Biblioteca Multimediale Marxista
Tratto dagli atti del processo "Conti"
Il processo rivoluzionario in ogni paese e in ogni epoca non
segue mai un percorso lineare, perennemente crescente su se stesso, ma è
continuamente segnato da vuoti politici che si traducono in rotture con le precedenti
esperienze di lotta di classe.
Momenti in cui la classe e le sue avanguardie, con alle spalle un patrimonio
consolidato di otte ed iniziative, si trovano a dover affrontare una fase nuova
di ricerca, di battaglia politica, di sperimentazione.
Questa è anche la nostra esperienza.
La lotta armata nasce in Italia, agli inizi degli anni ’70, come ipotesi
politica rivoluzionaria per il comunismo.
Nasce quindi come rottura soggettiva di alcune avanguardie comuniste, contro
la pratica sociale interclassista e le proposte politiche perdenti del revisionismo,
come costruzione di un punto di riferimento strategico rivoluzionario, radicato
nella classe.
La base materiale di questa scelta soggettiva veniva dalla maturità dello
scontro di classe, che, dopo il biennio 68-69, da un lato aveva visto crescere
il bisogno strategico di dare una risposta ala problema del potere da parte
della classe, dall’altro aveva visto la necessità di rispondere
al violento contrattacco borghese messo in atto contro quel movimento della
classe con repressione, licenziamenti delle avanguardie di fabbrica, stragi
di stato e conseguente caccia al sovversivo.
Questa scelta di rottura si manifesta come iniziativa combattente per propagandare
e radicare nel proletariato la coscienza della possibilità e necessità
della lotta armata per il comunismo.
Si trattava dunque di radicare una IDEA FORZA tra le avanguardie di classe,
di condurre una battaglia politica tra i comunisti, per definire i contorni
essenziali, dopo un’assenza di venti anni, di un progetto politico per
la rivoluzione comunista.
In questo quadro le BR hanno ripreso le categorie fondamentali del Marxismo-Leninismo
e messo giustamente al centro della loro iniziativa l’agire da partito
–pur non essendo ovviamente un partito- e la centralità della Classe
Operaia, come espressione del massimo livello di antagonismo contro il capitale.
Questa non era una nostalgia libresca ma realtà quotidiana e visibile.
Infatti è dal potenziale di lotta e dalla coscienza politica della classe
operaia, sviluppata in quegli anni nelle grandi fabbriche del Nord, alla Pirelli,
alla Fiat, che si concretizza il salto alla lotta armata, come passaggio necessario
per portare questa forza al suo stadio superiore, a misurarsi col problema del
potere.
CENTRALITA’ OPERAIA, dunque come sintesi di due elementi di fondo della
nostra analisi: il metodo Marxista, che considera centrale la produzione capitalistica
di plusvalore e quindi la classe operaia centrale all’interno del Proletariato
Metropolitano, e l’accumulo di potenziale di forza e proposta politica
espresse dalle lotte di quegli anni, al loro punto più alto.
Questa capacità di rottura e di affermazione di una IDEA FORZA ha segnato
da allora tutti questi dodici anni di lotta.
Questo è stato l’obiettivo perseguito e raggiunto con quella iniziativa
politica e militare che abbiamo chiamato “propaganda armata”.
Un patrimonio proletario che nessuno può negare o liquidare.
L’accumulo di forza raggiunto all’interno delle fabbriche, con la
rottura nei confronti del revisionismo, rendeva necessario un salto politico
che proiettasse questa forza a un livello più alto.
Un salto capace di superare i limiti delle tematiche di fabbrica e le varie
deviazioni dell’operaismo e del sindacalismo armato, presenti anche in
quegli anni nel movimento rivoluzionario.
Salto politico per trasformare questo potenziale in progetto complessivo di
potere contro lo Stato.
Nel ’74 l’individuazione del progetto “neo-gollista”
e il sequestro Sossi, materializzano per la prima volta la parola d’ordine
dell’attacco al “cuore dello Stato”, in cui la lotta armata
supera la dimensione dell’idea forza per diventare ipotesi politica strategica,
punto di riferimento rivoluzionario per tutto il proletariato, oltre che per
la Classe Operaia.
Di questo periodo di “propaganda armata”, si deve rilevare l’aspetto
positivo di aver posto al centro dell’iniziativa l’asse strategico
dell’attacco al cuore dello Stato, ma, nello stesso tempo, non si riusciva
a porre correttamente il problema di una TATTICA e di una STRATEGIA rivoluzionaria
che potesse orientare concretamente, in quel contesto, lo scontro di classe.
Ci si limitava a contrastare di volta in volta i progetti del nemico, senza
però esplicitare un progetto proletario.
Questo limite in quegli anni era poco avvertibile per la natura stessa dei compiti
che la guerriglia si poneva, ma è diventato esplosivo dopo il ’78.
Gli anni che precedono la “campagna di primavera” del ’78
vedono un crescente sviluppo dell’antagonismo proletario.
In tutte le maggiori città italiane l’autonomia proletaria, ben
al di là del movimento politico “autonomo”, esplode in lotte
di massa, in gran parte fuori dal controllo delle forze revisioniste e dei sindacati.
Sono anni in cui la “propaganda armata” crea una vasta dialettica
con le avanguardie proletarie di tutti i settori di classe, influenzandone il
dibattito, la formazione politica, le pratiche di lotta.
Le lotte operaie che uscivano di frequente dai limiti delle fabbriche e anche
il marzo del ’77, con le molteplicità e la radicalità delle
sue forme, andavano a dare corpo e vitalità ad un movimento antagonista
e a un movimento rivoluzionario di vaste dimensioni.
Al tempo stesso la borghesia, alle prese con la crisi economica e con la forte
presenza dell’antagonismo proletario, metteva a punto un progetto politico
articolato, per affrontare la necessità di ristrutturazione complessiva
della produzione, cercando di controllare con le mediazioni possibili lo scontro
di classe.
