Biblioteca Multimediale Marxista
Tratto dagli ati del processo "Conti"
OPUSCOLO N° 20
BILANCIO DEL DIBATTITO E TESI DI RIFONDAZIONE DELL’IMPIANTO POLITICO GENERALE
Per capire la natura ed i caratteri dell’offensiva antiproletaria
e controrivoluzionaria dello stato, che dall’80 in poi caratterizza le
politiche della borghesia nostrana, è necessario far riferimento alla
crisi di sovrapproduzione assoluta di capitali che da oltre un decennio lacera
il sistema capitalistico occidentale. Questa crisi ha carattere strutturale
e generale ed investe, con diversi gradi di profondità ed intensità,
tutti i paesi a capitalismo avanzato, mettendo in discussione il modello di
sviluppo e l’equilibrio del sistema di relazioni internazionali seguito
alla seconda guerra mondiale.
Il riflesso politico istituzionale di questa crisi è leggibile in una
ridefinizione in senso reazionario dei rapporti sociali, ossia in una ristrutturazione
complessiva dei caratteri della mediazione politica tra i vari partiti da una
parte, e tra proletariato e borghesia dall’altra, che va nel senso di
una maggior esecutivizzazione e centralizzazione dell’apparato politico
di governo della società, funzionale alle scelte necessarie ed obbligate
che la crisi comporta, tanto in politica interna che in quella estera.
In linea con le direttive di marcia a livello internazionale dettate soprattutto
dall'amministrazione reaganiana, nel nostro paese, i caratteri di questo riadeguamento,
vedono da un lato il riacutizzarsi della lotta tra le diverse frazioni di borghesia,
e quindi delle loro rappresentanze partitiche per la conquista del ruolo di
leadership e, dall’altro, l’attacco più incisivo al proletariato,
alle sue lotte, alle sue conquiste, alle sue rappresentanze istituzionali e
rivoluzionarie.
La sconfitta politica del proletariato è una condizione essenziale e
necessaria per l’avanzamento dei progetti borghesi di ristrutturazione
economica e di maggior protagonismo nell’ambito dell’alleanza imperialista
occidentale. Per questo le varie "emergenze" a cui siamo abituati
da molti anni a questa parte non sono altro che l’esigenza da parte dello
Stato di reprimere e contenere preventivamente l’esplosione di un conflitto
sociale provocato dalle politiche necessarie alla borghesia per far fronte alla
crisi. E’ la ristrettezza delle scelte che la borghesia si trova di fronte
che le impone, pur nelle oscillazioni, di imboccare la strada di governare senza
consenso e assottigliare l’ambito della mediazione politica. Per la borghesia
il problema è quello di limitare i danni sociali che la liquidazione
dello "Stato assistenziale" comporta. Per questo la classe deve essere
necessariamente sconfitta, perché alla crisi economica non se ne aggiunga
una politica, creando una miscela esplosiva, pericolosa e di difficile superamento.
E allora la logica delle “emergenze” coniata per il “terrorismo”
con buona pace di tutti gli opportunisti, si rivela per quella che è,
ridefinizione complessiva dei rapporti tra classe e stato, tale da consolidare
a favore della borghesia i rapporti di forza e sancire la sconfitta storica
della classe.
E’ in questo quadro che va analizzata la sconfitta dell’82 e gli
errori dell‘avanguardia comunista in Italia. Errori che hanno favorito
e permesso la controffensiva dello Stato, portato alla sconfitta delle OCC e
del movimento rivoluzionario. Sconfitta che ha contribuito a spingere sulla
difensiva la lotta proletaria. Fuori da questo quadro d'insieme, il necessario
processo autocritico non può che essere caratterizzato da una logica
sbagliata, dominata dalla ricerca degli errori soggettivi col metodo del purismo
teorico e dogmatico, privata cioè del necessario riferimento al processo
storico specifico della nostra esperienza. Le BR per la costruzione del PCC
hanno lavorato e combattuto in questi ultimi anni, per il riadeguamento teorico
e politico col massimo di rigore critico necessario a sfrondare, dalla ricca
esperienza de1 movimento rivoluzionario nel nostro paese, tutte quelle deviazioni
antimarxiste ed idealiste che hanno costituito il maggior puntello allo svilimento
della teoria e della pratica delle organizzazioni combattenti, tanto da distruggerne
la gran parte e ridimensionare drasticamente il peso e la credibilità
politica della nostra stessa organizzazione.
In questa ricostruzione autocritica va fatta una premessa fondamentale, pena
l’annullamento di 15 anni di lotta rivoluzionaria: la sconfitta riguarda
le posizioni soggettiviste ed antimarxiste che, seppure dominanti, non sono
riuscite ad invalidate la necessità e l’adeguatezza storica della
lotta armata per il comunismo come unica strategia per la conquista del potere
politico e l’instaurazione della dittatura del proletariato, in questa
fase di scontro tra le classi. In particolare non vanno confuse le BR con l’insieme
del “combattentismo” degli anni ‘70, e questo a partire dall'evidenziazione
delle finalità della progettualità e delle discriminanti strategiche
che hanno contraddistinto la nostra Organizzazione da tutto il resto.
Per le BR la lotta armata per il comunismo, fondata rigidamente su discriminanti
marxiste—leniniste, come strategia politico militare per la conquista
de potere politico, è stata ed è basata sulla costante ricerca
teorico—pratica dell’applicazione del marxismo e degli insegnamenti
dell'esperienza storica del proletariato rivoluzionario internazionale, adeguata,
in questa fase storica, a dare prospettiva e direzione allo scontro di classe
e rappresentanza politica rivoluzionaria agli interessi generali del proletariato
di contro allo Stato, e alle politiche imperialiste.
Per le BR la lotta armata per il comunismo è stata ed è una strategia
tesa non già alla conquista di questo o quel bisogno proletario o alla
legittimazione estremista e velleitaria dell’uso della violenza e di forme
di lotta dura, ma un piano generale per il raggiungimento dell’obiettivo
strategico della prima tappa del processo rivoluzionario: il potere politico.
La nostra strategia politica ha sempre giustamente rifiutato il sostegno di
un modo di concepire la teoria marxista—leninista dome corpo dottrinario
privo di vita, ossia non verificabile entro lo scontro ultracentenario che oppone
il proletariato alla borghesia e che da questo scontro ha trovato genesi ed
approfondimento.
La costante battaglia politica all’interno delle BR e all’esterno,
pur nei limiti e inadeguatezze, fa giustizia di ogni analisi piatta e liquidatoria
riferita ad una presunta erroneità che accomuna l’insieme delle
"esperienze guerrigliere" nel nostro paese e precisa, secondo il principio
rivoluzionario di critica—autocritica—trasformazione, gli obiettivi
del nostro processo autocritico, rifuggendo cioè sia da una riproposizione
sotto altre forme di tesi già sconfitte e risultate sbagliate, sia da
una rilettura opportunistica della nostra esperienza, filtrandola e depurandola
tramite il purismo teorico dogmatico.
Questi due atteggiamenti sono stati entrambi presenti in questi tre anni difficili
e contraddittori di lavoro rivoluzionario, dando corpo a posizioni ultrasoggettiviste
e dogmatiche, entrambe incapaci di risolvere i problemi che questo dibattito
ha posto e pone.
La nostra Organizzazione lanciando all'indomani della “liberazione”
del criminale Dozier, la parola d’ordine della ritirata strategica, aveva
ben presenti tutti i pericoli di aprire, in presenza di una controffensiva dello
Stato senza precedenti, lo spazio sia all’opportunismo che all’avventurismo.
Questi pericoli non hanno però invalidato la giustezza e la necessità
di chiamare i comunisti ed i rivoluzionari a centrare il dibattito sulla ricerca
degli errori e a ritirarsi da posizioni politiche affatto avanzate e non più
sostenibili. Gran parte delle organizzazioni combattenti, “Partito Guerriglia”
in testa, espressione più esemplare del soggettivismo idealista, incapaci
di affrontare i difficili compiti che un'autocritica sempre comporta, sono state
rapidamente distrutte e oggi alcuni loro massimi teorici costituiscono il fronte
avanzato e variegato della cosiddetta “soluzione politica” e della
"pacificazione", in nome della condanna unanime apparentemente solo
della lotta armata, in realtà della lotta e degli interessi del proletariato.
La critica a fondo delle elucubrazioni degli ultrarivoluzionari alla Curcio
& C. e delle teorie del soggettivismo nostrano, sono da tempo patrimonio
delle BR e delle avanguardie rivoluzionarie, come testimonia, tra l’altro,
la prima parte del libro “Politica e rivoluzione” riferita al complesso
delirante d'analisi, riferimenti teorici e "progettualità"
dei fondatori del defunto “Partito Guerriglia”. Uno dei comuni denominatori
che oggi divide il campo proletario dai novelli apologeti della borghesia è
una rilettura “autocritica” dell’esperienza del movimento
rivoluzionario in Italia da un punto di vista individualistico e non già
d'organizzazione, dando prova di disponibilità allo stato di condividere
una logica che da sempre la borghesia ha tentato di far passare. E cioè
quella per cui la lotta rivoluzionaria non è altro che la sommatoria
di comportamenti di singoli individui o piccoli gruppi, e di singoli atti “criminali”
o "devianti" variamente legittimati socialmente dal politologo o giudice
di turno. Legittimati socialmente perché sorti come "reazione"
ad uno Stato incapace di coglierne la compatibilità trasformatrice, non
tendente cioè alla distruzione dello Stato e alla conquista del potere
politico. I ragionamenti portati dai vari personaggi che vorrebbero suffragare
la tesi della sconfitta e dell’impossibilità —non necessità
stessa— della rivoluzione proletaria, non sono altro che i pietosi tentativi
dei nuovi servi sciocchi al servizio dei vari partiti, di fornire le loro squallide
“verità” in cambio della benevolenza dello Stato.
Questo mercato sulla pelle del proletariato ha da tempo definito l’inconciliabile
antagonismo tra due campi di interessi contrapposti, quello borghese e quello
proletario, e ha spuntato l’arma con cui la borghesia ha tentato di distruggere
l’identità politica della nostra esperienza, per bocca di più
o meno illustri ex—protagonisti di questi anni di lotta rivoluzionaria.
E questo perché visto che il proletariato non può dissociarsi
dalle sue condizioni di sfruttamento, anche le argomentazioni sorrette da più
o meno clamorose ricostruzioni complottarde, cessano di avere il peso lacerante
che i super esperti gli avevano assegnato con tanta speranza, chiarendo con
sempre maggior concretezza la necessità di una prospettiva unitaria che
guidi, la classe alla risoluzione del suo interesse generale, e cioè
l’alternativa proletaria e rivoluzionaria alla crisi della borghesia ed
alla guerra imperialista.
La fine miserevole di tutte le esperienze più o meno armate legate all’antimarxismo
piccolo borghese tanto in voga nel nostro paese, ha stabilito l’estraneità
totale tra chi lavora spalleggiato e foraggiato dalle varie consorterie che
si dividono e contendono il potere in Italia e chi pur con contraddizioni e
costante battaglia politica, lavora alla ricostruzione di un nuovo livello d'unità
dei comunisti e un nuovo livello di capacità politica in grado di dirigere
la classe nello scontro contro i progetti antiproletari e guerrafondai della
borghesia. A questo riguardo ai comunisti non debbono aver paura di affrontare
le contraddizioni interne al dibattito del movimento rivoluzionario, pur sapendo
che la borghesia tenterà sempre di mistificare ed amplificare le nostre
divergenze per offrire un quadro distorto fatto di continue lacerazioni, individualismi
e meschini calcoli di gruppo.
La battaglia politica tra ipotesi diverse che, nella pratica della lotta devono
trovare la loro verifica, non è operazione carbonara per “addetti
ai lavori” ma capacità di far vivere e comprendere i contenuti
delle diverse proposte fuori da logiche settarie e di sterile schieramento.
Altro non c'interessa e non riguarda lo stile della nostra O, dichiarandoci
sin da ora indisponibili verso chiunque usi il metodo dell'attacco politico
strumentale, per mascherare la propria incapacità di costruire sulle
proprie convinzioni la propria identità politica e organizzativa.
A questo proposito, essendo stati chiamati direttamente in causa, è doveroso
da parte nostra fornire alcuni chiarimenti circa l’ultimo tentativo in
ordine di tempo, d'attacco alla nostra Organizzazione da parte di alcuni ex
militanti, iscrittisi di recente all’albo dei giornalisti. Ci riferiamo
al rumoroso scoop editoriale che va sotto il nome di ”Un’importante
battaglia politica nell'avanguardia rivoluzionaria italiana” a firma di
“i militanti della seconda posizione”.
Non entriamo qui nel merito delle loro posizioni politiche semplicemente perché
la critica a queste è contenuta, in positivo, nel bilancio del dibattito
che facciamo in questo opuscolo. In positivo perché non crediamo serva
a qualcosa alimentare le proprie posizioni semplicemente negando e distorcendo
quelle altrui. E’ un metodo questo che puntualmente viene riproposto da
parte di chi concepisce la battaglia politica come offerta "generosa"
quanto poco comprensibile e non si capisce a quale interlocutore che non si
trova di meglio da fare che puntellare le proprie scarse convinzioni per mezzo
della mostrificazione di quelle dell'avversario prescelto.
Entriamo nel merito. Costoro affermano che le BR debbono rendere conto al movimento
rivoluzionario della "polemica"(!) su cui è avvenuta la spaccatura
che ha portato all'espulsione di una minoranza. Dalle loro stesse affermazioni
si capisce che le BR hanno oggi maturato un nuovo livello d'unità politica
su un corpo di tesi strategicamente opposte alle loro. Tant'è che costoro
non sono più militanti delle BR. Curiosamente però si sono appropriati
della gestione di questa battaglia politica pubblicando dei documenti di dibattito
interno sul cui uso solo l'O poteva ragionevolmente decidere.
Da comunisti siamo costretti a dover riprecisare che non esistono militanti
di "posizioni", ma solo militanti d’O che liberamente aderiscono
ad essa riconoscendone e rispettandone i principi ideologici, le finalità
strategiche, la linea politica, i criteri organizzativi e la relativa disciplina
alle regole del centralismo democratico. Su queste cose si basa il vincolo della
militanza e nessuno può spacciare militanze più o meno "importanti"
fuori dalla appartenenza oggettiva ad un'organizzazione né tantomeno
fare l’uso che più desidera del suo patrimonio, di cui fanno parte
ovviamente i materiali di dibattito interno o pubblico che sia.
Ma alla scorrettezza della pubblicazione di questo materiale se ne aggiunge
un’altra e cioè l'estrapolazione di singole frasi che, proprio
perché inserite in un dibattito interno sono schematizzate dato che si
rivolgono a militanti che intendono immediatamente il senso una affermazione
senza bisogno di particolari arricchimenti dialettici. Lo speculare su tale
caratteristica di tali scritti, attribuendo loro significati che non hanno,
qualifica in modo chiaro il livello di bassezza da loro raggiunto impegnati
some sono nel confermare ancora una volta l’impotente velenosità
degli ex.
Qui non si tratta di frasi che scappano di mano, ma proprio del problema di
non far scappare le mani. Procediamo.
Costoro millantando uno strano credito, rivendicano a se stessi una parte significativa
della storia dell’O affermando che: "...questa minoranza è
composta interamente da vecchi militanti delle BR, tra i quali è compresa
la maggioranza della direzione in carica sino a1 settembre ‘84".
Vista la cura con cui questi novelli giornalisti hanno trattato l'intera vicenda
non ci membra proprio un'ingenuità il fatto di quantificare e qualificare
la loro, presunta consistenza politica, sperando così di dare la stura
ad un nuovo corso clamoroso su cui ovviamente pasce la stampa borghese. Come
in ogni campagna elettorale che si rispetti, prima ancora di esprimere posizioni
politiche, costoro si presentano nella veste che credono più accattivante,
spostando abilmente l’attenzione dai contenuti politici a “curiosità”
scandalistiche proprie della pubblicistica borghese: sarebbero niente meno che
vecchi militanti e soprattutto dirigenti dell’O vittime di non si capisce
quale oscena trama da parte di giovinastri tanto scaltri quanto politicamente
inconsistenti e pericolosi. E, visto che tra gli obiettivi che si pongono il
primo risulta essere: "valorizzare l’esperienza delle BR", è
evidente che si ritengono i depositari d.o.c. della missione di salvatori delle
sorti dell’O malauguratamente, seconde loro, caduta in mano dei “senza
storia”.
Sinceramente non avevamo mai creduto che in nome del marxismo-leninismo si potesse
fare un simile scempio di ogni criterio che fa di un gruppo di comunisti un’organizzazione
di comunisti che vuole costruire il Partito.
