Biblioteca Multimediale Marxista
LA CRISI DEL MODO DI PRODUZIONE DIVENTA CONTRORIVOLUZIONE PREVENTIVA.
Nell’analisi che abbiamo svolto in questi anni abbiamo
spesso parlato della crisi irreversibile che colpisce il modo di produzione
capitalistico e abbiamo anche spiegato che questa crisi non significa crollo
automatico del modo di produzione stesso.
Abbiamo invece visto come le vecchie “crisi cicliche” del capitale
si siano fatte sempre più frequenti e più profonde, sino a giungere
alla fase attuale, caratterizzata da un intreccio simultaneo, persino all’interno
delle stesse aree e degli stessi settori, di crisi di sviluppo in un insieme
sempre più contraddittorio e lacerante.
Siamo convinti che tutto ciò sia il segno che il modo di produzione capitalistico
è storicamente giunto alla fase della sua crisi ultima, e dunque al punto
in cui comincia la sua estinzione. Come un dinosauro morente, la sua agonia
sarà lunga, e i suoi colpi di coda tremendi. Ma la rivoluzione lo ucciderà.
Alla radice della crisi sta il meccanismo stesso dell’accumulazione capitalistica.
Per questo essa non può essere curata in alcun modo, ed è mortale.
Il capitale accumulato riesce ad essere valorizzato —e cioè a funzionare
appunto come capitale— con difficoltà sempre maggiori. Un numero
sempre più ristretto di produttori diretti, di forza lavoro viva, è
costretto infatti a valorizzare un capitale morto (macchine, materie prime,
ecc ecc) sempre più grande. E d’altra parte forze produttive immense
sono castrate, costrette a svilupparsi solo nei modi e nella misura compatibili
con le leggi del profitto.
Oggi i rapporti di produzione capitalistici —rapporti tra le classi, rapporti
tra uomini— strangolano lo sviluppo delle forze produttive; oggi la crisi
storica del modo di produzione basato sui valori di scambio, si scatena a livello
planetario. Solo i capitalisti più grandi ed aggressivi riescono a sopravvivere,
divorando anelli più piccoli, mentre l’intero sviluppo capitalistico
nella sua fase di declino, è costretto a basarsi sulle conquiste di sempre
più larghe posizioni di monopolio di settori produttivi e di aree di
mercato; a centralizzarsi su scala sempre più vasta oltre i confini degli
Stati nazionali; a catturare lo Stato per usarne tutta la forza a sostegno delle
traballanti leggi dell’accumulazione. Ma all’orizzonte, come al
solito in tempi di crisi del capitale, c’è l’unica medicina
che fin qui si è dimostrata veramente efficace: la guerra imperialista.
Del resto, il mondo è già in guerra, e ogni giorno più
velocemente precipita verso la guerra. Solo producendo per distruggere, distruggendo
per poter produrre, nella forma esasperata della guerra imperialista, il capitale
multinazionale può sperare ormai di ritardare la sua fine. Contemporaneamente,
sul piano interno, si realizza una strategia indivisibile di tutte le frazioni
della borghesia intorno alla sua frazione dominante, per un attacco rinnovato,
in forme sempre più sistematiche e feroci alle condizioni di vita delle
masse proletarie, spremendo da una parte di esse il massimo di plusvalore, e
condannando l’altra alla precaria marginalità del lavoro nero e
dell’emarginazione totale.
L’accentuarsi delle contraddizioni intercapitalistiche su scala internazionale
si rovescia all’interno delle forme congiunte dello sfruttamento e della
crisi economica, entro un progetto complessivo di controrivoluzione preventiva
che si traduce in una filosofia molto semplice: più i padroni e loro
servi si scannano tra loro nei mondo, più si devono unire contro i proletari
di casa loro.
La controrivoluzione preventiva è l’aspetto dominante di una strategia
nella quale si riassumono le tendenze alla guerra imperialista sul piano internazionale
e la ristrutturazione sul piano interno. Essa significa che su ogni strato proletario
si abbatte la repressione, che le conquiste di un decennio di lotte operaie
vengono messe in discussione, che si allarga la disoccupazione, che aumenta
la stratificazione proletaria.
Il “nuovo modo di produrre” mostra che l’unico sviluppo possibile
del capitale è quello della sua miseria e della sua violenza.