A questo serviva il coinvolgimento subordinato dei revisionisti, cui veniva
affidato il compito di costruire il consenso proletario alle scelte del capitale,
in cambio di un “profumo di partecipazione al governo”.
In altre parole, oltre che nella coscienza soggettiva delle BR, è nella
realtà stessa dello scontro a maturare l’esigenza proletaria di
FAR SALTARE il progetto neo-corporativo della “solidarietà nazionale”,
organizzando e dirigendo la FORZA POLITICA RIVOLUZIONARIA DI TUTTA LA CLASSE,
capace di coagulare intorno ad una unica strategia tutto il potenziale rivoluzionario.
Con la “campagna di primavera” le BR operano la sintesi politica
e la rottura soggettiva necessaria che permette di dare soluzione alle due esigenze.
La D.C. è l’ anima “nera” del sistema di sfruttamento
e di potere in Italia, nemico riconosciuto e attaccato da 30 anni di lotta proletaria.
Del progetto di “solidarietà nazionale” Moro era lo stratega
principale.
Con la campagna di primavera la capacità di disarticolazione raggiunta
è tale da esaltare e amplificare il ruolo politico della Lotta Armata.
Tanto che numerose avanguardie, al cui interno sono rappresentati vari strati
del proletariato metropolitano, fanno propria la pratica combattente, come forma
di lotta con cui dare maggior forza alla loro “capacità contrattuale”.
L’ampio sviluppo delle lotte e della pratica combattente crea intorno
alle BR un clima di grande aspettativa politica.
Alla luce della “campagna di primavera”, risultano chiaramente inadeguate
le tesi che propugnavano la lotta armata per singoli settori di classe antagonisti,
oppure come coordinamento della “guerriglia diffusa”. Ma più
che la battaglia politica interna al movimento rivoluzionario, conta il fatto
che la critica di massa al revisionismo e alla linea liquidatoria del “compromesso
storico” ponevano il problema del Partito Comunista Combattente e della
definizione di una strategia che, mettendo al centro l’interesse generale
della classe, producesse una tattica rivoluzionaria adeguata al nuovo contesto.
Ponevano cioè il problema di superare la concezione limitata di Organizzazione
Comunista Combattente, per assumere invece il ruolo politico che quella stessa
coscienza di classe, pur a vari livelli di maturità, rendeva possibile:
una forza politica, rivoluzionaria e combattente, in grado di dirigere l’intera
classe, e non solo le avanguardie già militanti.
Parafrasando Lenin, diciamo che una forza politica mostra la sua serietà
andando senza remore all’individuazione degli errori commessi, senza paura
per le possibili strumentalizzazioni che il nemico può fare di questa
autocritica.
Fare questo bilancio è un nostro dovere rivoluzionario nei confronti
del movimento di classe, perché si costituisca una dialettica che faccia
vivere i contenuti più avanzati di questa esperienza politica.
E’ nostro dovere difendere questo patrimonio contro tutti quelli che lo
vogliono liquidare, magari nascondendosi dietro una fraseologia pseudo-trasgressiva,
estremistica, neo-anarchico.
La conclusione della “campagna di primavera” ci ha posto davanti
ad un vastissimo antagonismo di classe, differenziato, con livelli di coscienza,
pratiche di lotta e forme organizzative, che vedevano nelle BR il momento di
riferimento e di possibile direzione rivoluzionaria.
Un movimento che ci chiedeva “Che fare?”.
A questa domanda abbiamo risposto lanciando la parola d’ordine: “conquistare
le masse sul terreno della lotta armata”.
Ossia abbiamo riproposto a tutta la classe gli stessi criteri e moduli organizzativi
che avevano caratterizzato la nostra battaglia politica tra le avanguardie comuniste.
Abbiamo proposto la semplice estensione quantitativa della lotta armata con
una concezione essenzialmente guerrigliera dello sviluppo del processo rivoluzionario
nel nostro paese.
La lotta armata nelle metropoli assume certamente le forme guerrigliere ma non
deve assumerne la concezione.
Assumerle nel nostro paese è stato un errore.
SU COSA POGGIAVA QUESTO ERRORE?
La pesante disarticolazione del progetto politico della “solidarietà
nazionale” aveva messo in discussione gli equilibri all’interno
della borghesia e tra le classi.
Appariva chiaro che, al di là delle bellicose dichiarazioni dei notabili
DC, nessuno era in grado di riproporsi come mediatore tra le diverse consorterie,
ma soprattutto che nessuno era capace di formulare una proposta politica di
ampio respiro.
Negli anni successivi la “solidarietà nazionale” è
stata infatti sempre più un “fantasma”, che evocava un progetto
politico morto e sepolto.
Questo era un fatto concreto e incontestabile. Così come lo era la fine
dell’illusione berlingueriana.
Questo dato di fatto diventava però, nella nostra analisi, l’esaurimento
della capacità della borghesia di imporre i suoi progetti attraverso
la mediazione politica. Arrivavamo a dire che: “nelle nuove condizioni,
determinate dalla campagna di primavera, la borghesia è costretta a trasferire
sul terreno militare quello stesso controllo che fino a quel momento era riuscita
ad esercitare attraverso gli apparati politici, sindacali, ideologici”.
Questo modo di ragionare equivale a non capire che lo Stato, pur gravemente
sconfitto su un preciso progetto politico, non perdeva solo per questo la funzione
di regolatore borghese dello scontro sociale, attraverso una calibratura di
interventi tanto politici quanto militari.
Tanto è vero che borghesia, pur non riuscendo a definire un uovo progetto
politico complessivo, riusciva ugualmente a prendere iniziative, ance se contraddittorie
e di corto respiro, sui nodi della politica economica e della politica istituzionale.
Iniziando con i licenziamenti nelle grandi fabbriche e le leggi antiterrorismo
ad attaccare la lotta armata e le forme più avanzate dell’antagonismo
proletario.