Costoro, rifiutando di fatto ogni decisione presa secondo il criterio del centralismo
democratico, non smettono la loro non richiesta e non voluta militanza, proponendosi
di continuare a far esistere le "vere ed autentiche" BR contro, ovviamente,
le BR! Mostrificare l'avversario per meglio poter esprimere le proprie tesi
è terreno privilegiato di chi poggia la propria "autorevolezza"
più sull'uso abile delle frasi ad effetto, per ricercare uno schieramento
pro o contro l'O, che fornire al movimento rivoluzionario gli strumenti di comprensione
dei temi del dibattito in corso.
Ma evidentemente, costoro non sono poi tanto sicuri del buon successo della
loro impresa e del consenso raggiungibile dalle tesi da loro proposte. La puzza
di bruciato, della loro coda di paglia si sente in continuazione nella lettura
del testo, in cui spiegano al "lettore" che certamente non vogliono
dire questo ma quest’altro; anzi che alcune loro tesi oggi (da settembre
a novembre) non hanno alcuna difficoltà a considerarle sbagliate. Una
sola cosa risulta assolutamente certa: le BR avrebbero espulso insieme a loro
il materialismo e il marxismo—leninismo e contro questo va fatto quadrato
da parte di tutti i comunisti sinceri.
Dobbiamo brevemente analizzare, a questo punto, le rettifiche apportate alla
loro posizione originaria per capire su quale corpo di tesi costoro sono stati
espulsi dall’O. Una riguarda il marxismo-leninismo definito strategia
e un'altra relativa alla proposta delle "cinghie di trasmissione legali".
Non è certo roba da poco, ma evidentemente per costoro enunciazioni irrinunciabili
del proprio impianto politico, che solo due mesi prima si dichiaravano indisponibili
a mettere in discussione, possono essere affermate o negate con molta disinvoltura
una volta fuori dall'O.
Definire il marxismo-leninismo strategia è evidente operazione dogmatica
di identificazione del piano teorico astratto con quello politico strategico,
ciò non può che portare allo scopiazzamento di un modello prescelto,
sostenendo la giustezza della propria linea politica con la purezza dell'interpretazione
dei principi dottrinali.
Dal piano teorico al piano politico esiste uno scarto che va riempito con "l'analisi
concreta della situazione concreta" che rende storicamente determinata
una strategia politica, per non parlare poi di una linea politica. Questo e
null’altro garantisce che i principi del marxismo-leninismo costituiscono
un'effettiva guida all'azione e non diventino santini scaccia errori buoni per
chiunque abbia imparato ad usarli con abilità oratoria o letteraria che
sia. Questa "polemica" non è schermaglia ideologica tra sofisti
incalliti, ma ha conseguenze direttamente politiche sul piano della progettualità
rivoluzionaria.
Una cosa è certa. Se le BR non avessero osato l’approfondimento
più autenticamente corretto del marxismo-leninismo, proponendo la lotta
armata come strategia adeguata in questa fase di scontro per la conquista del
potere politico, questa polemica oggi non esisterebbe neppure e probabilmente
il proletariato italiano avrebbe perso un'occasione storica per abbattere lo
Stato.
Ancora più grave è la divisione dell’unità tra il
politico ed il militare nella proposta del PCC, operata nella concezione delle
“cinghie di trasmissione legali”. Anche a questo riguardo le BR
non avrebbero certo potuto conquistare il peso politico che hanno nello scontro
di classe, se avessero organizzato nel '70 l'ennesimo gruppetto che, praticando
una lotta armata alla stregua di un metodo di lotta violenta a sostegno dell'attività
politica avessero affidato la propria proposta a giornali, volantini, organizzazione
diretta della lotta spontanea degli spezzoni di classe in cui trovavano inserimento.
Cioè, come dicono i "nostri" avessero così preparato
quotidianamente l'insurrezione.
La rottura delle BR con l'opportunismo gruppettaro ed “emmellista”
sta proprio nell'enorme conquista politica della concezione della lotta armata
come strategia, cioè dell'unità indissolubile del politico con
il militare. Questa conquista è talmente importante per le sorti della
rivoluzione nel nostro paese che neanche gli errori, le sconfitte, le debolezze
politiche e i tradimenti sono riusciti ad invalidarla. Le BR difenderanno questa
conquista oggi come ieri da ogni tentativo di liquidazione perché essa
è la condizione storica imprescindibile per l'espressione della soggettività
rivoluzionaria.
Bene. E' realmente sorprendente la faccia tosta con cui si possa da un giorno
all'altro operare simili rettifiche ed aggiustamenti vari, facendo finta che
ciò che oggi i "nostri" correggono non sia parte integrante
dell'impianto politico che continuano a proporre; del sistema di pensiero che
guida le loro analisi e la loro progettualità. E allora è facile
a questo punto capire di che rottura si sia trattato: le BR hanno espulso nient'altro
che tesi politiche estranee alle discriminanti strategiche, alla storia stessa
della nostra O. Le BR hanno espulso nient'altro che un tentativo di revisione
e liquidazione delle conquiste politiche di quindici anni di lotta rivoluzionaria.
E questa non è gratuita autoproclamazione, ma l'ennesima dimostrazione
di quanto i fatti siano ostinati.
Cosa rimane, a fronte degli aggiustamenti operati, della loro proposta politica?
Qual è la strategia, le tappe del percorso, il programma politico e via
dicendo? Citiamo alla lettera le tre parole d'ordine a cui affidano il loro
"lavoro militante": "Valorizzare l'esperienza delle BR";
"Continuare con decisione la lotta armata"; "Fondare il PCC"
. Niente di più politicamente povero, generico e fumoso. In particolare
l'esigenza di proclamare che bisogna continuare a combattere, oltre ad essere
pericolosamente generico, dimostra a chiare lettere il disagio di costoro di
voler dimostrare a tutti i costi che, nonostante l'apparenza, la loro linea
politica è tutt'altro che liquidazionista. Anzi avvertono il solito incauto
"lettore" che non è detto che le BR continueranno a combattere,
nonostante le loro dichiarazioni d'intenti. Peccato (per loro) che le BR non
hanno alcun bisogno di affermare né dimostrare nulla in proposito, esattamente
perché non hanno mai smesso di farlo ….. malgrado loro. Andiamo
avanti.
Dato il loro annuncio: "… vi saranno sicuramente svolgimenti e sviluppi",
quali altri aggiustamenti ci dobbiamo attendere? Niente paura. Il "lettore
paziente ed incuriosito" non ha che da aspettare il lancio editoriale di
un "Giornale per …… tutta l'Italia", organo ufficiale
del nuovo nucleo fondante del PCC. A questo punto ci sembra chiaro che le uniche
escluse da questo dotto cenacolo siano le BR, anzi, che esse siano l’ostacolo
più serio per il rilancio dell’attività rivoluzionaria nel
nostro paese.
Potenza delle parole! Peccato (sempre per loro) che di autoproclamazioni è
lastricata la strada delle buone intenzioni, ma che questo non ha mai, alla
lunga, né convinto nessuno, né tantomeno costruito organizzazione
rivoluzionaria. Un’ultima questione. Costoro affermano che le loro origini
politiche sono da ricercare dentro l’O. Certo sarebbe strano il contrario,
vista l'esistenza di un atto d'espulsione. Quello che è strano è
la ragione di simili precisazioni. La storia di un'organizzazione comunista
è fatta d'unità progressivamente costruita, su livelli diversi,
intorno a nient'altro che a tesi politiche; e, quando queste sono strategicamente
inconciliabili la convivenza politica diventa impossibile. E’ evidente
che questo è il prodotto della maturazione della battaglia politica in
cui può esserci un bianco e un nero “solo alla sua conclusione”.
E allora cosa spinge i redattori della pubblicazione ad autoproclamarsi "supermilitanti"
e dirigenti della nostra organizzazione attribuendosi alcuni dei suoi passaggi?
Quali BR costoro intendono valorizzare? Non certo quelle della storia concreta
e reale in cui non ci sembra ravvisare gli piaccia qualcosa, se non il loro
innegabile successo politico. E allora cosa vogliono costoro? La storia prossima
futura delle scontro rivoluzionario darà sicuramente risposta a queste
domande e tutto dipenderà dal reale peso politico che questi novelli
paladini dell'ortodossia dogmatica riusciranno o meno a conquistarsi nello scontro
di classe. Una cosa è certa, non gli permetteremo di vivere politicamente
sulle spalle delle BR inchiodandoli in tutti i modi alle loro responsabilità
e difendendo la nostra Organizzazione da ogni attacco proditorio, da ogni tentativo
frazionista e da ogni operazione sciacallesca ... E, visto che costoro si chiedono
se vale la pena di continuare a discutere con dei soggettivisti incalliti come
noi, non abbiamo che da invitarli al confronto concreto, dentro lo scontro di
classe, non certo con noi, ma con i problemi teorici, politici ed organizzativi
che questo scontro pone, avendoli da tempo lasciati liberi di poter dimostrare
nella pratica la validità o meno delle loro tesi.
Sappiamo bene che la battaglia politica tra impostazioni strategiche diverse
non si conclude certo qui. Siamo altresì consapevoli del “fascino”
che simili revisioni, a fronte della portata della sconfitta subita possono
esercitare tanto su settori di movimento apertamente opportunisti, da sempre
nemici delle BR, tanto su compagni che ingenuamente possono cadere nella trappola
delle argomentazioni sostenute con dovizia da riferimenti teorici illustri.
Non ci sottrarremo ancora una volta alla battaglia politica riproponendo con
forza di lavorare all'unità dei comunisti nel PCC, affrontando al massimo
delle nostre capacità politiche tutti gli odierni problemi teorici e
politici della progettualità rivoluzionaria. Ma non smetteremo mai di
denunciare apertamente da che parte si collochino tutti coloro che lavorano
a diffondere confusione, mistificazione ed ogni genere di menzogne. Non permetteremo
a nessuno di usare strumentalmente le contraddizioni inevitabili del dibattito
politico interno all'O e al movimento rivoluzionario. Al contrario dei nostri
ex rivendichiamo all’O l’interezza della sua attività teorica,
politica e combattente; necessariamente costruita su un percorso politico in
cui vige la legge della contraddizione e del suo possibile e necessario superamento
attraverso il dibattito collettivo e la pratica militante, e non certo quella
dell'equilibrio metafisico delle eterne verità.
Dicevamo, che il processo d'autocritica, iniziato con la proposta della “ritirata
strategica” non poteva che aprire, dentro il movimento rivoluzionario
e dentro la nostra O, un difficile dibattito e quindi battaglia politica nell’individuazione
degli errori commessi. Questo processo non è ancora del tutto concluso,
anche se non ci ha impedito di tornare à combattere ad un livello di
notevole portata ed ha raggiunto uno stadio di chiarificazione che dà
oggi alla nostra Organizzazione la possibilità di fondare la sua pratica
su direttrici strategiche, veri e propri assi portanti della più generale
elaborazione teorico—politica. Il complesso di tesi a cui le BR fanno
oggi riferimento unitario si è scontrato con una diversa impostazione
che, per comodità d'esposizione possiamo definire (pur non appiattendone
all'interno i diversi livelli di qualità politica) riproposizione dogmatica
dei principi del marxismo leninismo; sostituzione cioè tra principi dottrinari
invarianti e strategia e tattica dei comunisti, che sono storicamente determinate.
Nel criticare quest'impostazione dobbiamo altresì precisare che essa
non sorge, in un dibattito autocritico di simile portata, indipendentemente
dall'obiettivo di precisare in termini scientifici e materialistici, gli unici
corretti, il modo stesso di indagare i fenomeni sociali e di applicare le categorie
marxiste-leniniste. Di fronte al manifestarsi del tentativo di liquidazione
del marxismo e la proposta di “nuovi” strumenti interpretativi dei
vari “neomarxisti” e "forzatori d'orizzonti”, è
facile cadere nella tentazione di ergersi a paladini inflessibili del marxismo-leninismo
sino a ridurlo a corpo dottrinario incapace di cogliere il movimento della contraddizione
nella dinamica della trasformazione sociale secondo le leggi della dialettica.
Il materialismo storico e dialettico è scienza dell'analisi delle trasformazioni
generate dal movimento delle contraddizioni interne ad ogni singolo fenomeno
sociale. Il contrario della metafisica e del meccanicismo e continua a rappresentare
l'unico strumento valido d'indagine dei processi di trasformazione delle formazioni
economico sociali. Quando parliamo di trasformazioni intendiamo riferirci alle
forme storiche che lo sviluppo del modo di produzione capitalistico ha determinato,
negando al contempo che esse siano solo spostamenti quantitativi che non mutano
affatto i caratteri della formazione economica e sociale capitalistica da come
Lenin li descrisse in riferimento alla società del suo tempo.
La critica alle concezioni dominanti la teoria e la pratica della nostra esperienza,
è sintetizzabile nel rigetto dei presupposti analitici e programmatici
de "l’ape e il comunista". In questa produzione possiamo infatti
trovare al massimo di espressione l'incapacità di comprendere come la
dinamica contraddittoria sia dominante in ogni aspetto della materia sociale,
approdando così ad un punto di vista meccanicistico e linearista, in
cui l'equilibrio idealista sovrasta sullo squilibrio reale. Correggere o, meglio,
liquidare tale impostazione non deve voler dire opporre all'assolutizzazione
idealista delle tendenze la negazione altrettanto assoluta della necessità
di indagare scientificamente le nuove forme di dominio della borghesia imperialista,
legate al processo d'estensione ed approfondimento del rapporto di produzione
capitalistico in campo mondiale. Altrimenti risulta abbastanza facile confondere
l'analisi concreta di Lenin riferita alla sua epoca storica con la teoria leninista
dell'imperialismo e dello Stato che ci mette in grado di analizzare le nuove
forme secondo il metodo scientifico materialistico. Altrimenti è altrettanto
facile confondere il marxismo-leninismo con le linee politiche dei diversi partiti
comunisti, scegliendo quella che sembra la più adatta alle condizioni
attuali. Gli insegnamenti di Lenin circa il ruolo dei comunisti contro ogni
tendenza spontaneista e pacifista; l'assegnazione del primato della lotta contro
lo Stato; la necessità del Partito come coscienza esterna del proletariato;
la corretta risoluzione del rapporto contraddittorio coscienza/spontaneità;
i condizionamenti oggettivi e soggettivi nel determinarsi di una situazione
rivoluzionaria; il carattere autenticamente internazionalista della rivoluzione
proletaria, sono alcuni capisaldi per la costruzione di una linea politica di
un Partito Comunista.
La pratica concreta adottata dai bolscevichi è la trasposizione sul piano
pratico ossia in condizioni storicamente determinate di quei principi che, sole
se usati correttamente possono costituire un efficace e vincente guida all'azione.
Fatte queste premesse entriamo nel merito delle questioni.
LA CRITICA ALLA CONCEZIONE GUERRIGLIERA
Questa critica sostenuta da alcuni compagni parte dal presupposto
di ricercare la natura degli errori nell'impostazione originaria della nostra
O basata sulla Lotta Armata per il Comunismo come strategia politico-militare,
nella forma della guerriglia metropolitana, come unica possibilità d'espressione
della Politica Rivoluzionaria in queste condizioni storiche dello scontro di
classe. Impostazione basata quindi sulla concezione della guerra rivoluzionaria,
necessariamente prolungata, contro lo Stato, che caratterizza il processo rivoluzionario
in questa fase.
La critica alla "concezione Guerrigliera" si basa su un giudizio d'impraticabilità
de1la guerra rivoluzionaria in un processo rivoluzionario metropolitano, perché
adatta a formazioni economico sociali proprie dei "paesi del terzo mondo".
Questo perché si ritiene che un processo di guerra rivoluzionario sia
dato in condizioni strutturali socioeconomiche cronicamente rivoluzionarie che
renderebbero disponibile alla lotta armata la maggioranza del proletariato,
a prescindere da altre condizioni. Nei paesi del centro imperialista, al contrario,
il processo rivoluzionario assumerebbe un andamento insurrezionale in presenza
di condizioni di benessere economico e di ampie libertà democratiche
di cui anche le masse godono, che permettono allo Stato l'occultamento della
divisione in classi della società e quindi una maggiore integrazione
sociale del proletariato. Nei paesi del centro imperialista il processo rivoluzionario
sarebbe dunque caratterizzato da un'insurrezione armata, ristretta nel tempo,
in condizioni oggettive eccezionali quali, soprattutto, la guerra imperialista.
