della vita, come è stato nel caso del Gobetti)
da parte di quegli intellettuali (e sono molti, più di quanto si creda)
settentrionali e meridionali che hanno compreso essere essenzialmente nazionali
e portatrici dell’avvenire due sole forze sociali: il proletariato e i
contadini.