Con questa errata impostazione abbiamo perso la capacità di individuazione
e di attacco al progetto politico, che costituisce il vero “cuore dello
Stato”, e ci siamo incamminati sulla via dell’attacco alle strutture
dello Stato, al reticolo delle sue articolazioni ed apparati.
Una simile concezione ha prodotto due errori speculari e complementari.
Sul terreno della pratica combattente ha frammentato, pur intensificandola,
l’iniziativa, portandola a riproporre l’intervento su DC, “forze
militari e capi reparto”.
Sul terreno della direzione del movimento antagonista, ha indirizzato il nostro
dibattito e la nostra tensione politica unicamente verso quei livelli di movimento
che già praticavano forme di lotta armata, perciò il centro della
nostra attenzione politica non erano tutto il complesso dei livelli di organizzazione
e coscienza proletaria che si ponevano come movimento fuori e contro la dialettica
istituzionale e legale della borghesia e dei reazionari, fuori e contro la politica
borghese.
Così il rapporto fra partito rivoluzionario e la classe si sviliva e
si limitava al rapporto organizzazione-movimento rivoluzionario, un rapporto
che non riusciva a vedere il ruolo decisivo delle masse nello scontro politico
generale.
A questo contribuiva organicamente l’errata analisi della crisi capitalistica.
La visione della crisi, come crisi irreversibile, permanente faceva da sfondo
alla “fine” dell’esistenza della politica nel rapporto di
scontro fra le classi.
La precipitazione imminente delle condizioni di vita avrebbe costretto la classe
ad impugnare spontaneamente le armi a difesa dei propri bisogni immediati.
Si arrivava così alla visione della lotta armata come il TUTTO della
politica proletaria nella metropoli.
E’ a questo punto che l’idealismo soggettivista trova lo spazio
per affermarsi anche dentro le B.R.
Scaduta la capacità di individuare il progetto politico dominante della
borghesia, la linea politica di “conquistare le masse sul terreno della
lotta armata” si concretizza in pratica combattente sui singoli bisogni
proletari, come propaganda per vincere sui bisogni.
Questa costruzione teorica ci ha portato ad oscillare continuamente, tra l’assumere
come referente unico aree di movimento già combattente, e il considerare
come sul punto di armarsi i movimenti di massa che si opponevano, e si oppongono,
ai progetti di ristrutturazione della borghesia.
In altri termini, parlando a vanvera di masse armate, ci siamo limitati a confrontarci
con più o meno ristrette strutture combattenti, oppure consideravamo
queste come l’anticipazione del percorso che avrebbero compiuto le masse.
NON E’ QUESTO IL PERCORSO DELLA RIVOLUZIONE NELLE METROPOLI!
Concepire la lotta armata come “forma di lotta”, come modo per vincere
sui singoli bisogni, è stata la base teorica che ha portato prima allo
spezzettamento delle iniziative politiche, poi alle scissioni organizzative.
Vediamo perché: il Proletariato Metropolitano non è una totalità
omogenea, una sommatoria di figure indistinte e equivalenti. Ma un insieme di
figure, differenziate dalla propria funzione nel processo di produzione e riproduzione
dei rapporti sociali capitalisti. Sono differenze che pesano nella comprensione
dei reali rapporti esistenti, sulle valutazioni della propria collocazione come
singolo strato di classe. Ogni strato di proletariato, perciò, ha un
complesso di esigenze materiali, culturali e politiche (che vengono genericamente
chiamate “bisogni”) che da un lato lo identificano e socializzano
in modo preciso, dall’altro lo differenziano da ogni altro strato.
Mettere al centro dell’iniziativa politica i “bisogni”, invece
che l’attacco al progetto politico dominante, porta a dividere le iniziative
stesse, ricalcandole sulle diverse particolarità. Ed è quanto
si è verificato.
Le colonne dell’organizzazione, situate nei vari poli metropolitani, dall’
’80 in poi, hanno affrontato il problema del radicamento nelle situazioni
mettendo al centro contraddizioni specifiche, locali. Contraddizioni diverse
da città a città.
Così l’aumento del radicamento e disgregazione della linea politica
sono andate di pari passo.
Priva di una linea politica che cogliesse la contraddizione principale (quella
tra movimento di classe e pratiche della borghesia) e l’aspetto principale
di questa contraddizione, vale a dire il progetto politico dominante in una
data congiuntura; priva di una strategia generale misurata sulla situazione
concreta, l’organizzazione BR ha finito per assumere tante identità,
quanti erano i poli principali di intervento.
Le scissioni dell’ ’81 sono la conclusione organizzativa di un processo
di frammentazione politica in atto da tempo.
Per invertire il processo disgregativo era necessario ricostruire l’identità
politica dell’organizzazione, ponendosi sul terreno dell’interesse
generale della classe, individuando e attaccando il progetto politico dominante
della borghesia.
L’aggravarsi della crisi generale del capitalismo, la crescente aggressività
dell’imperialismo USA e dei suoi alleati europei, con l’Italia in
prima fila, specialmente nel Mediterraneo e nel Medio Oriente, il peso crescente
delle spese militari a danno di quelle sociali, facevano dell’attacco
alla NATO, al suo ruolo politico-militare, la scelta strategica su cui la nostra
organizzazione intendeva ridefinire il proprio ruolo nel movimento rivoluzionario
e rispetto alla classe, collegandosi ai movimenti di massa contro la guerra
e la NATO in Italia e in Europa e alle iniziative combattenti sviluppate da
altre forze rivoluzionarie.
E’ così che nasce l’operazione Dozier.
Questa scelta era del tutto corretta, tatticamente e strategicamente, ma pagava
necessariamente il prezzo della confusione politica e della debolezza di impianto
generale in cui era maturata.
In concreto l’Organizzazione non aveva una chiara coscienza della portata
generale della battaglia che affrontava, la mobilitazione, la propaganda, l’agitazione
del movimento rivoluzionario e nella classe erano complessivamente inadeguate
al livello di scontro a cui si doveva (e si deve) combattere.