In questa visione la Lotta Armata praticata dai comunisti in condizioni non
rivoluzionarie, sarebbe uno strumento propagandistico ed educativo per svelare
alle masse il contenuto classista della società borghese; sarebbe risultato
necessario della lotta teorico-ideologica contro il revisionismo; parte del
complesso di attività del Partito rivolto al sostegno delle mobilitazioni
di massa; costruzione coscienza delle masse circa la necessità della
rivoluzione violenta; aspetto militare della politica rivoluzionaria; attività
funzionale a mettere in evidenza gli obiettivi e le finalità dei comunisti.
A questo punto è necessario fare delle precisazioni.
Le strategie rivoluzionarie che il movimento comunista ha costruito e sperimentato
con più o meno successo dalla Comune di Parigi in poi, debbono essere
analizzate come l'elaborazione di un piano di disposizione delle forze rivoluzionarie
durante tutto il corso della tappa che il processo rivoluzionario attraversa
per il raggiungimento degli obiettivi prefissati. Questo piano non può
essere che il risultato di una teoria-prassi adeguata alle condizioni oggettive
e soggettive dello scontro tra le classi e quindi legato all'analisi concreta
della situazione concreta delle forme di dominio Stato e delle dinamiche dello
scontro tra proletariato e borghesia.
La necessità di adeguare la strategia e la tattica che, con l'evolvere
delle forme di dominio della borghesia, debbono trovare nello scontro le ipotesi
rivoluzionarie più adatte al raggiungimento dei propri obiettivi, non
è ricerca cieca e praticona ma è guidata dai principi del marxismo
e dell'esperienza storica del proletariato internazionale. Saldare il piano
dei principi con l'esperienza concreta del movimento internazionale è
fondamentale per non cadere in ottiche di ricostruzioni epocali/descrittive
svincolate, cioè , dal quadro di riferimento di verifica storica. Dare
alla strategia (e addirittura la linea politica) un contenuto invariante, ricavato
a prestito da una modellazione del processo rivoluzionario proletario fissata
nel 1871 e valida per sempre, porta ad una lettura dell'esperienza del proletariato
internazionale piatta ed ideologizzata, ricostruita secondo un sistema di principi
metastorici, antidialettici, sostenuta "generosamente" con riferimenti
e citazioni estrapolate gratuitamente dai testi di Marx e Lenin, sino a confondere
i principi teorici con la linea politica adottata da altri partiti comunisti
in condizioni politiche, economiche e sociali differenti.
In quest'ottica, nel rigetto della "concezione guerrigliera" s'intende
non già stanare gli errori commessi, bensì togliere ogni legittimità
storica e sociale alla Lotta Armata per trasformarla in mero strumento propagandistico.
La battaglia politica e la pratica delle BR è stata sempre tesa a dimostrare
l'improponibilità della concezione insurrezionalista basandosi su null'altro
che sull'analisi di condizioni mutate e questo per una serie di motivi:
A) Il sistema democratico borghese, giunto ad un livello maturo di consolidamento
tende ad assorbire le spinte più antagoniste della lotta di massa in
un complesso ambito di mediazioni politico-economico-militari da cui risulta
la capacità (relativa) della classe al potere di "istituzionalizzare"
il conflitto di classe, pur tra lacerazioni e sussulti di un equilibrio sempre
precario. Solo per fare un esempio, il fatto che non sia possibile, se non in
senso reazionario, "l'uso proletario" delle istituzioni parlamentari
ne costituisce la dimostrazione più evidente.
B) La controrivoluzione preventiva come politica costante tesa ad impedire la
convergenza tra interesse proletario e progetto rivoluzionario. Questo non è
materializzazione pura e semplice dell'agire della magistratura e della repressione
poliziesca, ma capacità dello Stato di dosare mediazione e annientamento,
nel tentativo di distruggere sul nascere in forma politico—ideologica
e militare la necessità’—possibilità stessa della
rivoluzione proletaria.
C) L'integrazione a tutti i livelli, pur nelle reciproche autonomie d'interessi
che la rendono sempre contraddittoria e sempre alla ricerca di nuovi equilibri,
della catena imperialista in cui i1 nostro paese è collocato ed il carattere
stesso dell'imperialismo che considera vitale, per la sua sopravvivenza, ogni
angelo del mondo. Coscienti di attirarci ogni sorta di critica strumentale tendente
ad accomunarci ai profeti dello Stato—Moloc, del superimperialismo ed
agli apologeti dell'eternità del MPC, dobbiamo affermare che ci troviamo
di fronte a trasformazioni storiche delle forme di dominio della borghesia.
Il "rafforzamento" dello Stato è dato a partire da condizioni
oggettive che lo consentono, dal perfezionarsi della forma istituzionale più
adeguata allo sviluppo del MPC. E questo si traduce appunto in politiche di
disintegrazione costante dell'autonomia e dell'unità del proletariato
su obiettivi di classe. La lotta di classe è considerata dato fisiologico
da contenere, frammentare e reprimere preventivamente prima che raggiunga il
livello di guardia, veicolandola nell'ambito istituzionale e frazionandola in
una molteplicità d'interessi. Per questo è del tutto miope ricercare
la "tenuta" dei paesi imperialisti solo in riferimento alla "generosa"
ridistribuzione della ricchezza sociale prodotta. A questa condizione strutturale
se ne aggiungono altre di carattere più propriamente politico-istituzionali,
perfezionate all'interno del nuovo ordine dettato dall'imperialismo (USA in
testa) dal '45 in poi. Da allora si è assistito e si assiste all'attuazione
di politiche che possiamo definire dei grandi "patti di unità nazionale"
ossia all'integrazione delle rappresentanze politiche e sindacali del proletariato
nell'ambito istituzionale della società borghese, quali varianti dello
stesso sistema di sfruttamento. Questo fino alla possibile ed indolore alternanza
di governo tra tutti i partiti democratico-costituzionali, senza che questo
abbia provocato traumi o abbia modificato di nulla i caratteri della società
borghese.
Il quadro di relativa stabilità sociale offerto dai paesi più
forti della catena imperialista occidentale offre parecchi spunti di riflessione
su come il sistema democratico sia in grado di attaccare preventivamente ogni
istanza politica (per non parlare di quelle rivoluzionarie!) che emerge dalla
lotta proletaria, relegandola nell'ambito della contrattazione possibile. Questo
quadro ha ben poche varianti e queste sono date esclusivamente dal livello di
coscienza politica e d'autonomia che il proletariato è in grado di esprimere
e quindi della forza della sua rappresentanza rivoluzionaria, elementi questi
che, di fatto, impediscono il realizzarsi sulla sua pelle di queste concertazioni
d'interessi interclassisti. Non è quindi problema di occultamento del
carattere classista dello Stato borghese (al più questo può costituire
un corollario adeguato al tentativo quotidiano di propagandare il regime capitalistico
come il migliore mai esistito), bensì problema di politiche concrete
che non solo non danno nessuna legittimità agli interessi generali del
proletariato (questa non sarebbe una grande novità storica) ma soprattutto
rendono possibile la difesa preventiva del sistema di sfruttamento capitalistico
e di oppressione imperialista spezzando e disperdendo sul nascere ogni lotta
proletaria che oltrepassi la soglia di compatibilità con gli interessi
generali della borghesia.
Repressione, carcere, tortura, corpi speciali, massacri, arresti e licenziamenti
politici, terrorismo di Stato … sono gli strumenti con cui la borghesia
democratica dosa il riformismo, dosa la concessione degli obiettivi strappati
al prezzo di dure lotte, a seconda dei rapporti di forza che si stabiliscono.
E questo non è certo "occultabile" ma solo trasformabile tramite
proposte rivoluzionarie concrete, comprensibili ed adeguate. I condizionamenti
oggettivi della crisi, pur se fondamentali per definire il precipitato di una
situazione rivoluzionaria, debbono comunque essere analizzati a partire dalle
condizioni politiche in cui è data, in questa fase crescita di coscienza
e d'organizzazione rivoluzionaria del proletariato. Perché non è
della congiuntura finale dello scontro che si sta parlando, ovviamente ristretta
nel tempo e in condizioni eccezionali, ma di una strategia del PCC in grado
di favorire e dirigere l'affermarsi della politica rivoluzionaria e degli interessi
del proletariato, che possa mettere la classe rivoluzionaria, in particolari
condizioni oggettive, in grado di determinare la sua dominanza politica e militare
nei confronti della borghesia.
Affermiamo dunque che il carattere che lo scontro rivoluzionario assume in queste
condizioni storiche è necessariamente quello della guerra di classe prolungata
contro lo Stato. Sono le stesse condizioni che hanno posto la necessità
di una forma Partito Combattente a riguardare l'andamento e la possibile prospettiva
in senso rivoluzionario dello scontro di classe. Allo stesso modo per cui oggi
non è data espressione della politica rivoluzionaria al di fuori di un'attività
che unifichi in sé il politico con il militare pena lo scivolare nel
pantano dell'opportunismo e del pacifismo, così non è data costruzione
di coscienza e organizzazione rivoluzionaria del proletariato se non dentro
una strategia, un percorso rivoluzionario di massa, fondato sulla Lotta Armata,
sulla guerra di classe. Affermiamo che una strategia rivoluzionaria non sorge
esclusivamente in riferimento ad una linea di massa, ma in relazione ad una
prospettiva di scontro per il potere adeguata alla forma storica del rapporto
conflittuale tra lotta di massa/ lotta d'avanguardia/ controrivoluzione dello
Stato e le sue possibili e necessaire trasformazioni.
Lo Stato è il prodotto e contemporaneamente la manifestazione istituzionale
dell'antagonismo degli interessi di classe e quindi assume la forma storica
adeguata a regolamentarne la dinamica. La Lotta Armata per il Comunismo come
strategia per la conquista del potere politico è legittimata storicamente
e socialmente proprio in riferimento alla forma di dominio assunta dallo Stato
e quindi al rapporto di scontro tra proletariato e borghesia in senso rivoluzionario.
E questo non nega affatto o appiattisce l'andamento contraddittorio del rapporto
Partito/masse, coscienza/spontaneità; né porta necessariamente
ad una visione lineare del processo rivoluzionario, indipendentemente cioè
da condizioni oggettive; ma pone in termini analitici le basi insostituibili
per la definizione dei compiti e della progettualità di un Partito Comunista.
Le condizioni oggettive per cui si da una situazione rivoluzionaria, non dipendono
certamente dall'attività soggettiva dei comunisti e delle avanguardie
rivoluzionarie, ma quest'attività, la sua esistenza o meno, contribuiscono
ad aggravare la crisi politica della borghesia ed è parte costituente
dei rapporti di forza generali tra le classi.
Per tutte queste ragioni la Lotta Armata per il Comunismo non può essere
considerata "strumento" della politica rivoluzionaria dei comunisti,
ma strategia politico-militare che il proletariato rivoluzionario organizzato
e diretto dal Partito deve adottare per battere lo Stato e conquistare il potere
politico.
La critica alla "concezione guerrigliera" e alla concezione della
guerra di classe rivoluzionaria è corretta se indirizzata agli aspetti
immediatisti, economicisti ed idealisti che hanno pesantemente influenzato e
caratterizzato l'impostazione passata dei "programmi immediati", della
trasformazione oggettiva nella crisi, della lotta economica e politica delle
masse in lotta rivoluzionaria (o per la rivoluzione), della transizione al comunismo
dentro i vigenti rapporti di produzione, della concezione del contropotere esercitabile
fino … alle "basi rosse invisibili"! E' completamente sbagliata
se suffragata dalla concezione astratta della guerra rivoluzionaria che si darebbe
solo se fin da subito tutto il proletariato si rendesse disponibile al combattimento
contro lo Stato. Tutte le espressioni rivoluzionarie si rendono possibili perché
le condizioni dello scontro generano avanguardie comuniste rivoluzionarie che
operano come reparti d'avanguardia del proletariato nella lotta contro lo Stato.
Tutte le esperienze rivoluzionarie si sono trovate di fronte ad un passaggio
dalla cui risoluzione o meno è derivato il successo stesso del processo
rivoluzionario. Questo passaggio è quel delicato salto da propagandisti
di una necessità storica (la rivoluzione proletaria) a dirigenti del
processo rivoluzionario, da organizzatori dell'avanguardia rivoluzionaria a
Partito di tutto il proletariato.
Le determinazioni tattiche della guerra rivoluzionaria fanno invece riferimento
alle condizioni socio-politico-economiche proprie di ciascun paese da cui dipendono,
anche, sia gli obiettivi da raggiungere (potere politico in mano al proletariato
o indipendenza nazionale), sia il carattere delle diverse congiunture dello
scontro. L'unica questione ineludibile è proprio il carattere di guerra
rivoluzionaria, necessariamente prolungata, che lo scontro rivoluzionario assume
in queste condizioni storiche e che la nostra stessa esperienza ha contribuito
a chiarire. Così come ha chiarito che la definizione del terreno della
guerra di classe come determinante per il processo rivoluzionario non è
contemporaneamente dominante per tutta la fase della conquista del potere politico,
così come dettava la logica soggettivistica che tanta fortuna ha avuto
negli anni passati. E allora credere di risolvere la contraddittorietà
della politica dei due "tempi" della Terza Internazionale e combattere
le degenerazioni revisionistiche dei partiti operai che hanno rotto con il marxismo,
riproponendo una versione, seppure aggiornata, del processo insurrezionale,
non è solo revisione ideologizzata e deformante di quindici anni di lotta
rivoluzionaria e, in particolare, di quella delle BR; non solo non da legittimità
né teorica né storica al combattimento delle avanguardie; ma soprattutto
costituisce un pericoloso puntello a tutte quelle componenti del movimento che,
sulla base di una concezione dogmatica del marxismo-leninismo, hanno costituito
l'ampio e variegato fronte dell'opportunismo e del neorevisionismo nel nostro
paese.
LA CRITICA ALLA CONCEZIONE DELLO STATO IMPERIALISTA DELLE MULTINAZIONALI
L'impostazione soggettivista dominante nel movimento rivoluzionario
italiano negli anni passati partiva dal presupposto di trasformazioni sostanziali
del ruolo dello Stato nelle formazioni economiche e sociali a capitalismo avanzato,
preso a prestito dalla sociologia e dalle teorie economiche borghesi, soprattutto
quella keynesiana che, in una visione apologetica del MPC, renderebbe oggi lo
Stato in grado di pianificare a tal punto il suo intervento nell'economia e
nel sociale da annullare le contraddizioni insite nel capitalismo e risolvere
in modo indolore il conflitto di classe e gli effetti della crisi.
In questa visione della società pensata e pianificata dallo Stato-soggetto,
sotto le direttrici delle centrali imperialiste, spariscono le contraddizioni
interborghesi, la legge della concorrenza, le dinamiche oggettive della crisi,
nonché il carattere necessario delle controtendenze, tutto il complesso
dinamico e contraddittorio dei rapporti sociali viene ridotto così ad
un'unica determinazione: la lotta tra borghesia e proletariato.
Il limite del capitale non è più il capitale stesso, bensì
la lotta e la soggettività proletarie; il processo rivoluzionario diviene
totalmente dipendente dalle volontà antagoniste dei protagonisti in campo;
la tendenza alla guerra imperialista non è più risoluzione della
concentrazione critica di tutte le contraddizioni del MPC, per appiattirsi al
solo antagonismo tra borghesia imperialista e proletariato internazionale. Lo
Stato perde in questa visione il suo connotato essenziale di prodotto e manifestazione
dell'antagonismo inconciliabile tra le classi per assumere quello di sommatoria
d'apparati (forze economiche, politiche, militari) tutte concorrenti all'unico
disegno antiproletario e controrivoluzionario pendente e pianificato dall'inizio
alla fine, perdendo necessariamente anche ogni connotato d'autonomia relativa.
La critica alla formulazione dello SIM, ha portato alcuni compagni alla rivisitazione
della concezione dello "Stato-nazione", scambiando così la
sostanza della teoria marxista dello Stato per l'analisi fatta da Lenin della
situazione della sua epoca. L'errore di questi compagni consiste nel fatto che,
se è coretto riaffermare che nella sostanza il ruolo dello Stato non
è mutato, questo stesso ruolo, quale rappresentanza sovrastrutturale
del movimento della formazione economico-sociale a partire dalla struttura economica,
si adatta alle stesse dinamiche evolutive del modo di produzione capitalistico
(MPC). Il carattere anarchico concorrenziale del mercato vive oggi in un ambiente
economico che, in una dinamica di sviluppo ineguale, assegna al capitale monopolistico/multinazionale/multiproduttivo
la posizione dominante. La concorrenza avviene in ambiti intermonopolistici
che, in seguito al secondo conflitto mondiale, vede la dominanza del capitale
finanziario americano, attraverso la notevole presenza del capitale USA (specie
nei settori trainanti) all'interno di quelle concentrazioni di capitale finanziario
che sono le imprese multiproduttive multinazionali.