Non si comprendeva che si attaccava la politica generale dell’imperialismo
in Italia, e non un apparato militare, sottovalutando grossolanamente la portata
politica dell’attacco sferrato allo stato italiano e alla NATO.
La portata della sconfitta, che abbiamo subito con il fallimento dell’operazione
Dozier, non è misurata dalle centinaia di arresti e dalla distruzione
di buona parte delle realtà organizzate del movimento rivoluzionario,
ma dal peso che questa sconfitta ha oggettivamente assunto nel rapporto di forza
generale tra proletariato e borghesia imperialista, tra rivoluzione controrivoluzione.
L’autocritica, la ridefinizione doveva necessariamente investire tutta
la nostra linea politica negli ultimi anni, tutto l’impianto generale
che era alla base di questa errata linea politica e del nostro rapporto con
la classe.
LA RITIRATA STRATEGICA
Al nostro interno avevano trovato spazio deviazioni idealiste, speranze illusorie
di vittorie dietro l’angolo, presuntuose sopravalutazioni della nostra
capacità di essere direzione rivoluzionaria della classe.
Abbiamo dovuto imparare, ad un prezzo durissimo per il proletariato e la nostra
organizzazione, che il processo rivoluzionario non si sviluppa mai in modo lineare,
progressivo ma attraverso rotture oggettive; che il processo rivoluzionario
è ininterrotto e avanza per tappe, che pongono esigenze nuove; che il
processo rivoluzionario comprende necessariamente vittorie e sconfitte, arretramenti
e avanzate; che lo sviluppo del processo rivoluzionario non si può misurare
esclusivamente con la crescita dell’estensione militare della guerriglia.
L’autocritica non è stata solo una riflessione sulle nostre “idee
e illusioni”, una rilettura critica, per altro necessaria, dei nostri
scritti di organizzazione, ma abbiamo riletto la nostra pratica sociale, il
nostro rapporto con le masse, la nostra elaborazione teorica, a partire dal
recupero del patrimonio rivoluzionario del marxismo-leninismo.
L’iniziativa combattente è la CONDIZIONE, oggi più che mai,
per il dispiegamento e l’esistenza della politica rivoluzionaria, ma se
la progettualità e i contenuti rivoluzionari vengono riportati esclusivamente
alla “forma-guerriglia”, non hanno concreti contenuti offensivi;
la guerriglia divenuta endemica e, alla lunga, facilmente annientabile dallo
Stato.
Non a caso tutte le forze guerrigliere che sono scivolate sulla china dell’idealismo
soggettivista (se non addirittura nel terrorismo puro e semplice) non solo sono
state completamente annientate dallo Stato, ma la loro attività è
stata duramente criticata dal movimento rivoluzionario e considerate estranee
dal movimento di massa antagonista.
Per poter costruire un nuovo impianto teorico e politico e una nuova linea,
le “Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente,
hanno proposto la “ritirata strategica”, per rimettere al centro
dell’iniziativa l’attività generale delle masse.
La proposta di “ritirata strategica” era perciò rivolta alle
Organizzazioni Comuniste Combattenti e non alla classe, proprio perché
si era constatata l’arretratezza, e quindi la mancanza di reale direzione
da parte di queste organizzazioni, al cui interno, per dirla con Lenin, “c’è
della gente che è pronta a presentare le deficienze come virtù,
e persino a tentare di giustificare teoricamente la propria sottomissione servile
alla spontaneità”.
Ritirata, quindi, da una posizione che non era realmente avanzata “come
stupidamente ha pensato qualcuno), ma da una posizione CONCRETAMENTE INADEGUATA
ai nuovi compiti di fase, e dunque, in ultima istanza, codista rispetto alle
masse. Ritirarsi tra le masse, pertanto, non ha mai significato “sciogliersi
nel movimento per ricominciare da zero”, né abbandonare la STRATEGIA
DELLA LOTTA ARMATA PER IL COMUNISMO.
Al contrario, ha significato riconquistare la fiducia e la solidarietà
della classe, ha significato lottare contro i progetti di ristrutturazione e
resa.
Ha significato lavorare per ricostruire una direzione politico-militare all’interno
della classe, rapportandosi ai diversi livelli dell’antagonismo, senza
per questo perdere l’autonomia relativa della nostra organizzazione.
Ha significato evitare errori più gravi ancora di quelli commessi precedentemente,
abbandonare un impianto che, non mettendo al centro l’attività
generale delle masse, si dimostrava ARRETRATO, rispetto alla crescente domanda
di direzione rivoluzionaria, posta oggettivamente dal movimento antagonista.
In questo senso l’organizzazione ha avviato un processo di critica-autocritica-trasformazione,
dentro il movimento rivoluzionario e il movimento antagonista del PROLETARIATO
METROPOLITANO; ha analizzato la natura degli errori per cercare di superarli
e misurarsi, attraverso la definizione di una politica rivoluzionaria, con la
realtà concreta dentro cui vive ed è possibile e necessario lo
sviluppo della rivoluzione proletaria.
Quindi nella dialettica continuità-rottura, rispetto alla pratica sociale
degli ultimi anni, l’organizzazione ha dato priorità alla rottura,
per abbandonare un impianto teorico-politico attraversato da profondi vizi di
idealismo, soggettivista, e non basato sulla analisi concreta della realtà
concreta. La rottura con gli errori del passato comporta anche il recupero della
continuità con la storia delle Brigate Rosse, con la loro pratica sociale
di combattimento, che ha segnato questi dodici anni di lotta di classe in Italia,
recuperando in particolare quella più significativa e politicamente efficace,
come la campagna di primavera del ’78, che ha dato forza e originalità
al possibile sviluppo del processo rivoluzionario nelle metropoli imperialiste.
Questo non vuol dire continuare la linea della “Propaganda Armata”,
pratica che si è oggettivamente esaurita con quella campagna, ma rivalutare
ed esaltare la forza politica e militare rappresentata dalle Brigate Rosse nel
portare l’attacco al “cuore dello stato” in quella congiuntura,
nel disarticolare un quadro politico istituzionale.
Questo patrimonio non può essere annullato dalla resa di un pugno di
traditori, né tanto meno dalla linea di liquidazione portata avanti da
una pattuglia di “santoni”, convertititi al ruolo di “nuovi
filosofi”.
Il ruolo strategico della Lotta Armata, la necessità della conquista
del potere politico, la costruzione del Partito, la Centralità Operaia,
l’attacco al cuore dello Stato, sono conquiste definitive, teoriche e
politiche, del proletariato e della nostra organizzazione.
Non si può annullare un percorso storicamente determinato dalla lotta
di classe ed incancellabile dalla memoria storica del proletariato. Questo è
stato il significato della nostra scelta di “Ritirata Strategica”,
per riproporre oggi una collocazione attiva e combattente dentro i compiti nuovi
e complessi di questa fase del processo rivoluzionario, anche se rimane il problema
della ricostruzione complessiva dell’impianto teorico e politico, che
del resto è problema che riguarda il dibattito interno di tutto il movimento
rivoluzionario.
PER RIPRENDERE L’INIZIATIVA
Fare delle proposte politiche, entrare nel dibattito della realtà attuale
dello scontro di classe, significa, per dei materialisti, entrare nel merito
dell’analisi della fase e delle sue tendenze.
L’attuale crisi è crisi generale del modo di produzione capitalista:
è crisi di sovrapproduzione assoluta di capitale, che si protrae da oltre
un decennio.
La crisi generale caratterizza, dunque, questa fase storica, per cui l’esigenza
del capitale di ripresa dell’accumulazione, il conseguente salto di composizione
organico del capitale, in grado di valorizzare al massimo la rivoluzione in
corso in campo tecnologico e industriale, si possono realizzare solo con la
distruzione delle forze produttive sovraprodotte e dei mezzi di produzione superati,
sia in termini di valore che in termini fisici.
Le esigenze del capitale, messe a nudo dalla crisi, inducono nel sistema imperialista
una serie di risposte economiche, politiche e militari; in una sola parola progetti
politici complessivi tesi a superare la crisi stessa.
La messa in pratica di questa risposta complessiva provoca contrasti e scontri
che testimoniano l’acuirsi della contraddizione principale tra Borghesia
Imperialista e Proletariato Internazionale, e di tutte le contraddizioni interimperialiste,
soprattutto quelle tra l’area USA e il Socialimperialismo.
Ancora una volta il tentativo borghese di superamento della crisi generale del
capitale si configura come guerra, quindi oggi come prospettiva della GUERRA
INTERIMPERIALISTA.
Se questa è la tendenza, cioè lo sbocco obbligato, la prospettiva
verso cui si muovono l’insieme delle dinamiche della ristrutturazione
capitalista, questa affermazione va però sostanziata, chiarendo a quale
stadio del processo di maturazione della prospettiva della guerra ci troviamo.
Infatti la guerra non è un esplosione di violenza improvvisa e imprevedibile,
ma la conclusione obbligata di un processo complesso, che vede modificarsi le
caratteristiche fondamentali di ogni singola Formazione Economico-Sociale, dalle
priorità economiche al sistema di alleanza, dalle forme di governo ai
valori culturali etc. In altri termini ogni guerra matura attraverso questo
insieme di modificazioni, anche se il motivo scatenante o il luogo di esplosione
sono di norma casuali, non predeterminati dalle parti in causa. Definire quale
è, in ogni congiuntura, lo stato concreto di maturazione delle tendenza
alla guerra, è fondamentale per tratteggiare una strategia rivoluzionaria
ed una tattica aderente alla realtà concreta.
Parlando di “tendenza alla guerra” intendiamo la guerra tra l’area
imperialista dominata dagli USA e quella dominata dall’URSS. Riteniamo
assurda e fuorviante ogni concezione che parli di guerra tra “Sistema
Imperialista Mondiale” e “Proletariato Mondiale”. Non perché
un imperialismo sia preferibile all’altro, quanto perché l’essenza
dell’imperialismo è l’essere “l’epoca delle guerre
tra grandi potenze per l’intensificazione e lo ampliamento dello sfruttamento
dei popoli e delle nazioni” (Lenin).
Guardando gli elementi caratterizzanti la presente congiuntura internazionale,
vediamo come il principale fenomeno sia costituito dalla diminuzione di tutti
gli indici delle attività produttive; questo vuol dire azzeramento o,
addirittura, inversione dei tassi di crescita dei diversi settori dell’economia;
quindi diminuzione relativa e assoluta delle masse di merci prodotte, dalle
fabbriche aperte, degli operai occupati, di capitale operante come tale.
E’ riferendosi a questo quadro generale della crisi che va analizzato
lo scontro di classe in atto e i compiti che l’avanguardia rivoluzionaria
deve affrontare.
Le mobilitazioni di gennaio, il macroscopico rifiuto operaio dell’ “accordo”,
segnalano un distacco mai visto prima tra la classe operaia e le sue rappresentanze
istituzionali, un’opposizione generale a tutta la politica del governo
e, complessivamente, alle modificazioni antiproletarie e reazionarie, indotte
dall’allineamento dell’Italia alle posizioni del “reaganismo”
nell’affrontare la crisi economica e politica dell’imperialismo
occidentale.
L’accordo a “tre”, firmato da Governo, Confindustria e vertici
sindacali, dal punto di vista della dinamica dello scontro contrattuale, segna
il punto di arrivo di una inversione dell’iniziativa in atto già
da tempo: sono il grande padronato e lo stato, una volta concordati i passi
di politica economica resi impellenti dalla crisi mondiale, presentare la propria
“piattaforma” alla classe.
La mediazione sindacale, perciò, non scompare, ma cambia di segno.
Non va più nella direzione di rendere “razionali” e “compatibili”
le rivendicazioni proletarie con le esigenze del capitale; al contrario di propone
di rendere “disponibile” e “passiva” la classe, pur
vivendo la contraddizione tra collaborazione alla sconfitta del proletariato
e mantenimento della propria fetta di potere dentro il quadro neocorporativo.