L'internazionalizzazione della produzione e la divisione internazionale del
lavoro e dei mercati, il costituirsi e l'affermarsi delle compagnie multinazionali
e degli istituti sovranazionali preposti ad una maggior pianificazione e regolamentazione
del mercato mondiale, pur non modificandola nella sostanza, spostano la dinamica
concorrenziale intermonopolistica su un piano diverso, oltre i confini nazionali.
Il peso e la forza di ciascun Stato è chiaramente misurabile con la sua
potenza economica. I condizionamenti delle compagnie multinazionali sulle politiche
economiche degli Stati possono essere analizzati a partire dai ruoli che svolgono,
ossia il controllo del flusso commerciale, della domanda dei flussi finanziari,
della tecnologia avanzata fino al controllo politico dei paesi più assoggettati
al capitale straniero. Da questo punto di vista il peso che le compagnie assumono
nell'assegnare la potenza economica ai vari paesi è abbastanza facile
capirlo.
Nel concreto, dopo il secondo conflitto imperialista si assiste alla riduzione
della quota di produzione americana rispetto ai paesi europei e, contemporaneamente,
all'aumento della presenza, nella quota complessiva del capitale misto, del
capitale americano sotto la forma delle compagnie multinazionali. Questi ed
altri elementi hanno mutato il carattere dei rapporti interimperialistici tra
Stato e Stato in termini di maggiore integrazione ed interdipendenza, che non
nascono da rapporti politici o diplomatici, quindi oggetto di possibili scelte
soggettive diverse, ma dal carattere oggettivo e necessario dell'internazionalizzazione
e divisione mondiale della produzione.
Il sistema di relazioni imperialista occidentale si presenta come il "garante"
della riproduzione capitalistica a questo stadio di sviluppo e, al suo interno,
ciascuno Stato membro difende la sua quota d'interessi nazionali, pur non potendo
collocare i suoi interessi generali che all'interno del rafforzamento e della
difesa degli interessi comuni della catena. I limiti in cui la concorrenza e
l'indipendenza si sviluppano sono dettati esattamente dal grado di integrazione,
interdipendenza e parcellizzazione della produzione mondiale; da cui risulta
un sistema di relazioni oggettivo e necessario; non dipendente dalle singole
volontà; fortemente integrato e gerarchizzato al suo interno.
Abbiamo quindi una realtà economica che vede la presenza di capitale
multinazionale prevalentemente a polo americano e il grande capitale autonomo,
che si è internazionalizzato, è innervato con multinazionali a
polo estero. E' una realtà che non è certo rapportabile ad una
"repubblica delle banane", anzi, esprime una complessità che
esalta la funzione dello Stato come centro del potere politico dell'intera borghesia;
come organo che di volta in volta esercita o mediazioni interborghesi o favoreggiamento
di un settore contro altri, uno Stato che, svolgendo una funzione importante
sul terreno finanziario, viene assaltato ed infiltrato dalle varie consorterie;
uno Stato capitalista reale ed al tempo stesso mediatore del conflitto di classe.
Dobbiamo però anche dire che ogni singolo Stato esercita il suo potere
politico all'interno di una specifica formazione economica e sociale cercando
di adattarla a decisioni prese in istanze sovranazionali, come il FMI o la CEE
o la NATO, accentrando in sé funzioni di rigido indirizzo che i singoli
esecutivi devono eseguire. E questo esattamente perché gli istituti sovranazionali
non sono altro che l'espressione politica degli interessi dei capitali più
forti presenti, in quote diverse, in ogni paese avanzato econo0micamente in
cui si possa parlare, cioè, di dominanza del capitale finanziario.
La categoria di Stato-nazione è perciò oggi insufficiente a definire
la forma assunta dallo Stato. E questo è importante non tanto per sostenere
delle discussioni accademiche, quanto perché ha un riflesso immediatamente
pratico nella costruzione della progettualità politica rivoluzionaria.
Gli stessi revisionisti, espressione soprattutto della piccola e media borghesia
produttiva, e la socialdemocrazia europea hanno perseguito per anni la possibilità
di uno sviluppo autonomo dei singoli capitali monopolistici nazionali di contro
al sistema di relazioni dominante, spingendosi sino a ventilare la possibilità
di alleanze europee antimperialiste. Quanto questa visione sia fallimentare
è stato ampiamente dimostrato nella storia di quest'ultimo decennio.
Quanto queste analisi siano piegate a politiche pacifiste e interclassiste è
problema concreto ed attuale nella battaglia politica all'interno dei movimenti
di massa.
Trasportando il carattere dell'interdipendenza economica a quello necessario
dell'alleanza sul piano politico e militare, si ha il quadro completo dell'oggettivo
rafforzamento di ciascuno Stato, all'interno della catena imperialista, sul
piano dell'azione comune contro il proletariato nazionale ed internazionale.
Non è quindi un problema di maggior esercizio di forza del fronte proletario
nel momento della conquista del potere politico, a fronte di uno Stato, genericamente
inteso “più forte”. Non è quindi il problema di riproporre
librescamente versioni "aggiornate" del processo insurrezionale. Al
contrario si tratta di capire come una strategia rivoluzionaria possa, in queste
condizioni storiche mutate, a partire dall'esperienza del movimento comunista
internazionale e quindi dalla nostra stessa esperienza, risultare vincente contro
il nemico di classe che ci troviamo a combattere.
Affermiamo dunque che il sistema imperialista è giunto alla fase per
cui l’integrazione a tutti i livelli delle politiche imperialiste impediscono
la possibilità di staccare un singolo anello, centrale o periferico che
sia, se non dentro un quadro di instabilità di aree intere, sino all’impossibilità
per il nemico di mantenerne il controllo. Se per i comunisti del ‘17 il
problema è stato quello di difendere, in una durissima guerra civile,
lo Stato proletario dalla controffensiva a posteriori fomentata dai paesi imperialisti,
in questa fase questa controffensiva ha carattere preventivo, di difesa dei
“confini” dell’intero sistema, considerati tutti come aree
vitali per il sistema stesso. A nessuno sfugge che il pericolo più grosso
per la rivoluzione sandinista non sia propriamente quello dell'opposizione borghese
e reazionaria interna, bensì quello di un'aggressione diretta e in prima
persona degli USA. Così come a nessuno sfugge come i sandinisti intendono
far fronte a questa non certo remota possibilità: l'estensione del conflitto
a tutta l’America centrale e l’alleanza internazionale antimperialista.
Questi sono i motivi che fanno tentennare la più grande potenza economica
e militare mondiale nel progetto di liquidazione della rivoluzione nicaraguense:
il prezzo da pagare e la non rapida e scontata riuscita di quest'ennesimo atto
di criminalità imperialista, è un'esperienza che gli USA hanno
già fatto tutte le volte che si sono scontrati con popoli in ami.
La rottura rivoluzionaria avviene quindi non solo dentro particolari condizioni
oggettive di aggravamento della crisi capitalistica, ma anche dentro particolari
condizioni soggettive in cui, contro l'alleanza controrivoluzionaria dei paesi
imperialisti, si affermi quella dei fronte rivoluzionario antimperialista, che
impedisca nei fatti che il nemico possa concentrare le sue “attenzioni”
su un singolo punto del conflitto e lì vincere. Non si sta certo vagheggiando
dell'esplosione contemporanea e “permanente” della rivoluzione mondiale
ma parlando dei nuovi caratteri dell’internazionalismo.
Questa concezione vive oggi in una realtà internazionale per cui oggettivamente
e soggettivamente l’antimperialismo (soprattutto contro gli USA) assume
il carattere di concreta base unitaria tra proletariato metropolitano e popoli
progressisti che si battono contro l'oppressione imperialista. E’ a partire
da questa base concreta che i comunisti a livello internazionale debbono ancora
una volta rappresentare il livello più avanzato di direzione complessiva
del processo di liberazione del proletariato delle metropoli dallo sfruttamento
del lavoro salariato, costituendo contemporaneamente l'alleato più prezioso
per le legittime aspirazioni d'emancipazione dei popoli oppressi dall’imperialismo.
Questo non da che rinnovata forza programmatica al principio per cui internazionalismo
vuol dire prima di tutto fare la rivoluzione nel proprio paese, tenendo nel
dovuto conto i condizionamenti ed i compiti che a livello internazionale contribuiscono
alla realizzazione concreta dei nostri obiettivi in questa fase storica.
ELENENTI CENTRALI DEL NOSTRO PROCESSO AUTOCRITICO
Rimesse al centro alcune discriminanti fondamentali quali la centralità dell'attacco allo Stato, la concezione leninista del Partito, la centralità operaia, l’analisi materialistica della crisi e della tendenza alla guerra, è necessario chiarire due punti essenziali del nostro processo autocritico: la questione della tattica e la critica alla concezione lineare del processo rivoluzionario.
LA QUESTIONE DELLA TATTICA
Il passaggio da Organizzazione Comunista Combattente a Partito
ha messo in luce, nella nostra esperienza, il problema della tattica rivoluzionaria.
Rivendicando la giustezza dell’impostazione strategica dobbiamo sottolineare
l'incapacità dell’O, a costruire su passaggi tattici o congiunturali
dello scontro di classe il proprio programma e gli obiettivi da raggiungere.
Un partito comunista si rapporta alle masse proletarie niente altro che col
programma, con l'insieme degli obiettivi tattici che, nella congiuntura, ineriscono
al mutamento dei rapporti di forza tra le classi, un partito comunista si rapporta
alle masse proletarie rappresentandone gli interessi generali di contro allo
Stato.
Pur essendo tattico il carattere del programma è necessariamente generale
ossia si costruisce sulla contraddizione politica dominante che il Partito seleziona
nella molteplicità di obiettivi e parole d’ordine che caratterizzano
le mobilitazioni spontanee, in riferimento al progetto dominante della borghesia
e al livello di coscienza e combattività espresse dalle masse.
Per progetto dominante della borghesia intendiamo il complesso di politiche
borghesi che, concretamente, si affermano e che vengono sostenute da un arco
di forze politiche che rappresentano gli interessi della frazione dominante
della borghesia in lotta con altre fazioni. Questo equilibrio di forze che si
stabilisce di volta in volta in posizione dominante garantisce l'attuazione
dei progetti, ed il perseguimento degli obiettivi da raggiungere.
L’attacco allo Stato, attacco al cuore del progetto dominante della borghesia,
non può che essere l'attacco a quelle forze che garantiscono l’attuazione
delle politiche borghesi congiunturali nonché il livello d'alleanze possibili.
L'attività di partito deve mirare a rendere impossibile quest'equilibrio
di forze, spezzarne la compattezza e rendere ingovernabili le contraddizioni
interne. In una parola, disarticolarne il progetto. Tutto questo in una visione
dello scontro concreto e prospettico al tempo stesso; ossia legando gli obiettivi
congiunturali alla possibile e necessaria trasformazione dello scontro in una
direzione: la conquista del potere politico e l’instaurazione della dittatura
del proletariato, dentro l’approfondirsi della crisi economica e politica
della borghesia e nella tendenza alla guerra imperialista.
La conquista dell’antagonismo di classe al programma rivoluzionario non
avviene in virtù dell’agitazione dei contenuti e degli obiettivi
del Partito a sostegno di quelli su cui la classe è già mobilitata,
bensì attraverso una pratica che si misuri su successi concreti, che
tenda a creare rapporti di forza momentaneamente favorevoli che consentano di
vincere ed attestarsi su posizioni più avanzate. Un Partito, cioè,
rappresenta l’elemento cosciente ed organizzato del proletariato, per
cui non appiattisce la sua proposta alla medietà del livello di coscienza
raggiunto dalle masse in lotta, ma pone il livello più maturo come base
reale su cui è necessario e possibile lo sviluppo del processo rivoluzionario
della classe. Questo perché la coscienza della necessità della
rivoluzione sorge accanto e non dalle lotte delle masse; si costituisce, cioè,
a partire da una dialettica precisa tra attività di avanguardia e movimento
spontaneo; si costituisce come salto dialettico che non trova disponibili nello
stesso momento milioni di proletari.
D'altro lato l’esistenza di frange, di spezzoni rivoluzionari di classe
vanno valutati per la reale incidenza che hanno nel più generale conflitto
di classe. E questo dipende dalla capacità del Partito di dirigere questo
processo a partire non da un punto qualsiasi dello scontro di classe, ma dai
nodi politici che oppongono nella lotta classe e Stato. Pena il confondere in
punto “più alto” di scontro tra avanguardia e Stato con il
reale e concreto rapporto di forza tra le classi; pena lo spezzettare l’iniziativa
d'avanguardia, settorializzarla e cadere inevitabilmente nell’economicismo.
L’incapacità, di cogliere questi nodi centrali, di costruire programmi
congiunturali validi, di riempire di contenuti programmatici la nostra tattica,
è stato determinato dall'incapacità di analizzare in termini materialistici
le tappe per il raggiungimento dell’obiettivo della conquista del potere
politico, in una visione appiattita ed idealista tanto della crisi della borghesia
e, quindi, dei passaggi della ristrutturazione, quanto dei caratteri dell’antagonismo
di classe e quindi del suo reale livello di unità, autonomia e coscienza
raggiunto. Porsi il problema della conquista di vittorie tangibili, di disarticolazione
reale e di arretramento dei progetti della borghesia, di spostare a favore del
proletariato i rapporti di forza è, d’altra parte, tutt’altro
che illudersi, in condizioni non rivoluzionarie, di poter dirigere la lotta
di massa spontanea.
Abbiamo già detto che l’attività politico—militare
d’avanguardia è parte costituente dei rapporti di forza e questo,
dialetticamente, ha una duplice funzione, quella di approfondire la crisi politica
della borghesia e quella di costituire la prospettiva possibile e necessaria
per la lotta proletaria. E questo perché, in condizioni oggettive favorevoli,
il proletariato è sempre più spinto ad individuare nelle proposte
del Partito l’alternativa reale per trasformare lo stato di cose presenti.
E per un PCC, un Partito Comunista che fonda cioè la sua politica rivoluzionaria
sull’attività politico—militare è per lo meno illusorio
che possa determinarsi come direzione credibile se non è in grado di
affrontare nell’ottica di un rapporto di guerra dominato dalla politica,
il problema dello Stato e del carattere stesso del processo rivoluzionario,
se non è in grado di stabilire rapporti politici diversi e ai diversi
livelli di coscienza che il proletariato esprime, senza sovrapposizioni ma anche
senza appiattimenti.
Rappresentare l'interesse generale del proletariato in rapporto allo Stato non
può che significare rappresentare l’alternativa di potere come
obiettivo verso cui muove la mobilitazione spontanea delle masse, le cui parole
d'ordine generali ed unificanti non possono essere realizzate se non con la
modificazione dei rapporti di forza generali e la conquista del potere politico.
La riscoperta della “politica” o delle "masse" che va
tanto di moda in questi ultimi tempi, e che costituisce uno dei tanti risvolti
negativi della sconfitta dell'82, a stento cela l’opportunismo, il codismo
e la scarsa memoria. Il problema reale è nella riproposizione intransigente
dell’inscindibilità tra politico e militare, cogliere nella forma
storica della politica rivoluzionaria che s'identifica null’altro che
nella Lotta Armata per il Comunismo, le determinazioni tattiche del nostro agire
e degli obiettivi politici perseguibili.
LA CRITICA ALLA CONCEZIONE LINEARE DEL PROCESSO RIVOLUZIONARIO
Se è sbagliato dividere la storia delle BR in periodi
buoni e cattivi, è incontrovertibile che la concentrazione delle contraddizioni
politiche e teoriche presenti nella storia dell'O, esplodono nel momento in
cui, soprattutto grazie alla "Campagna di Primavera", le BR acquistano
nello scontro di classe un peso rilevante. Da OCC che propaganda un’idea
forza (la LA per il C) le BR si trovano ad essere forza politica riconosciuta,
asse strategico per la costruzione del Partito e per l’elaborazione di
una progettualità politica di direzione complessiva del processo rivoluzionario.
A questo punto, le imprecisioni le deviazioni e la debolezza dell’impianto
teorico, unite alla relativa inesperienza, impediscono all’O di superare
la sua natura di “forza rivoluzionaria combattente” ed effettuare
un ulteriore passo in avanti verso il Partito. Per questo si può dire
che il concentrarsi critico di tutte le contraddizioni irrisolte dell'O esplodono
nel momento in cui essa dimostra tutta la validità e la maturità
di un'esperienza costruita in anni di lotta, che hanno permesso l‘ideazione
ed il successo dell’attacco alla “solidarietà nazionale”.
E questo perché le risposte politiche che l’O ha dato ai problemi
sorti all’indomani di quella campagna vittoriosa, e il complesso di analisi
e progettualità immediata e in prospettiva che ha fornito, hanno contribuito
notevolmente alla sconfitta dell‘82.