Ma in questo “accordo”, più ancora delle singole conquiste
operaie che sono state attaccate e, parzialmente, invalidate (prima tra tutte
le scala mobile), ciò che emerge come principale contenuto antiproletario,
è la contemporaneità tra blocco della contrattazione per i prossimi
tre anni e mezzo (!) e la predeterminazione generale dei “tetti”
contrattuali.
In pratica ciò significa la fine della “libera contrattazione”
delle categorie, poiché il limite massimo è già fissato
dall’obiettivo padronale di riduzione del costo generale del lavoro, che
costituisce la sostanza economica di questo “patto sociale”. Risultano
così svuotate le funzioni “propositive” tutte le strutture
di base, consigli di fabbrica in testa; il processo di formazione delle decisioni
si concentra definitivamente nelle segreterie confederali, che si autonominano
rappresentanti dell’interesse generale operaio.
Per diritto divino probabilmente.
Insieme a questa “sussunzione” della contrattazione, tendono a scomparire
gli stessi contenuti fondanti del “sindacato dei consigli”, vale
a dire tutte le forme di democrazia diretta interna, o le pressioni conflittuali
dal basso.
Così vengono definitivamente abbandonati i contenuti dell’egualitarismo,
la serie di automatismi posti a difesa del salario reale, l’espansione
dei servizi sociali, mentre ricompare prepotentemente il principio di differenziazione
legato alla professionalità. Ma, come abbiamo sempre detto, questa non
è che la sanzione formale di uno stato di cose in atto già da
tempo, perché non è certo da oggi che il vertice sindacale si
rivela antagonista agli interessi della classe.
E’ lo stesso “statuto dei lavoratori” ed il diritto di sciopero
che vengono aggirati con l’accordo di gennaio, al punto che non bisogna
essere indovini pr prevedere che proprio questi saranno i prossimi bersagli
dell’offensiva padronale governativa, con gran spiegamento del pattume
propagandistico e reazionario contro l’eccesso di “populismo”
dei “folli anni ‘70”, e con le giaculatorie della Benvenuto-gang
sul fatto che l’interesse dei lavoratori sarà abolire…lo
statuto e gli scioperi!
Diventa così chiaro che la logica della “legislazione di emergenza”
ha ormai travalicato i confini del cosiddetto ordine pubblico, per aggredire
direttamente e apertamente il nodo della conflittualità operaia e dell’antagonismo
di classe. L’emergenza economica ha partorito questo “accordo”,
un autentico “patto di pacificazione sociale” sul quale, per evitare
spiacevoli contrattempi, non c’è stata nemmeno una consultazione
di convalida.
Ma cosa è l’ “emergenza”? E’ sempre più
chiaro a tutti i proletari che gli unici problemi considerati “urgenti”
sono quelli della borghesia, e che la loro soluzione è anteposta a qualsiasi
rivendicazione della classe.
Il “patto sociale” nuovo di zecca, firmato tra grandi sorrisi confindustriali,
si è però trovato di fronte al più massiccio rifiuto operaio
degli ultimi dieci anni.
Ancora una volta la classe operaia delle grandi fabbriche metropolitane ha guidato
la mobilitazione e la proteste, smentendo quanti, sia nell’arco dei partiti
borghesi, sia nell’ultrasinistra “trasgressiva”, ne consideravamo
“ormai esaurita la spinta antagonista”.
Mobilitazione e opposizione che danno la misura di una resistenza attiva di
una classe che, pur sottoposta ad un attacco continuo e concentrico, non mostra
affatto di gradire il ruolo che il capitale le assegna.
Dentro lo scontro attuale il ruolo che il PCI e il sindacato tentano di giocare,
continuamente lacerati tra le pressioni reazionarie del “partito della
guerra” e le spinte antagoniste della classe, è quello di trasformare
la resistenza proletaria attiva in una contestazione passiva e rassegnata, in
un mugugno impotente e costruire alternative organizzate di massa.
E’ un ruolo tutt’altro che facilmente assolvibile perché,
se da un lato la classe ha espresso come non mai prima l’esigenza di dotarsi
di una nuova organizzazione propria, fondata sulla difesa del proprio interesse
generale materiale e politico, che superi il neocorporativismo delle rappresentanze
istituzionalizzate; dall’altro il sindacato stesso è teatro dello
scontro tra la linea apertamente filo imperialista (Benvenuto, Marianetti, Marini,
ecc…) e quella che fa capo ai pallidi fautori dell’ “alternativa
democratica”.
Su una cosa, però, Stato, confindustria e vertici sindacali sono uniti
e compatti: sulla paura, nemmeno nascosta, che la mobilitazione operaia, la
resistenza attiva della classe, inneschi una dinamica di scontro in cui il proletariato
sviluppi l’uso della violenza come strumento di emancipazione, come terreno
decisivo dello scontro di potere tra le classi.
Questa paura dichiarata, dentro fiumi di scorsi che hanno ormai il sapore dell’esorcismo,
rivela che l’ “accordo” di gennaio è una cambiale scoperta,
che la partita è ancora tutta da giocare, perché la classe non
ha nessuna voglia di sottoscrivere la propria sconfitta.
E’ possibile, perciò, una ripresa, non tanto di alcune particolari
forme di guerriglia, quanto di un processo rivoluzionario, che veda protagoniste
le masse, che porti alla definizione di una STRATEGIA POLITICO-MILITARE per
la conquista del potere.
Contemporaneamente a questa ripresa del movimento operaio, i ricorrenti ed inequivocabili
segnali di guerra, che vengono dall’andamento dei rapporti tra le superpotenze
e dal protagonismo operettistico di un logorio, che riesuma i fasti degli “otto
milioni” di baionette, hanno risvegliato in tutta Europa l’attenzione,
proletaria e non, sui temi della pace e dei sosti sociali della corsa agli armamenti.
Attenzione che ha cominciato a concretizzarsi in mobilitazioni di massa contro
l’installazione degli euromissili e l’aumento delle spese militari,
in un movimento che dimostra crescente autonomia dalle forze politiche istituzionali.
Al di là delle parole d’ordine immediate espresse da questo movimento,
la sua stessa esistenza e la dimensione europea che lo caratterizza, mette in
luce un problema che, con l’acuirsi della crisi generale internazionale,
diventa sempre più decisivo: il quadro di alleanze NATO contro cui vive
lo scontro di classe in Italia, e che questo stesso scontro mette in discussione.
In altri termini, la prospettiva, sempre meno lontana, di guerre tra i blocchi
fa diventare sempre più chiaro il rapporto esistente tra trasformazione
sociale secondo criteri ed esigenze proletarie (quindi la Rivoluzione proletaria)
e la rottura del quadro di alleanze esistente, ovvero l’uscita dell’Italia
dalla NATO.
E diventa anche sempre più chiaro agli occhi delle masse
che la risoluzione di questo rapporto non può essere un processo pacifico,
ma un processo di rottura violenta, inevitabilmente intrecciato con le dinamiche
della guerra interimperialista.
O la rivoluzione proletaria ferma la guerra o la guerra scatena la Rivoluzione!
Questo è l’insegnamento fondamentale della storia del movimento
operaio internazionale in questo secolo.
Al momento, dentro questo tipo di movimento prevalgono tesi e posizioni assai
ingenue sulla possibilità di fermare con mezzi pacifici la corsa imperialista
alla guerra, e sulla possibilità di “accordo generale” tra
le superpotenze, sul disarmo e la pace.
Sono concezioni ingenue, spesso alimentate dalla malafede revisionista, perché
immaginano che l’aggressività dell’imperialismo derivi da
una “cattiveria” morale ideologica, invece che dalla necessità
di conquista di mercati, di distruzione di capitali e merci sovraprodotte.
Per la stessa sopravvivenza espansione della presenza e del peso politico di
questo movimento, si tratterà di far vivere al suo interno posizioni
e proposte politiche maggiormente consapevoli della situazione concreta esistente.
Tuttavia, al di là della “coscienza spontanea” espressa dal
movimento di classe attuale, la mobilitazione proletaria contro la prospettiva
della guerra e le sue conseguenze pratiche immediate (installazioni di missili,
raddoppio delle spese militari a scapito delle spese sociali, l’invio
delle truppe nel Sinai e nel Libano ecc.) costituisce un aspetto essenziale
della lotta rivoluzionaria, anticapitalista e antimperialista.
L’attacco alle condizioni di vita e al peso politico del proletariato,
le nuove attività militari nel Mediterraneo e nel Medio Oriente, in una
situazione internazionale che va apertamente verso la guerra tra i blocchi,
presuppongono una svolta generale, che non può essere condotta da un
quadro istituzionale e politico condizionato da una prassi ventennale di mediazione
interclassista tra accumulazione e distribuzione sociale.
Gli “adeguamenti” istituzionali, che vengono da più parti
proposti, ruotano intorno a:
- modifiche costituzionali, tendenti a snellire il funzionamento dell’esecutivo
e, in generale, del sistema parlamentare;
- modifiche delle leggi elettorali, per consentire ad una risicata maggioranza
elettorale di avere una schiacciante maggioranza in parlamento, superando il
fenomeno dei governi “a vita breve”;
- stravolgimento del sistema giuridico, attraverso il consolidamento e la generalizzazione
di una serie di principi mutuati dalla legislazione “speciale” o
di “emergenza”, che vengono trasferiti dai temi dell’ordine
pubblico alla regolamentazione dei rapporti di lavoro (vedi la campagna contro
l’assenteismo, la diffusione della precettazione, ecc.);
- l’uso, sempre più aperto, dell’apparato repressivo contro
il movimento di massa, dato che ogni forma di lotta proletaria violenta, o semplicemente
non compatibile, è considerata “brodo di coltura” del terrorismo.
Queste ed altre modificazioni istituzionali, accompagnate da pesanti rigurgiti
reazionari in tutti gli ambiti della vita sociale e della stessa vita culturale,
vanno nella direzione di uno “stato forte”.
La riduzione delle parti sociali che hanno voce in capitolo nella formazione
delle decisioni complessive, con l’emarginazione dalle “stanze dei
bottoni” di qualsiasi rappresentanza di interessi comunque non difendibili
entro il nuovo quadro disegnato dalla crisi, costituisce il nocciolo dello scontro
tra le forze politiche.
“Stato Forte”, “Grande Riforma”, “Svolta Liberal”,
sono solo alcune delle etichette di parte che vengono assegnate al processo
controrivoluzionario in corso: la ridefinizione reazionaria dell’attuale
formazione sociale.
Conseguentemente, anche lo scenario politico subisce una polarizzazione intorno
alle possibili strategie.
Vediamo emergere sempre più chiaramente un coacervo di consorterie, che
si coagulano intorno a una linea politica complessiva, in sintonia con le esigenze
dell’imperialismo.
Il rapporto tra questo insieme e la politica reaganiana non è un rapporto
di dipendenza meccanica.
Piuttosto è un fare propri gli interessi complessivi imperialisti, un
tentare di imporre nella situazione italiana le modifiche più armonizzate
con quegli interessi, un mettere insieme un progetto politico articolato.
Non si tratta perciò di un gruppo di “funzionari dell’imperatore”,
ma di un personale politico che si propone come “reggente” e alleato
fedele.
E’ questo insieme che chiamiamo “partito della guerra”, che
sul piano interno si configura ovviamene come “partito dell’ordine”,
come baluardo reazionario.
Non perché sia identificabile in un partito, o banalizzato in una serie
di strutture e istituzioni, ma perché si polarizza intorno ad alcuni
elementi generali di progetto politico, attraverso il quale è possibile
armonizzare la politica italiana con la tendenza dominante alla guerra, acuita
dall’attuale politica degli USA.