E questo perché l’O era sprovvista della forza politica, teorica
e programmatica per assestarsi in modo vincente all’innalzamento qualitativo
del livello di scontro che aveva perseguito e realizzato con la cattura del
generale americano Dozier. L’errore fondamentale è stato quello
di credere possibile l’organizzazione delle masse sul terreno rivoluzionario
sulla base degli interessi immediati materiali del proletariato. Le analisi
della crisi “ultima” e “irreversibile” della borghesia
e dell’inconciliabilità altrettanto assolutizzata degli interessi
proletari alla ristrutturazione, hanno portato l'O a teorizzare l’apertura
della congiuntura di passaggio alla guerra di classe dispiegata. Di qui l’obiettivo
immediato dell'organizzazione delle masse sul terreno della LA, di qui la perdita
della funzione di partito tesa a costruire la coscienza rivoluzionaria della
classe diventa portato spontaneo della crisi. Di qui la negazione della centralità
operaia a favore di tutti quei settori antagonisti che si opponevano, sino all’uso
delle armi all’attacco della borghesia, al reddito e alle condizioni di
compravendita della forza lavoro.
Il fatto che le BR abbiano rappresentato nella durissima battaglia politica
che portò alle spaccature dell'80 e dell’81, l’unico baluardo
al dilagare dell'antimarxismo e dell'operaismo non è bastato a superate
nella campagna contro la NATO tutto il ritardo, le ambiguità e la debolezza
con cui intendevamo rilanciare il progetto di attacco alla Stato. E questo perché
le BR non si erano liberate ancora di una concezione lineare e progressiva del
processo rivoluzionario tipica d'ogni deviazione economicista che vede indissolubilmente
legata la coscienza rivoluzionaria della classe all’indurimento del rapporto
antagonista tra proletariato e borghesia sul terreno della lotta economica delle
masse; che vede quindi l’attività del Partito piegata e funzionalizzata
alla necessità di rappresentare e soddisfare i bisogni materiali immediati
del proletariato e di dirigere le lotte economiche "allusive" di "comunismo"!
L’identità tra politico ed economico, decretata dall’analisi
idealistica per cui ogni lotta contro la ristrutturazione, nella crisi, diviene
di per sé politica e rivoluzionaria contro lo Stato e il modo di produzione
capitalistico, è frutto della perdita della concezione marxista-leninista
dei compiti di un partito comunista e, peggio ancora, della non più necessaria
finalizzazione dell’attività rivoluzionaria al raggiungimento del
primo obiettivo del processo rivoluzionario: la conquista del potere politico
e l’instaurazione della dittatura del proletariato. La non necessità
quindi di predisporre un piano strategico e tattico in grado di dirigere il
proletariato rivoluzionario sul terreno della guerra di classe, reso possibile
dall’acuirsi della crisi della borghesia e tenendo conto dell’evolvere
della situazione internazionale.
La teorizzazione dei "programmi immediati" ha significato lo stravolgimento
del rapporto Partito/masse, negandone il carattere contraddittorio e appiattendo
la linea politica della nostra Organizzazione alla ricerca di un rapporto diretto,
immediatamente organizzativo, con le masse chiamandole alla lotta rivoluzionaria
sulla base della presunta inconciliabilità assoluta digli interessi materiali
in campo. Il problema dei condizionamenti oggettivi e soggettivi per la crescita
della coscienza e organizzazione rivoluzionaria delle masse e i compiti insostituibili
del Partito per il raggiungimento dì questo fondamentale obiettivo, possono
essere compresi e risolti solo se si mantengono ben saldi i principi del marxismo
e tutta l’esperienza storica del proletariato internazionale che ha abbondantemente
dimostrato come l’andamento di un processo rivoluzionario non sia affatto
lineare, di crescita costante, legato esclusivamente all’oggettivo aggravarsi
delle condizioni di vita del proletariato e alla disponibilità alla lotta,
anche armata, di spezzoni di classe per difendersi dagli attacchi del nemico
di classe al salario, all’occupazione, alla rigidità allo sfruttamento.
Un processo rivoluzionario ha necessariamente un andamento a salti e rotture,
esattamente perché tra coscienza "tradeunionista" delle masse
e coscienza rivoluzionaria c’è un salto ed una rottura determinati
dall’evolvere della situazione oggettivamente favorevole alla rivoluzione
proletaria e all’attività soggettiva di direzione del Partito che
dimostri, nella pratica, non solo la necessità ma anche la possibilità
concreta di combattere lo Stato. Pensare che questo livello di coscienza possa
essere conquistato da tutto il proletariato indistintamente, semplicemente perché
un partito raccoglie intorno a se consensi e simpatie mettendosi alla testa
delle lotte economiche del proletariato e combattendo per la realizzazione delle
rivendicazioni immediate, condanna necessariamente ad una deviazione lineare
e meccanicista, e in definitiva perdente, del processo rivoluzionario.
CONBATTERE E LIQUIDARE IL SOGGETTIVISMO PICCOLO—BORGHESE!
BATTERE L'OPPORTUNISMO E IL DOGMATISMO!
RILANCIARE L’INIZIATIVA RIVOLUZIONARIA SU BASI AUTENTICAMENTE MARXISTE-LENINISTE!
LA SITUAZIONE POLITICA ATTUALE
In questi ultimi anni, nel tentativo di superamento della crisi
politica della borghesia, il ruolo svolto dal partito craxiano è stato
di grande rilevanza. Il fronte politico borghese si trovava infatti bloccato
intorno alle paralizzanti difficoltà in cui annaspava la DC, partito
che storicamente ha sempre rappresentato al massimo livello gli interessi dei
vari Stati borghesi. Una crisi che portava al pettine nodi da troppo tempo irrisolti
e che derivavano dalla composizione sociale stessa della DC, estremamente variegata.
Il tentativo, infatti, di accogliere istanze che ogni componente presentava
non poteva che portare ad un suo parziale quanto immobilistico ingolfamento
(nota 1); a questo poi si aggiungeva lo scatenarsi di sempre più aperte
e cruente faide tra vere e proprie gang interne, il tutto aggravato dal fatto
che il suo massimo stratega, portatore dell’unico vero progetto politico
di grande respiro, per cercare di rispondere alle urgenze imposte dalla crisi
era incappato nel ‘78 in una situazione in cui a poco erano servite tutte
le sue proverbiali arti mediatorie. Tutto questo proprio nel momento in cui
più pressanti si facevano gli impegni richiesti dal grande capitale interno
ed internazionale perché lo Stato borghese assumesse il suo indispensabile
ruolo nel piano delle ristrutturazioni e nella più generale ridefinizione
in senso reazionario dell’intera formazione economica e sociale.
Ecco, nel far fronte ad esigenze di simile portata, si è rivelato più
adeguato un partito come il PSI, le cui contraddizioni interne erano state in
gran parte spazzate via dal golpe operato dal gruppo craxiano che aveva fatto
della decisionista “democrazia governante” la propria bandiera.
Infatti, sul terreno degli indirizzi strategici della borghesia il progetto
centrale, che in questi ultimi anni ha marciato con molta linearità,
è quello sintetizzabile nella parola d’ordine "più
potere all‘esecutivo" superando quei vincoli che in passato rendevano
farraginoso il procedere delle politiche governative.
Questo piano di è dispiegato a vari livelli, dall’accantonamento
di strumenti considerati obsoleti, alla creazione di altri, come il “consiglio
di gabinetto”, che per centralizzazione e conseguente rapidità
meglio si adattano alle esigenze del momento.
In pratica abbiamo assistito alla sempre più chiara emarginazione del
parlamento trattato da Craxi al rango d'ente inutile, funzionante solo come
giungla che protegge i cecchini che attentano alle direttive del governo. Questo
esautoramento del parlamento viene effettuato nell’immediato con il ricorso
in modo continuo allo strumento del decreto legge che rende immediatamente operanti
le decisioni assunte. In prospettiva quello che si vuole imporre è il
cavallo di battaglia adottato da questo governo sin dal momento della sua costituzione,
e cioè la “riforma istituzionale”, che altro non è
che la ridefinizione generale degli strumenti politici borghesi di potere nella
situazione dominata dalla necessità di fronteggiare la crisi del MPC
e in conseguente presenza di una congiuntura internazionale dominata da una
sempre più marcata tendenza alla guerra fomentata dall’imperialismo
americano.
Ovviamente quello contro cui si deve scontrare il disegno reazionario della
borghesia non sono semplicemente i laccioli burocratici o i ritardi meramente
tecnici dovuti all’obsolescenza di certi apparati. Quello che tuttora
contrasta il pieno dispiegarsi dei disegni governativi deve essere ricercato
in quella cosa che il nemico chiama “anomalia italiana” e cioè
nella presenza di un movimento proletario animato da una forte coscienza di
classe che ha sempre reagito agli attacchi più gravi che gli sono stati
portati sul piano delle sue condizioni di vita, sia su quello della più
generale lotta politica, nonostante l’opera di imbrigliamento e sabotaggio
da parte dei sindacati.
L'ultimo esempio in ordine di tempo è l'opposizione militante all’attacco
al salario, che ha visto la classe operaia impegnata in un ciclo di lotte di
intensità e durata che non si vedevano da tempo, costringendo PCI e CGIL
a faticose rincorse nel tentativo di controllare questa lotta; lotta oggettivamente
e soggettivamente politica in quanto condotta a livello di massa, più
per arrivare alla caduta di Craxi che non per il recupero delle lire degli scatti
tagliati (nota 2).
E’ dunque nel conflitto tra le classi, nelle divisioni contraddittorie
che si aprono al suo stesso interno, che si decide il successo o meno del disegno
politico impersonato da Craxi, disegno che si muove con un attacco al proletariato,
che si è dispiegato a vari livelli dal politico, all’economico,
al militare. Il decreto taglia—salari è stato solo uno dei vari
momenti d'attacco concentrico alle condizioni di vita, alla storia di conquiste
e valori che la classe ha imposto negli anni passati. Se in questo il ruolo
principale è stato indubbiamente svolto da forze politiche e sindacali
facenti capo al pentapartito, sarebbe miope limitarsi ad esse. Infatti, in precedenza,
all’indomani della famigerata marcia dei “40.000” che chiuse
con una sconfitta il ciclo di lotte alla FIAT nell’80, si e assistito
ad una offensiva che aveva come obiettivo la demolizione dell’autonomia
politica della classe; tanto che possiamo dire che quella sconfitta fu ricercata,
voluta, vista come un momento indispensabile per arrivare alla dispersione delle
posizioni di classe, politicamente qualificate, che anche alla FIAT si erano
espresse, ben sapendo che quello che sarebbe passato alla FIAT si sarebbe scaricato
poi come una mazzata in tutte le altre situazioni.
Bene, questo disegno è stato portato avanti anche dai revisionisti, anche
da loro sono partite le analisi che, condite con lacrime di coccodrillo, prendendo
a pretesto quella per loro provvidenziale marcia, hanno ancor meglio precisato
il disegno politico sindacale d'aggancio alle istanze dei famigerati "quadri
intermedi", dai tecnici specializzati ai capi reparto, che, se da una parte
costituiscono il braccio delle politiche delle direzioni aziendali, dall’altra
comprendono anche quell'aristocrazia operaia che storicamente è sempre
stata la base sociale di riferimento privilegiato delle varie forme socialdemocratiche.
A partire da questi fatti s'intensifica l'offensiva a quei principi d'egualitarismo
che sempre si erano imposti nella classe. I sindacati, revisionisti in testa,
dicono che i salari si sono troppo appiattiti, che bisogna premiare le capacità
professionali di ogni singolo lavoratore, facendo così sapere che il
massimo possibile di uguaglianza salariale è stato raggiunto in pieno
regime democristiano! In sintonia con questo, da anni assistiamo alla formulazione
di piattaforme contrattuali che vedono richieste di aumento che, dalle categorie
più basse alle altre, registrano sbalzi del doppio e del triplo. Il sindacato
revisionista, che ha cavalcato demagogicamente le lotte in difesa della scala
mobile, ha elaborato un’ipotesi di riforma del salario che ha proprio
nella differenziazione del punto di contingenza, a seconda della categoria professionale
(nota 3), la sua caratteristica principale (qualificante).
A tutto ciò si sono aggiunte analisi da parte di centri studi come il
CENSIS che, pubblicando dati che presumiamo dovremmo prendere come oro colato,
visto che sono stati assemblati negli asettici cieli dell'autonomia della scienza,
tendono a presentare la classe operaia a livello di animale in via di estinzione
e, favoleggiando di terziario avanzato, quaternario (!), si ricollegano all'esempio
americano, ignorando volutamente che, nel quadro della traballante ripresa a
termine USA, i settori da loro indicati hanno assunto personale nella misura
della metà di un settore come l’edilizia! Di concerto con questi
acuti rilievi, gli esperti della presidenza del consiglio fanno sapere di aver
trovato, per combattere la disoccupazione, una cinquantina di nuove professioni
tra cui quella più realistica e con maggior grado di utilità sociale
è indubbiamente quella che discende dal previsto piantonamento del nido
delle aquile a tutela delle uova!!! In realtà, quello che si trovano
di fronte milioni di disoccupati e di operai in cassa integrazione è
la prospettiva di rimanere in una posizione di ricatto e miseria, ricatto dovuto
alla reintroduzione ufficiale della “chiamata nominale” concordata
tra governo—Confindustria—sindacati che taglia fuori prima di tutto
ogni proletario cosciente che sia stato riconosciuto tale e significa miseria
per tutti perché comunque, conosciuti o meno, i dati sono a dimostrare
che chiamate di rilievo non ce ne saranno mai.
Miseria anche per i “fortunati” che sono ancora nelle fabbriche
sotto la continua minaccia di trasferimenti, cassa integrazione, licenziamenti,
in un ambiente sempre più nocivo e stressante, ma che vede il calo verticale
del ricorso alla cassa malattia dovuto alla presenza di un micidiale ed efficace
medicinale chiamato … paura! (nota 4).
L’altro tema che Craxi ha subito individuato per conquistarsi i galloni
di servo prediletto dell’imperialismo USA, è stato quello del maggior
impegno nel rispondere alle sempre più stringenti necessità di
riarmo e d'interventismo che esso esige. Il primo impegno da onorare su questo
terreno era il procedere materiale alla già decisa installazione dei
nuovi missili nucleari USA, ed anche in questo il governo ha dimostrato la sua
volontà di tradurre in pratica il decantato decisionismo infischiandosene
del grande movimento nato per impedire l’arrivo delle nuove testate nucleari;
da una parte sfruttando le ambiguità che in quel movimento esistevano
ed esistono, data la presenza di componenti animate da un’imbelle pacifismo
interclassista, che ignorano quindi, anche volutamente, il disegno complessivo
di tendenza alla guerra come modo per uscire dalla più grave crisi che
abbia mai attanagliato il MPC; dall’altra, mettendo in campo i corpi armati
di polizia e carabinieri con un ordine preciso di stroncare sul nascere ogni
tentativo di impedire, tramite i soliti blocchi umani passivi, l’ingresso
dei mezzi nelle aree destinate all’allestimento delle rampe di lancio.
Si è così assistito all'esibizione da parte dei “figli del
popolo in divisa” di un vitalistico “ottimismo della volontà”
concretizzatosi in pedate e manganellate che si sono stampate anche su onorevoli
posteriori e teste di deputati che incautamente avevano scambiato una base nucleare
con il transatlantico di Montecitorio.
Altro avvenimento su cui l’esecutivo ha dimostrato la sua piena disponibilità
ad allinearsi alle imprese imperiali, è stata la spedizione militare
in Libano per appoggiare il traballante regime di Gemayel. In quest'occasione
si è anche potuta verificare la capacità che lo Stato ha di uniformare
sia l’opposizione parlamentare che i media nell'esigenza di falsificare
i fatti: una spedizione militare è diventata per stampa e televisione
una "missione di pace"; seguendoli poteva sembrare che i reparti più
specializzati dell’esercito, paracadutisti, lagunari, carabinieri fossero
andati a Beirut per montare un ospedale da campo! I revisionisti, per parte
loro, approvano il tutto con un voto parlamentare comune con la maggioranza
così come avevano fatto in occasione dell’altra spedizione militare
nel Sinai, in appoggio al tradimento di Sadat tramite gli accordi di Camp David.