Sono i vari bravi, De Mita, Merloni, Lagorio, Benvenuto, i capifila del “partito
della guerra e dell’ordine”; non certo come segretari di un “superpartito”
ma come i dirigenti politici principali che operano, lottando anche fra di loro,
per definire e imporre, in posizione egemone, la linea adeguata alle necessità
della crisi e delal ristrutturazione.
La conquista della leadership del partito della guerra e dell’ordine è
una battaglia senza esclusione di colpi e ha nel rapporto privilegiato con l’amministrazione
Reagan un terreno fondamentale e fa della Casa Bianca una meta di continui pellegrinaggi.
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Attacco alle condizioni di vita e al peso politico del proletariato,
politica internazionale imperialista e guerrafondaia, controrivoluzione interna
poliziesca e istituzionalizzata, sono i tre aspetti inscindibili del progetto
politico dominante della borghesia nella crisi, i tre terreni che caratterizzano
l’attività del “partito della guerra e dell’ordine”.
L’insieme di iniziative in cui si sta concretizzando questa linea ha già
fatto sorgere la resistenza attiva del proletariato italiano; non a caso i tre
terreni che abbiamo indicato corrispondono ai tre principali filoni della mobilitazione
di massa.
Quindi, di fatto, è su di essi che si misura la capacità delle
forze rivoluzionarie di costruire la propria iniziativa, la propria proposta
politica, perché è su questi temi che si basa l’interesse
generale della classe in questa congiuntura.
L’ “interesse generale” della classe è un interesse
unitario, è la sintesi politica, congiunturalmente possibile, della sua
esigenza di potere.
Pensiamo infatti che esista, e possa esistere, un solo movimento di classe,
differenziato al suo interno, attraversato da durissime contraddizioni, come
quelle che oppongono reciprocamente la parte che chiamiamo movimento rivoluzionario,
la parte maggioritaria tuttora sotto la direzione revisionista, il movimento
contro la guerra, le espressioni autonome dell’antagonismo proletario,
larga parte del movimento delle donne ecc…
Un movimento variegato e multiforme, contraddittorio al suo interno, ma che
esprime nel suo complesso il livello di coscienza di classe storicamente dato.
Un movimento la cui riunificazione non può avvenire spontaneamente, ma
solo con la definizione e l’affermazione, tramite il lavoro rivoluzionario
dell’avanguardia, dell’interesse generale come programma proletario
coscientemente perseguito. In questo modo crediamo che possa essere superato
concretamente quel vizio idealista dominante in tutto il movimento rivoluzionario,
che portava a credere possibile, partendo da un corpo di tesi teorico-politiche,
intorno a cui si aggregavano ristretti settori di avanguardia, la costruzione
di un proprio movimento di massa, che doveva riprendere e applicare parole d’ordine
e discriminanti generali “elaborate” dal proprio “gruppo”.
Invece la classe, in quanto “classe per sé”, può avere
un unico interesse generale, che sintetizza tutti gli altri, e, dal punto di
vista della tattica, si traduce in obiettivi generali congiunturalmente raggiungibili
e, dal punto di vista della strategia, si identifica, in questa fase storica,
con la conquista del potere politico.
Porsi dal punto di vista dell’interesse generale del proletariato è
l’elemento centrale che deve calibrare la tattica dell’avanguardia
comunista combattente, che deve costringerla ad attenersi ai termini reali dello
scontro.
Con tutta chiarezza perciò OGGI L’INTERESSE GENERALE DELLA CLASSE
SI IDENTIFICA CON LA SCONFITTA DEL PROGETTO POLITICO DOMINANTE DELLA BORGHESIA
IMPERIALISTA: la Ridefinizione Reazionaria del complesso della società
italiana, nel quadro dell’alleanza NATO, per accrescere la competitività
e prepararsi alla guerra.
Nella lotta contro questo progetto può e deve avvenire la costruzione
di nuove organizzazioni proletarie di massa e la costruzione del Partito Comunista
Combattente. Ambedue questi processi devono svilupparsi contemporaneamente.
Un’organizzazione proletaria di massa, senza la prospettiva strategica
reale (la conquista del potere politico) e senza la direzione del partito rivoluzionario,
clandestino e combattente, non avrebbe alcuna possibilità di successo,
sarebbe condannata a dure sconfitte o al rientro nei margini di compatibilità
definiti dalla borghesia.
Un’organizzazione combattente d’avanguardia, se non si pone all’interno
ed alla testa della resistenza attiva delle masse nelle nuove condizioni, ossia,
se non si muove per sviluppare e rafforzare movimenti di massa, generalizzando
e impiegando le lotte nelle forme di organizzazione di massa storicamente possibili,
in realtà finirebbe fuori della dinamica reale dello scontro.
In presenza di un’offensiva reazionaria e guerrafondaia, condotta dal
“partito della guerra e dell’ordine”, le discriminanti che
dividono posizioni “avanzate” e posizioni “arretrate”
nascono dal vivo dello scontro di classe. Nascono perciò dalla politica,
non dall’ideologia.
Così sono “avanzate” le proposte, le forme di lotta e di
organizzazione, gli obiettivi politici e tattici, che promuovono l’unità
del movimento di classe sull’interesse generale, che ostacolano con maggior
efficacia i progetti della borghesia, che promuovono e sviluppano l’organizzazione
autonoma della classe, che consentono la costruzione del Partito Comunista Combattente.
E’ “arretrato” ciò che va nella direzione opposta,
che provoca disgregazione, che antepone l’identità e l’interesse
particolare (di settore, di strato, di “gruppo”) all’interesse
generale del proletariato.
A questo punto diventa più chiaro perché riteniamo che costruire
l’unità del movimento rivoluzionario nel processo di costruzione
del Partito Comunista Combattente, che costruire l’unità della
classe nella lotta di opposizione alla ristrutturazione reazionaria e imperialista
della società, sia il compito fondamentale che ci sta davanti oggi.