Accordi sui quali le BR hanno espresso la loro opinione giustiziando Hunt che
di essi era il garante. A tutto questo si aggiunga il continuo aumento delle
spese di bilancio del ministero di Spadolini, parallelamente ai tagli per le
spese sociali, il quarto posto nell’esportazione mondiale del materiale
bellico, con tutto ciò che ne segue in fatto di discriminazione e controllo
specialmente in certe aree; il tentativo di “protettorato” su Malta,
le continue ingerenze nel Corno d’Africa, e possiamo allora capire da
una parte i ripetuti riconoscimenti e stimoli a fare di più e meglio
che giungono da Washington e, dall’altra, la vigile attenzione che la
Casa Bianca riserva alla politica estera dell'anello Italia.
Il livello d'integrazione subordinata del nostro paese nei confronti dell’alleanza
atlantica è chiarito ulteriormente dagli ultimi avvenimenti politici
che hanno caratterizzato la solita gara delle forze politiche nostrane a risultare
i detentori di un rapporto privilegiato con gli USA.
L’acutizzazione della tendenza alla guerra e l’importanza sempre
maggiore del Mediterraneo e del Medio Oriente nello scenario internazionale,
pongono nuovi problemi alla collocazione di un paese come l’Italia che
in queste aree trova tradizionalmente un importante interlocutore a livello
economico e commerciale. La consolidata tendenza politica filo—araba italiana
si scontra oggi con un rigido indirizzo politico che privilegia l’asse
USA—Israele in completa aderenza alle politiche imperiali occidentali.
L’ascesa del sionista Spadolini alla difesa, voluta e caldeggiata dagli
americani, è per Washington la migliore garanzia di una maggior funzionalizzazione
dell’Italia agli interessi del blocco occidentale. Questa politica scatena
nel nostro paese contraddizioni interborghesi che, se da una parte non intaccano
i termini dell'alleanza, dall’altra, creano le condizioni per uno scontro
senza esclusione di colpi. Infatti, la maggior “intraprendenza”
dell’ultimo governo in politica estera è l’oggetto principale
delle accuse di poca fedeltà agli alleati occidentali (leggi NATO ed
USA) nel tentativo di perseguire un'ostpolitik giudicata tanto velleitaria quanto
poco gradita agli americani. Gli strilli più scomposti vengono ovviamente
da parte delle forze politiche legate mani e piedi agli ambienti atlantici,
come i fantocci del PSDI, i repubblicani e gran parte della DC che, ad ogni
iniziativa in questo senso della Farnesina, costringono il governo non solo
a fare solenne giuramento di rinnovata fedeltà all’alleanza atlantica,
ma soprattutto a dichiarare che senza il preventivo avallo della Casa Bianca
non è concessa all’Italia alcuna iniziativa "autonoma".
Gli esempi non mancano. Dalle “riflessioni ad alta voce” di Craxi
a Lisbona circa la limitazione delle armi nucleari in Europa; alle sortite di
Andreotti sulla intoccabilità degli accordi di Yalta; alla rissa scoppiata
dopo l’incontro di Craxi ed Andreotti con Arafat; fino alle pilotate provocazioni
di Formica sulle centrali estere di potere sul nostro paese, dalla P2 al ruolo
subordinato agli USA dei servizi segreti italiani. Due sono le conseguenze di
tutto ciò. La prima è che all’Italia non è concessa
alcuna autonomia d'intervento e la possibilità di conservarsi e ritagliarsi
nuovi spazi di mercato in regioni ritenute "zone calde" nel sempre
più precario equilibrio Est/Ovest è soggetta ad un rigido e vigile
controllo da parte degli USA; la seconda, che questa “vigilanza”
viene portata avanti tramite una lotta intestina furibonda i cui argomenti privilegiati
sono costituiti da attacchi terroristici di ogni genere, per dimostrare la vulnerabilità
di chiunque si ponga in posizione di non perfetto vassallaggio nei confronti
degli americani.
Che questa situazione derivi dal ruolo particolare che l’Italia gioca
nel fianco sud—est della NATO è facile capirlo semplicemente facendo
il conto delle installazioni militari USA che il nostro paese “ospita”,
che hanno trasformato le isole e le coste italiane in un'immensa base operativa
al centro del Mediterraneo. Al di là di questi insidiosi incidenti di
percorso, Craxi, sfruttando la posizione di vantaggio data dalla gestione della
presidenza del consiglio, si è impegnato nella conduzione di una spregiudicata
guerra di logoramento che si sviluppa su due fronti essenziali uno contro l’alleato
DC con l’obiettivo di eroderne le ancora enormi posizioni di potere, evidenziandone
le contraddizioni ed i ritardi, squalificandola proprio nel momento in cui essa
cerca di riassumere la posizione dominante dello schieramento borghese che le
è propria; e l’altro contro i revisionisti, ricercando apertamente
ogni occasione di scontro con il PCI, presentandolo come prigioniero della sua
storia ed evidenziando il suo partecipare al movimento pacifista come conseguenza
di presunti rapporti preferenziali con i paesi del Patto di Varsavia.
Lo scopo di questi attacchi è principalmente quello di dimostrare l’incapacità
del PCI di collocarsi effettivamente come partito di governo, in un momento
in cui le forze politiche sono costrette ad affrontare il nodo spinoso del "governare
senza consenso".
Il PSI, nel quadro dell’obiettivo principale di rompere a suo favore l’asse
d'alleanza DC—PCI, che lo ha confinato per anni al ruolo di spettatore
tra i due grandi protagonisti, sta giocando la carta decisiva di conquistare
il ruolo di “ago della bilancia” delle alleanze possibili di governo.
Dati gli innegabili successi ottenuti in questo senso, questo assegna, per il
medio periodo, al pentapartito il compito d'assicurare la governabilità,
al di là delle schermaglie e delle porte che i vari protagonisti si lasciano
aperte nei confronti dei revisionisti per accrescere la propria forza a scapito
degli alleati. Il rafforzamento del PSI nella coalizione governativa, passato
con l’assegnazione a Craxi della presidenza del consiglio, al di là
della sua permanenza o meno a palazzo Chigi, da una parte, è il trampolino
di lancio dei progetti di Via del Corso, dall’altra, è la punta
di diamante delle politiche di ridimensionamento del PCI tese alla necessaria
e imprescindibile rottura definitiva con ogni suo legame residuo con gli interessi
operai e con ogni tentazione "pacifista"; politiche portate avanti
dall’asse oggi dominante Craxi-Carniti-Confindustria che hanno caratterizzato
tanto gli attacchi antiproletari che la lotta per la leadership politica.
Quello che al momento confina fuori dall’area governativa il partito di
Natta non è certo la sua inaffidabilità nell’alleanza atlantica:
il PCI non ha niente da imparare da qualsiasi, partito di governo è lo
ha dimostrato nel dare il suo appoggio alla spedizione militare in Libano e
nella confermata preferenza per la copertura, offerta da "l'ombrello NATO",
tanto che Pajetta, responsabile della politica estera del partito, si è
apertamente schierato contro il movimento popolare che in Sardegna chiede lo
smantellamento della base per sommergibili nucleari NATO della Maddalena. Così
com'è noto che non è da ricercare né nella sua origine
terzinternazionalista, del resto oggetto di pentimento costante, né in
un progetto “alternativo” per il superamento della crisi capitalistica,
il suo ruolo di muro antisovversivo nel traballante edificio borghese che è
ciò che viene più apprezzato dal grande capitale, ruolo rivendicato
apertamente dal PCI, presentandolo come moneta di scambio.
In proposito, sentiamo cosa dice Lama che, analizzando i fatti relativi al decreto
taglia—salari, non tenta neanche di ribadire le ragioni di “giustizia
sindacale” che avrebbero portato a quegli atteggiamenti di CGIL e PCI,
andando diritto al nocciolo politico degli avvenimenti dice: “se noi non
avessimo mantenuto questo rapporto con tanta gente che non era d'accordo sull’operazione,
che sarebbe stato del movimento sindacale in Italia? Se tanta gente l’avessimo
abbandonata a se stessa, che sarebbe successo? Non lo so”.
E siccome questo è il genere d'interrogativi che hanno la capacità
di turbare i sonni e le opere della borghesia, i revisionisti hanno buon gioco
nel presentarsi come garanti del mantenimento nell’ambito delle compatibilità
del sistema dei cicli di lotta che si verranno inevitabilmente ancora a verificare.
Il gioco al rialzo del referendum, anch’esso moneta di scambio, è
un elemento d'ulteriore isolamento del partito di Natta. Un referendum che per
gli stessi propugnatori "non s’ha da fare", è la manifestazione
più evidente delle contraddizioni che attraversano un partito borghese
che cavalca gli interessi operai. Evitare il referendum vuol dire da entrambe
le parti, evitare lo scontro frontale e l’imprevedibile risposta della
classe all’indurimento del conflitto sociale.
Il passaggio obbligato per questo è per le forze borghesi trovare un
accordo politico più che tecnico sulla riforma generale del salario;
che non siano questioni tecniche lo dimostra l’ampia possibilità
che offrono le stesse proposte della CGIL in sintonia con quelle padronali.
Il problema è evidentemente un altro. Finalmente è l‘attacco
alle velleità del PCI. Sostanzialmente è la scelta di innalzare
il terreno di scontro con la classe operaia, scontro perseguito e ricercato
dalla coalizione borghese che negli ultimi anni, ha meglio incarnato le politiche
di attacco antiproletarie sul terreno dell’occupazione e del salario;
o scegliere la strada "pacificatoria" di un nuovo accordo generale,
ancora una volta sulla pelle degli interessi materiali e politici del proletariato,
ulteriore scambio politico tra PCI e governo (nota 5).
E allora quali possibili sviluppi del quadro delle alleanze interborghesi nel
nostro paese? Il dato caratterizzante la famosa “anomalia” italiana
nell’ambito dell'alleanza imperialista occidentale s'identifica con il
livello d'antagonismo e di coscienza politica che il proletariato ha sempre
espresso. Le difficoltà del PCI di accedere alla “stanza dei bottoni”,
il fatto che, anche se inserito nella maggioranza, sia condannato a giocare
un ruolo marginale e subalterno, non sono certo date dalle richieste (e generosamente
date!) dimostrazioni di fedeltà alle istituzioni democratiche borghesi
e al campo dell’alleanza occidentale. Queste difficoltà solo in
parte sono attribuibili al campo d'interessi borghesi che il PCI rappresenta
(aristocrazia operaia, piccola e media borghesia produttiva e commerciale, una
sorta di ambiguo europeismo antimperialista di facciata), che comunque non gli
impedirebbero, e di fatto non glielo impediscono, di condividere le scelte del
grande capitale multinazionale. La reale e più profonda difficoltà
riposa nel fatto che nel nostro paese, e più in generale, una non rappresentanza
politico istituzionale dell'opposizione di classe è l'elemento più
pericoloso per la stabilità del sistema.
La scelta dei revisionisti nostrani di allinearsi alle concezioni d'alternanza
democratica della socialdemocrazia occidentale è di lunga durata. Già
Togliatti, subito dopo la guerra, poteva scambiare la disponibilità del
suo partito al “patto sociale di ricostruzione” (che guarda caso
prevedeva il contenimento dei salari operai e lo smantellamento dell’organizzazione
armata della classe) con un'autorevole poltrona ministeriale. Questa linea venne
poi perfezionata da Berlinguer che, portando a completa definizione la sproletarizzazione
del PCI, all’indomani del colpo di stato in Cile, raccorda i suoi progetti
di ampia alleanza interclassista con gli artifizi antiproletari del boia Moro.
Dal canto suo la DC prima col PSI e poi con il PCI, scandisce le tappe del consolidamento
della cooptazione delle rappresentanze operaie e proletarie, mettendo fuori
legge nei fatti l’opposizione di classe e sancendo che lo scontro politico
potesse avvenire esclusivamente all’interno del gioco democratico—parlamentare
e all’interno degli interessi interborghesi.
La condizione imprenscindibile del funzionamento di questo meccanismo in cui
maggioranza ed opposizione sono reciprocamente alternabili, trova un solo serio
ostacolo: l’impossibilità per la borghesia italiana di assestare
una sconfitta decisiva al proletariato. Infatti, si assiste ai cicli in cui
l’attacco borghese riesce per anni a garantire una relativa pace sociale,
seguiti da altri in cui, a livello qualitativamente sempre più avanzato,
esplode l'antagonismo di classe, sempre poco disponibile a farsi contenere nell’ambito
della contrattazione come Lama & C. vorrebbero. E non perché il proletariato
italiano abbia espresso in queste occasioni coscienza rivoluzionaria, ma perché
la qualità di scontro politico è quella facilmente riscontrabile
nei cicli di lotta che si sono succeduti. E’ proprio per questo che il
massimo progetto proletario di gestione pacificata della crisi, nonostante avesse
anche l’aperto sostegno della CGIL con la “svolta” dell’EUR,
concepito col programma della “solidarietà nazionale”, ha
registrato il più clamoroso fallimento.
Il PCI, costretto a gestire direttamente gli attacchi antiproletari di quella
politica ha dato prova di impareggiabile contorsionismo sino all'invenzione
fantasiosa di “partito di lotta e di governo” per non perdere definitivamente
il controllo sull’antagonismo proletario. Clamorosa rimane l'esibizione
di Berlinguer ai cancelli della FIAT presidiati, nell’80, nello stesso
momento in cui compartecipava ai progetti ristrutturativi a livello più
alto. D’altra parte, il pericoloso costituirsi alla sua sinistra di una
reale e riconosciuta forza comunista come le BR, ha costretto il PCI a smantellare
ogni parvenza residua di partito operaio, per assumere il ruolo di paladino
oltranzista dell’ordine democratico, a dispetto di tutti gli opportunisti
che, con fiumi d'inutili parole, intendevano dimostrare il suo “improvviso”
tradimento degli interessi di classe. D’altra parte lo “indurimento”
dell’opposizione del PCI è sempre stato datato ai momenti in cui
più lontano si faceva e si fa la prospettiva di entrare nell’ambito
governativo e le ultime vicende legate all’ostruzionismo parlamentare
contro il decreto taglia—salari e l’ignobile scambio decretato dal
“galantuomo” Visentini, ne sono l’ennesima e rivoltante dimostrazione.
In queste occasioni si può vedere il PCI nel ruolo di “impareggiabile
controllore delle lotte proletarie”, alternando il freno nell'azione di
piazza all'acceleratore demagogico dell’opposizione parlamentare: il tutto
su un terreno di compatibilità istituzionale. "Senza il PCI non
si governa" è lo slogan che da anni ci vanno ripetendo non solo
i diretti interessati ma anche frange autorevoli del grande capitale, con l’indispensabile
e palese supporto dei media. Ossia senza il contenimento nella rappresentanza
istituzionale dell’opposizione di classe, non è data pace sociale,
non c'è speditezza nell’applicazione delle politiche antiproletarie
e guerrafondaie della borghesia. Al di là di ogni possibile nuova intesa
- stavolta pare ”programmatica”, soprattutto con i repubblicani,
campioni delle politiche antiproletarie e del filo atlantismo viscerale - è
questa la situazione che condanna ad un equilibrio sempre di corto respiro il
quadro di alleanze delle forze politiche italiane. Per questo la sconfitta storica
del proletariato è sempre più la condizione essenziale per il
governo delle contraddizioni politiche e sociali che la crisi accentua sempre
di più; sconfitta alla quale concorrono tutti i partiti che si contendono
il potere nel nostro paese, al di là d'interessi particolari di cui sono
rappresentanti.
Per questo, pur se in forme diverse, come già nel ‘78, la cooptazione
dei revisionisti nell’area governativa è, da un punto di vista
di classe, un segnale molto preciso delle velleità del nemico di classe
di portare a fondo l’attacco liquidatorio antiproletario e controrivoluzionario
al proletariato ai suoi interessi, alla sua unità ed autonomia, e alla
sua rappresentanza rivoluzionaria.
NOTE
1)— Un esempio delle difficoltà in cui viene a trovarsi un partito che deve portare avanti i disegni complessivi della borghesia ma che, al tempo stesso, vuol tutelare anche gli interessi di gruppi particolari di essa e che al partito fanno riferimento, è venuto dal decreto sul fisco, nel quale la DC si è trovata schiacciata da una parte dai commercianti, sua fedele base di consenso, insidiata non tanto dalle poche lire da pagare in più annualmente, quanto dal timore che stia cadendo il muro di privilegio che sempre li ha protetti; dall’altra dall’interesse generale del governo a immolare quelle poche lire sull’altare del nefando “scambio politico” vera foglia dì fico a “copertura” dei recenti attacchi al salario operaio. In questa occasione si è vista una maggiore capacità di intervento di partiti come il PSI e il PRI meno oppressi da incubi elettorali.
2)— Non per pedanteria libresca, ma a fronte anche di “interessati riscoperte” della lotta politica delle masse è doveroso precisare la distinzione tra lotta politica e lotta rivoluzionaria. La politica è il concentrato dell’economia, la traduzione in atti volontari, in organismi, delle differenze e dell’antagonismo tra le classi. La lotta ha carattere politico quando è diretta in termini generali contro i meccanismi e le volontà politiche che presiedono ad un attacco economico o a libertà politiche acquisite o per conquistare tali libertà. La lotta politica delle masse è parte e agente dei rapporti di forza tra le classi, ma di per sé, non mette in discussione né lo Stato borghese né tantomeno il MPC. La politica rivoluzionaria invece, è attività finalizzata contro lo Stato ed i progetti borghesi per l’affermazione degli interessi generali del proletariato. La politica rivoluzionaria, in un certo senso, prescinde da situazioni meramente congiunturali, ma si misura con l'insieme delle contraddizioni prodotte dal MPC, che sono storicamente determinate e sintetizzate nell’attacco ai progetti dominanti della borghesia, in dialettica con il movimento politico della classe. In questo senso è obiettivo definire la Lotta Armata per il Comunismo la forma della politica rivoluzionaria in questa fase storica.
3)—La differenziazione del punto unico di contingenza è, insieme al "salario d’ingresso" (per lo “sviluppo” dell’occupazione), alla flessibilità dell'orario lavorativo e alla riduzione del cottimo, l’asse portante delle proposte di riforma generale del salario. Che questo sia un atto antiproletario non lo nascondono nemmeno gli stessi propugnatori: è loro il ritornello che è il momento di superare i “corporativismi” per sposare un interesse più grande: quello del paese. Da qualche anno a questa parte la politica sindacale si è caratterizzata in un fiancheggiamento e proposizione costante delle politiche economiche dei governi, contemporaneamente ad una ristrutturazione interna tesa ad estromettere la base da ogni decisione. Ad inceppare e rallentare questo disegno, come sempre, è intervenuto il movimento di classe. Qualche sprovveduto forse, sull’ondata del movimento degli autoconvocati e sui demagogici proponimenti del convegno della CGIL a Montecatini, può aver nutrito qualche speranza, tutto sommato, di ravvedimento sindacale. Ma, come era prevedibile, frantumato il fronte dei Consigli di Fabbrica, il progetto di un sindacato alla "svedese" è marciato come un rullo compressore: commissariamento del C.d.F. di Bagnoli; nel C.d.F. di varie aziende ha trovato posto anche la UIL; accordi aziendali che strangolano il diritto di sciopero come alla Saint—Goben e quello stipulato con l’IRI e ....
4)— Tutto questo deve essere tenuto ben presente non solo e non tanto per presentare il conto a chi ha voluto pervicacemente il crearsi di tale situazione, ma per ricordare anche a certi compagni che meccanicisticamente vedono una ineluttabile consequenzialità tra crisi e rivoluzione, in realtà, la crisi economica è sì elemento assolutamente indispensabile alla creazione di una situazione rivoluzionaria; ma deve essere chiaro che da essa possono anche uscire vincenti, con il terrore e la guerra, le forze della reazione.
5)— In questo contesto devono essere respinte con vigile attenzione strane sortite di gruppi o singoli che parlando della linea politica del PCI nel periodo dell’ultimo Berlinguer e oggi di Natta, si chiedono se abbia scelto di avvicinarsi alle posizioni del proletariato. Il PCI è un partito politico borghese. Lo è perché persegue obiettivi del tutto interni al sistema di sfruttamento capitalistico; lo è perché mira alla difesa degli interessi generali della borghesia; lo è nelle componenti sociali stesse del partito. Questa verità tangibile ed interiorizzata, non solo dall’avanguardia rivoluzionaria comunista, che ha provato sulla sua carne la persecuzione politica e militare della canaglia revisionista, ma anche dai settori più avanzati del proletariato, costretti a subire il controllo ed il sabotaggio delle loro iniziative di lotta.
LE LOTTE DEL MOVIMENTO ANTAGONISTA ED I NOSTRI COMPITI
S'impone ora un'analisi delle conseguenze dell’attacco contro la classe
portato dalla borghesia e dalle sue rappresentanze politiche in modo concentrico.
Con l’esplosione del ciclo di lotte, per partire dal ‘68—69,
si era verificato un notevole rafforzamento delle posizioni della classe nel
campo sia strettamente salariale che nella rottura violenta della cappa repressiva
rappresentata dalla rigida gerarchia di fabbrica. Questa aveva costituito un
pilastro indispensabile alla ripresa industriale postbellica ed ebbe la sua
massima espressione esemplificativa nella direzione Vallettiana alla FIAT fatta
di superlavoro, alta nocività, e da un vero e proprio terrorismo politico
che si esprimeva con i licenziamenti o emarginazione nei famigerati reparti
confino nei confronti degli operai comunisti che non piegavano la testa. Lo
"autunno caldo" nel contesto di una generale ripresa dell’iniziativa
di lotta di massa e d'avanguardia, non solo nelle fabbriche ma nel ribollire
dell’intero proletariato, in un panorama internazionale dominato dalle
lotte di liberazione nazionali e dalla rivoluzione cinese, rappresentò
un colpo d'ariete che fece traballare il sistema politico borghese e costituì
la base di partenza dell’attività politica rivoluzionaria d’avanguardia
delle organizzazioni comuniste combattenti.
Superato il momento di sbandamento che queste esplosioni di lotta sempre provocano
nello schieramento borghese, l’esigenza che questo si pose fu di mediare,
compatibilizzare, ricondurre nel reticolo costituzionale quanto potenzialmente
poteva divenire mortalmente pericoloso. E questo dibattito fu perseguito con
la ridefinizione dei rapporti con le rappresentanze istituzionali della classe,
vere e proprie strutture razionalizzanti, e sanzionato per legge con lo “statuto
dei lavoratori”, all’interno del quale è riscontrabile il
chiaro disegno di ratificare ciò che era stato già imposto dal
ciclo montante di lotta da una parte e, dall’altra, di devitalizzare tracciando
gli insuperabili confini con le compatibilità del sistema.
Bene, ora nell’analizzare lo stato attuale dello scontro tra le classi
è evidente che la congiuntura che attraversiamo è assai diversa
dalla precedente, e questo in conseguenza del fatto che, mentre quelle lotte
si collocavano all’apice massimo dell’espansione del sistema produttivo
capitalistico, dove i margini per una mediazione logicamente si dilatano, attualmente
siamo nel pieno di una crisi che non ha una portata ciclica, ma generale storica
che, pur essendo profondamente sbagliato presentare come “ultima spiaggia”
del MPC, può essere la base indispensabile perché lo diventi realmente.
In questo quadro deve essere collocata l’offensiva antiproletaria che
ha oggettivamente ributtato sulla difensiva il movimento di classe. L'attacco
al salario è solo un aspetto della più generale ridefinizione
reazionaria dei rapporti tra le classi. Dalla riforma del collocamento all'introduzione
della mobilita e flessibilità della forza lavoro; dalla parcellizzazione
nei più svariati compartimenti stagni produttivi ai premi alla presenza
ed alla produttività; l’obiettivo che il nemico di classe si propone
è la frantumazione in una babele di microinteressi conflittuali che,
se trovassero la via libera da resistenze, porterebbero ad una sconfitta storica
del proletariato, ad una pacificazione mortifera del fronte interno, situazione
ideale per affrontare le scadenze della dominante tendenza alla guerra imperialista.
Nello sviluppo di questa operazione le rappresentanze politico sindacali della
classe svolgono un ruolo attivo di appoggio e, in vari casi, di elaborazione
diretta dei "piani anticrisi", rendendo sempre più chiaro che
non di errori di percorso si tratta, ma di precisa collocazione nel fronte antiproletario,
pur con diversi gradi di responsabilità. Le politiche di ristrutturazione
e di diversificazione in ampi settori produttivi con la consequenziale espulsione
di forza lavoro, è ciò che impone l’attuazione di un progetto
politico d'intesa tra le “parti sociali” per una ridefinizione generale
del rapporto di compravendita della forza lavoro. E’ in quest'indirizzo
che va ricercata la trasformazione delle funzioni che il sindacato deve svolgere
nelle relazioni industriali: dalla contrattazione “privata” per
settori a quella centralizzata sull’insieme delle politiche ristrutturative,
invadendo così anche campi tradizionalmente "estranei" alla
politica sindacale, provocando nuovi squilibri sia all’interno stesso
dei sindacati, sia tra sindacati e partiti.
Questo fatto è stato evidenziato ampiamente sia dagli accordi del 22
gennaio ‘84 (o ‘83)—14 feb. ‘84 e lo è ancor
più dalla prossima trattativa sulla riforma del salario. Questo fatto
permette di individuare le forze politiche e sindacali trainanti nella proposizione
e materializzazione di questo patto sociale neocorporativo.
Ciò che emerge con chiarezza è l’intrecciarsi e il consolidarsi
degli interessi, finalizzati al governo della crisi di DC, PSI, CGIL, UIL, e
Confindustria che fa di queste forze gli assi portanti per la realizzazione
del progetto stesso. Non si tratta qui di convergenze tattiche relative a poltrone
ministeriali, (anche se nella tradizione della vita politica borghese quale
poltrona occupare è sempre motivo di conflitto nella mafia del palazzo),
ma dell’assunzione di ruoli precisi nel perseguire con tenacia la sconfitta
politica della classe.
Gli effetti di questa nuova impostazione politico—sindacale non si sono
fatti attendere: quello che si presenta è un reale, pericolosissimo svuotamento
delle funzioni politiche e, in alcuni casi, la completa assenza di strutture
organizzate, degli organismi consiliari che svolgono compiti anche di semplice
tutela dei ”diritti sindacali” e di direzione anche della sola lotta
economica. Le poche superstiti, anche a causa dell’isolamento e del particolarismo
localista, o dell’incomprensione dei più generali rapporti di forza
indotti dalle politiche economiche del governo, vengono distrutte non appena
varcano gli angusti limiti tracciati dalla crisi. Un esempio di tutto questo
può essere dato dagli avvenimenti di Bagnoli, dove il C.d.F. non si è
piegato alle imposizioni delle strutture territoriali e nazionali del sindacato
che paravano ad un accordo antioperaio con la direzione aziendale. In conseguenza
di ciò il C.d.F. è stato esautorato dalle sue funzioni con metodi
ricattatori da manuale del perfetto repressore.
I cicli di lotte che seguono a periodi d'apparente inattività, si scatenano
in coincidenza d'attacchi che, in modo particolarmente chiaro e pesante, si
rivolgono contro conquiste ritenute dalle masse punti irrinunciabili nella difesa
dei propri interessi. Queste lotte pur muovendo da considerazioni apparentemente
(…), si trasformano in verità in formidabili cicli di lotte proletarie
che prendono a bersaglio direttamente le scelte centralmente decise dal governo
con un livello d'intensità, durata ed unità, sempre maggiore.
Lungi da noi il pensiero di stabilire un nesso tra lotte economiche e lotte
politiche, come portato ineluttabile del precipitare della crisi, resta il fatto
che i cicli di gen.’83 e feb.’84 hanno assunto un chiaro e rivendicato
contenuto politico antigovernativo. Questo è reso possibile dal fatto
che questi attacchi alla classe vengono gestiti direttamente dall’esecutivo
tramite l’imporsi della trattativa centralizzata fra Governo-Confindustria-sindacati,
secondo il modello neocorporativo che si è rivelato nei fatti il più
efficace nel perseguire i fini del drastico ridimensionamento del peso complessivo
della classe.
Il reazionario “patto sociale” con i suoi rivoltanti “scambi
politici” ridefiniscono il ruolo del sindacato che, specialmente in certi
suoi settori, ne è il diretto promotore, considerando ornai marginale
la sua attività aziendale e privilegiando la compartecipazione diretta
alla elaborazione gestione delle politiche ristrutturative. Ma è proprio
la difficoltà che il dispiegarsi di questo progetto incontra, la dimostrazione
migliore che la sconfitta politica del proletariato nel nostro paese è
tutt’oggi una velleità, velleità non certo priva di reali
possibilità; ma resa sempre più debole dell’enorme potenziale
di lotta e dalla combattività della classe operaia contro le politiche
governative interne, ed internazionali. Il carattere di resistenza che le lotte
hanno inevitabilmente assunto rappresenta un primo momento, la base oggettiva
indispensabile per la ricostruzione di un tessuto organizzativo proletario,
che si è espresso nel modo più chiaro con l’autoconvocazione
delle assemblee dei consigli di fabbrica durante la lotta al decreto Craxi.
Ma se tutto restasse ancorato nel tempo al carattere di pura e semplice resistenza
a difesa di posizioni insidiate, la classe si ritroverebbe chiusa in un vicolo
cieco al termine del quale vi sarebbe una sconfitta di dimensione storica.
Compito nostro, come organizzazione comunista, è proprio quello di rappresentare
gli interessi complessivi del proletariato metropolitano, guidandolo politicamente
nello scontro contro l'irregimentazione reazionaria dell’intera società,
contrastandola con azioni di combattimento che abbiano là capacità
di incepparla, sfruttandone anche le contraddizioni presenti al suo interno.
Assolvendo a questo compito diamo alla classe la materializzazione della prospettiva
strategica, nell’approfondirsi della crisi e nell’accentuarsi dei
preparativi di guerra, cioè la possibilità dell’affermazione
della politica rivoluzionaria in Italia e, ovunque possibile, per la trasformazione
della guerra imperialista in guerra di classe per la conquista del potere politico.
In questa situazione le avanguardie reali che non si sono fatte intrappolare
dentro facili e comodi ripieghi opportunistici, né collocano i loro interessi
politici dentro la tanto decantata “pacificazione” e ”sconfitta
del terrorismo”, a causa di una presunta venuta meno delle ragioni sociali
della lotta rivoluzionaria, hanno di fronte l'unica prospettiva possibile e
reale, contribuire cioè alla costruzione del PCC, alla direzione dell’alternativa
rivoluzionaria e proletaria alla crisi ed alla guerra imperialista. Questa è
la richiesta di direzione che le mobilitazioni di massa esprimono, richiesta
di rappresentare le trasformazioni possibili che la situazione necessita; di
lottare sul terreno politico rivoluzionario per la modificazione dei rapporti
di forza a favore del proletariato; di costruire l’offensiva proletaria
e rivoluzionaria a partire dall’unità ed autonomia che le masse
esprimono contro la ristrutturazione e contro la guerra imperialista.
Dare concretezza e rafforzare la prospettiva rivoluzionaria a cui le mobilitazioni
proletarie tendono oggettivamente e, in parte, soggettivamente, impone ai comunisti
ed alle avanguardie rivoluzionarie di serrare le fila intorno ai compiti principali
di questa congiuntura. E questo a partire da una pratica politico—militare
contro le politiche antiproletarie e reazionarie di pacificazione sociale, contro
le politiche guerrafondaie dell’imperialismo occidentale.
RAFFORZARE L’UNITA’ E L'AUTONOMIA DELLA CLASSE CONTRO LE POLITICHE DI PACIFICAZIONE SOCIALE!
CONSOLIDARE L’UNITA’ DEI COMUNISTI NEL P.C.C!
ATTACCARE E SCONFIGGERE LA COALIZIONE CRAXI-CARNITI-CONFINDUSTRIA, ASSE PORTANTE DEL REAZIONARIO PATTO SOCIALE NEOCORPQRATIVO!
LAVORARE ALLA RIPRESA DELL’OFFENSIVA DEL MOVINENTO RIVOLUZIONARIO PER TRASFORMARE LA GUERRA IMPERIALISTA IN GUERRA DI CLASSE PER LA CONQUISTA DEL POTERE POLITICO!
LA TENDENZA ALLA GUERRA IMPERIALISTA E L’INTERNAZIONALISMO PROLETARIO
La tendenza alla guerra imperialista è oggi la contraddizione
DOMINANTE nel mondo. Essa scaturisce NECESSARIAMENTE dal carattere strutturale
della crisi del MPC e rappresenta ancora una volta la manifestazione e, contemporaneamente,
la controtendenza principale alla crisi, e questo perché L’IMPERIALISMO
NON E' UNA FORMA POLITICA, politica propria di certe consorterie economiche
o militari, ma è lo STADIO RAGGIUNTO DAL CAPITALE NELLA FASE DELL'INTERNAZIONALIZZAZIONE
DELLA PRODUZIONE E DEI MERCATI.
Ancora una volta le potenze imperialiste si apprestano alla distruzione di capitali,
di forza lavoro, merci e forze produttive sovrapprodotte per poter permettere
ai capitali più forti la ripresa di un modello di sviluppo basato su
nuove tecnologie fondate sull’elettronica e sul nucleare, e su un nuovo
ordine economico mondiale. L’epicentro di questa distruzione è
l’Europa, il Mediterraneo, il Medio Oriente, sia per motivi politico-militari
di “confini” con l’avversario del blocco orientale sia per
motivi economici di controllo di materie prime e di maggior concentrazione nei
paesi europei di “obsolescenze” e sovrapproduzione, tanto di tecnologie
che di pezzi di produzione. La tendenza alla guerra si pone quindi come una
NECESSITA' OGGETTIVA che dimostra ancora una volta i LIMITI STORICI DEL CAPITA
LISMO E LA NECESSITA’ STESSA DEL SOCIALISMO. Tutto questo va ben al di
là della "aggressività" o del potenziamento bellico
dei contendenti, non è su queste basi che si può definire chi,
in questa fase, è più interessato allo scatenamento della guerra.
Occorre invece analizzare la base strutturale da cui emerge la necessità
della guerra e questo, per evidenti motivi di particolare acutezza delle sue
contraddizioni e della crisi di sovrapproduzione, L’INPERIALISMO OCCIDENTALE
A DOMINANZA USA, COME IL DIRETTO E PRINCIPALE RESPONSABILE DELLA GUERRA INPERIALISTA,
PERCHE' PIU' "VITALI" SONO I MOTIVI CHE LO SPINGONO AL RIARMO ED A
UNA POLITICA D'AGGRESSIONE IN OGNI PARTE DEL MONDO.
Questa situazione pone all'ordine del giorno la possibilità/necessità
della rivoluzione proletaria e il rinsaldarsi dei motivi d'alleanza del proletariato
internazionale con i popoli progressisti in lotta per la propria emancipazione
dal dominio imperialista. Il compito di riprecisare in termini politici e programmatici
il problema dell'UNITA’ COSCIENTE del proletariato internazionale e dell'ALLEANZA
ANTIMPERIALISTA, è problema anche di ridefinire, a livello internazionale,
il campo proletario e progressista di contro a quello borghese.
La sconfitta della dittatura del proletariato in URSS e in Cina e la riconquista
del potere da parte della borghesia in questi paesi, determina un quadro nuovo
delle relazioni internazionali proletarie all'interno del quale la mancanza,
da molti ani, dell'internazionale comunista, è la dimostrazione della
debolezza e del ritardo dei comunisti di lavorare alla costituzione dell'organizzazione
soggettivamente unitaria del proletariato internazionale. Di più, il
complesso dei paesi "minori" usciti da rivoluzioni vittoriose vive
all'interno - con alterne vicende - di un sempre precario non allineamento che
li costringe ad entrare nell'orbita di una soggezione politica, economica e
militare ora dell'una, ora dell'altra area d'influenza in cui è spartito
il mondo. Rispetto a questi problemi, affermiamo che non è certo con
il rigorismo ideologico dogmatico che si può concepire una politica rivoluzionaria
di alleanze contro il nemico principale. Non è possibile altresì
che questo sia l'imperialismo occidentale. L'equidistanza dai due blocchi e
la collocazione sullo stesso piano dei due contendenti, VA COMBATTUTA E DENUNCIATA
COME AREA PRIVILEGIATA DEL PACIFISMO INTERCLASSISTA CHE, COME SEMPRE NELLA STORIA,
NON SOLO NON IMPEDIRA' NESSUNA GUERRA, MA NON MANCHERA' DI PRENDERE POSIZIONE
A FIANCO DELL'IMPERIALISMO OCCIDENTALE, DANDO PIENA DIMOSTRAZIONE DEL SUO CARATTERE
SCIOVINISTA E INTIMAMENTE BORGHESE.
E questo perché, da sempre, SOLO CHI LAVORA AD ORGANIZZARE LA RIVOLUZIONE
PROLETARIA HA SAPUTO E VOLUTO OPPORSI REALMENTE AL RIARMO ED ALLA GUERRA INPERIALISTA.
AFFERMIAMO DUNQUE CHE L'IMPERIALISMO OCCIDENTALE E‘ IL NENICO PRINCIPALE
DEL PROLETARIATO INTERNAZIONALE E DEI POPOLI PROGRESSISTI CHE CONBATTONO PER
LA PRORPRIA EMANCIPAZIONE POLITICA, ECONOMICA E SOCIALE.
Questo nemico va combattuto, questo nemico è possibile batterlo se si
mette mano ai compiti storici che i comunisti e i rivoluzionari hanno in simili
situazioni, combattendo al contempo ogni ipotesi rinunciataria che fa del riarmo
atomico e dell’apocalisse mondiale il cavallo di battaglia per affidare
al “buon cuore” degli Stati imperialisti, non alla lotta rivoluzionaria,
i destini del proletariato internazionale e di tutta l’umanità.
Per questo l’unità politica e programmatica dei comunisti e l’alleanza
di tutte le forze rivoluzionarie che combattono contro l’imperialismo
occidentale, è la discriminante preliminare per ogni discussione circa
i problemi che la tendenza alla guerra comporta. Questo non vuol dire sottovalutazione
del nemico secondario, costituito dal blocco orientale, LE CUI CATTERISTICHE
CAPITALISTICHE costituiscono l’elemento essenziale per la sua collocazione
relativamente al campo degli interessi strategici del proletariato internazionale.
Il fatto che l’Unione Sovietica abbia snaturato le sue caratteristiche
socialiste all’interno di un rapporto costantemente di minaccia e di aggressione
da parte dell’imperialismo occidentale, nulla toglie al fatto che questo
passaggio sia stato condotto non certo dalla dittatura del proletariato, che
porta necessariamente i suoi interessi dentro quelli della rivoluzione proletaria
mondiale, bensì da quelle della borghesia di Stato che ha sancito la
sua vittoria a livello politico con Kruscev al XX° Congresso e che con la
reazionaria "destalinizzazione" ha portato a termine la distruzione
dello Stato proletario sorto dalla rivoluzione bolscevica.
Il dovere dei comunisti a livello internazionale di costruire concretamente
l’alternativa ai due blocchi di interessi, deve rispondere al compito
di fornire, da una parte l’analisi corretta delle DIVERSE CONTRADDIZIONI
che oppongono il proletariato internazionale e i popoli progressisti ai due
diversi blocchi, dall’altra di lavorare senza indugi alla costruzione,
nella lotta rivoluzionaria, dei livelli necessari di unità ed alleanza
contro l’imperialismo occidentale. delle sue contraddizioni e della crisi
di sovrapproduzione, L’INPERIALISMO OCCIDENTALE A DOMINANZA USA, COME
IL DIRETTO E PRINCIPALE RESPONSABILE DELLA GUERRA INPERIALISTA, PERCHE' PIU'
"VITALI" SONO I MOTIVI CHE LO SPINGONO AL RIARMO ED A UNA POLITICA
D'AGGRESSIONE IN OGNI PARTE DEL MONDO.
E questa situazione pone all'ordine del giorno la possibilità/necessità
della rivoluzione proletaria e il rinsaldarsi dei motivi d'alleanza del proletariato
internazionale con i popoli progressisti in lotta per la propria emancipazione
dal dominio imperialista. Il compito di riprecisare in termini politici e programmatici
il problema dell'UNITA’ COSCIENTE del proletariato internazionale e dell'ALLEANZA
ANTIMPERIALISTA, è problema anche di ridefinire, a livello internazionale,
il campo proletario e progressista di contro a quello borghese.
La sconfitta della dittatura del proletariato in URSS e in Cina e la riconquista
del potere da parte della borghesia in questi paesi, determina un quadro nuovo
delle relazioni internazionali proletarie all'interno del quale la mancanza,
da molti ani, dell'internazionale comunista, è la dimostrazione della
debolezza e del ritardo dei comunisti di lavorare alla costituzione dell'organizzazione
soggettivamente unitaria del proletariato internazionale. Di più, il
complesso dei paesi "minori" usciti da rivoluzioni vittoriose vive
all'interno - con alterne vicende - di un sempre precario non allineamento che
li costringe ad entrare nell'orbita di una soggezione politica, economica e
militare ora dell'una, ora dell'altra area d'influenza in cui è spartito
il mondo. Rispetto a questi problemi, affermiamo che non è certo con
il rigorismo ideologico dogmatico che si può concepire una politica rivoluzionaria
di alleanze contro il nemico principale. Non è possibile altresì
che questo sia l'imperialismo occidentale. L'equidistanza dai due blocchi e
la collocazione sullo stesso piano dei due contendenti, VA COMBATTUTA E DENUNCIATA
COME AREA PRIVILEGIATA DEL PACIFISMO INTERCLASSISTA CHE, COME SEMPRE NELLA STORIA,
NON SOLO NON IMPEDIRA' NESSUNA GUERRA, MA NON MANCHERA' DI PRENDERE POSIZIONE
A FIANCO DELL'IMPERIALISMO OCCIDENTALE, DANDO PIENA DIMOSTRAZIONE DEL SUO CARATTERE
SCIOVINISTA E INTIMAMENTE BORGHESE.
E questo perché, da sempre, SOLO CHI LAVORA AD ORGANIZZARE LA RIVOLUZIONE
PROLETARIA HA SAPUTO E VOLUTO OPPORSI REALMENTE AL RIARMO ED ALLA GUERRA INPERIALISTA.
AFFERMIAMO DUNQUE CHE L'IMPERIALISMO OCCIDENTALE E‘ IL NENICO PRINCIPALE
DEL PROLETARIATO INTERNAZIONALE E DEI POPOLI PROGRESSISTI CHE CONBATTONO PER
LA PRORPRIA EMANCIPAZIONE POLITICA, ECONOMICA E SOCIALE.
Questo nemico va combattuto, questo nemico è possibile batterlo se si
mette mano ai compiti storici che i comunisti e i rivoluzionari hanno in simili
situazioni, combattendo al contempo ogni ipotesi rinunciataria che fa del riarmo
atomico e dell’apocalisse mondiale il cavallo di battaglia per affidare
al “buon cuore” degli Stati imperialisti, non alla lotta rivoluzionaria,
i destini del proletariato internazionale e di tutta l’umanità.
Per questo l’unità politica e programmatica dei comunisti e l’alleanza
di tutte le forze rivoluzionarie che combattono contro l’imperialismo
occidentale, è la discriminante preliminare per ogni discussione circa
i problemi che la tendenza alla guerra comporta. Questo non vuol dire sottovalutazione
del nemico secondario, costituito dal blocco orientale, LE CUI CATTERISTICHE
CAPITALISTICHE costituiscono l’elemento essenziale per la sua collocazione
relativamente al campo degli interessi strategici del proletariato internazionale.
Il fatto che l’Unione Sovietica abbia snaturato le sue caratteristiche
socialiste all’interno di un rapporto costantemente di minaccia e di aggressione
da parte dell’imperialismo occidentale, nulla toglie al fatto che questo
passaggio sia stato condotto non certo dalla dittatura del proletariato, che
porta necessariamente i suoi interessi dentro quelli della rivoluzione proletaria
mondiale, bensì da quelle della borghesia di Stato che ha sancito la
sua vittoria a livello politico con Kruscev al XX° Congresso e che con la
reazionaria "destalinizzazione" ha portato a termine la distruzione
dello Stato proletario sorto dalla rivoluzione bolscevica.
Il dovere dei comunisti a livello internazionale di costruire concretamente
l’alternativa ai due blocchi di interessi, deve rispondere al compito
di fornire, da una parte l’analisi corretta delle DIVERSE CONTRADDIZIONI
che oppongono il proletariato internazionale e i popoli progressisti ai due
diversi blocchi, dall’altra di lavorare senza indugi alla costruzione,
nella lotta rivoluzionaria, dei livelli necessari di unità ed alleanza
contro l’imperialismo occidentale. E questo non è certo velleitarismo,
ma trova la sua base oggettivamente favorevole nelle difficoltà che le
imprese imperialiste occidentali incontrano in tutto il mondo da Grenada a Beirut,
fino all'impossibilità di risolvere con un colpo di mano il "problema"
del Nicaragua; nell'eccezionale mobilitazione di massa contro i missili americani
nelle metropoli europee e nella ripresa unitaria dell'attacco alla Nato delle
guerriglie in Europa e nell'America del Nord.
La crisi del MPC sta creando condizioni favorevoli alla lotta proletaria in
tutti i paesi occidentali. Sta creando altresì le basi per l'identificazione
del nemico comune costituito dalle politiche ristrutturative della borghesia
imperialista attuate ovunque tramite l'attacco alle condizioni di vita del proletariato
e la crescente mobilitazione e riarmo di tutti i paesi dovuti ai preparativi
di guerra.
Queste condizioni generano contraddizioni sociali sempre più acute -
ovviamente a diversi livelli - ponendo al centro il compito da parte dei comunisti
di lavorare all'unità cosciente del proletariato sul piano della rappresentanza
dei suoi interessi generali: il Partito Comunista Combattente. Solo così
sarà possibile perseguire l'obiettivo della direzione rivoluzionaria
dello scontro sociale acutizzato dalle misure anticrisi prese da tutta la borghesia
occidentale, e dimostrato da cicli di lotte antagoniste che stanno scuotendo
tutta l'Europa. Solo così sarà possibile lavorare per la crescita
della coscienza rivoluzionaria del proletariato e conquistarlo al programma
dei comunisti: il potere politico, staccando dalla catena imperialista tutti
quegli anelli dove si creeranno le condizioni favorevoli.
Lavorare a rafforzare la costituzione del polo soggettivo di direzione dello
scontro di classe verso l'obiettivo del potere politico e la dittatura del proletariato,
è precisare i termini della proposta strategica della Lotta Armata per
il Comunismo al proletariato del proprio paese, sono le basi per l'unificazione
politica ed organizzativa più generale dei comunisti a livello internazionale,
la linfa vitale per un'effettiva politica internazionalista.
La lotta contro l'imperialismo occidentale è una caratterizzazione comune
a tutte le forze rivoluzionarie, indipendentemente dagli obiettivi strategici
che esse perseguono, siano essi la liberazione nazionale o la conquista proletaria
del potere politico. Le BR per la costruzione del PCC si collocano oggettivamente
e, ancor più, soggettivamente all'interno di questo FRONTE DI LOTTA ALL'IMPERIALISMO.
I fini strategici che ci proponiamo, il programma e la pratica rivoluzionaria
che portiamo avanti si scontrano necessariamente con gli interessi complessivi
della catena imperialista occidentale. Per questo motivo le BR HANNO FATTO DELLA
LOTTA MILITANTE ANTIMPERIALISTA UN PROPRIO PUNTO DI PROGRAMMA IRRINUNCIABILE,
UNA COSTANTE DELLA PROPRIA PROGETTUALITA' POLITICA E PRATICA COMBATTENTE, COME
STANNO A DIMOSTRARE LA CATTURA DEL GENERALE DELLA NATO DOZIER E LA CONDANNA
A MORTE DEL "DIPLOMATICO" HUNT.
Queste campagne contro la Nato non sono state finalizzate al sostegno militante
alle guerre di liberazione nazionale e d'emancipazione dei popoli oppressi dall'imperialismo
(semmai questo ne costituisce l'elemento oggettivo), ma sono state concepite
come UN PUNTO DI PROGRAMMA FONDAMENTALE PER IL PROCESSO RIVOLUZIONARIO NEL NOSTRO
PAESE. Con queste motivazioni la nostra pratica militante SI COLLOCA ACCANTO
E INSIEME A QUELLA DI TUTTE LE ALTRE FORZE RIVOLUZIONARIE ANTIMPERIALISTE, e
questo perché l'interesse generale del proletariato europeo è
fortemente unito a quello dei popoli progressisti. E' questo intrecciarsi di
interessi che forma la base comune nella quale ricercare il confronto politico,
i livelli di cooperazione e solidarietà militante e l'unità di
programma tra le organizzazioni rivoluzionarie, fuori da settarismi ideologici,
ma al tempo stesso nel rispetto e nella salvaguardia della reciproca progettualità
politica strategica. In questo modo le BR intendono lavorare al RAFFORZAMENTO
E AL CONSOLIDAMENTO DEL FRONTE DI LOTTA ALL'IMPERIALISMO, perseguendo, al suo
interno, anche l'obiettivo politico dell'UNITA' INTERNAZIONALE DELLE FORZE RIVOLUZIONARIE
MARXISTE.
GUERRA ALLA GUERRA ! GUERRA LLA NATO !
RAFFORZARE E CONSOLIDARE IL FRONTE DI LOTTA ALL'IMPERIALISMO OCCIDENTALE !
ALLEANZA DEL PROLETARIATO INTERNAZIONALE CON I POPOLI PROGRESSISTI ANTIMPERIALISTI !
UNITA' INTERNAZIONALE DEI COMUNISTI !
Brigate Rosse
per la costruzione del
Partito Comunista Combattente
Marzo 1985