La repressione assume un carattere ”strutturale”: non è in
proporzione diretta consequenziale alle singole lotte. La Thatcher in Inghilterra
e Cossiga e i suoi successori in Italia, ai di là delle diverse storie
della soggettività di classe nei due paesi, devono reagire con la stessa
durezza ad ogni esigenza proletaria.
Ma la crisi dei capitalisti non è la crisi dei proletari. Se infatti
per i capitalisti crisi vuoi dire guerra imperialista e controrivoluzione preventiva,
per i proletari la lotta armata per il Comunismo si afferma e vive come la strategia
che, attraverso una precipitazione rivoluzionaria della crisi, porta al superamento
del modo di produzione capitalistico.
La crisi deve quindi essere analizzata non solo dal punto di vista del capitale
ma anche da quello della rivoluzione proletaria, la sola che potrà seppellire
la vecchia società e che già oggi costituisce, nella lotta, l'unico
futuro possibile: il Comunismo.
1- DALLA PROGETTAZIONE ALL’ATTUAZIONE DEL PIANO CONTRORIVOLUZIONARIO.
Negli anni passati, sotto l’incalzare della crisi dell’imperialismo
sul piano internazionale dovuta essenzialmente alle contraddizioni insolubili
insite in questo sistema, sotto la sferza di un movimento di classe ben fermo
a non subirne passivamente gli effetti disastrosi, la borghesia italiana ha
cercato di definire un piano di ristrutturazione rivolto non già ad attivare
i meccanismi di un improbabile ulteriore sviluppo, ma a mantenere inalterate
le possibilità del suo dominio.
La crisi non ha possibilità di sbocchi positivi nell’ambito del
sistema economico—politico—militare imperialista, nel senso che,
comunque la si rigiri, questo sistema è diventato il vicolo cieco in
cui non può passare un allargamento della base produttiva, un’avanzata
dello sviluppo economico. Di qui l’impossibilità di un superamento
degli elementi congeniti che costituiscono la crisi stessa, che anzi tendono
ad aumentare ed acuirsi nella loro gravità. Lo stato di crisi permanente
è la condizione alla quale la borghesia stessa è da tempo rassegnata
senza illusioni.
Ma la crisi di per sé non genera un crollo catastrofico ed istantaneo,
genera solo un sistema di vita sempre più miserevole e barbaro per milioni
di proletari.
Come pure crisi permanente non significa immobilismo della borghesia, tutt’altro.
Significa che la borghesia, senza più prospettive di evoluzione, si affanna
e si agita in una rincorsa perenne delle contraddizioni di classe, con l’unico
scopo di poterle controllare e di ritardarne l’esplosione.
Questa rincorsa, per quanto affannosa, non è mai inconsulta e priva di
logica, ma assume la logica di una ristrutturazione continua e radicale, di
un piano articolato, entro cui si definisce il modo in cui, in una determinata
fase le contraddizioni di classe vengono affrontate. La ristrutturazione non
va confusa con il riformismo, il quale, anzi in questa fase celebra il proprio
funerale, ma rappresenta il tentativo disperato e senza soluzione di continuità
di agire cambiando continuamente le carte in tavola nei meccanismi interni dell’accumulazione
del capitale, al fine di scompaginare continuamente la composizione di classe.
Ma il risultato è sempre uno solo: a un temporaneo tamponamento delle
contraddizioni in qualche settore di classe, corrisponde inevitabilmente l'allargamento
e l’approfondimento in altri. Al temporaneo strangolamento della capacità
e possibilità di movimento di qualche componente di classe —che
successivamente si ripresenterà in modo ancor più radicale—
corrisponde un allargarsi dell’area sociale investita dagli effetti della
crisi, inducendo alla mobilitazione ed alla lotta nuove frange del proletariato.
Crisi—ristrutturazione—movimento di classe sono così legati
da una indissolubile dialettica ed è lo stadio di maturazione raggiunto
da ciascuno di essi nell’intima connessione con gli altri che configura
la fase di scontro e la congiuntura politica. Se guardiamo un attimo ai periodo
appena trascorso, si vede che la borghesia era alla ricerca di un piano complessivo,
di una ristrutturazione globale per battere tutto ciò che il ciclo di
lotte degli anni ‘70 aveva prodotto, e si attrezzava per l’attacco
frontale all’insieme dei livelli politici e organizzativi raggiunti dalla
classe, ivi compresa la nascente guerriglia. Le direttrici fondamentali di tutto
ciò sono state dettate dalle centrali imperialiste internazionali, e
hanno seguito criteri di costruzione di quello che abbiamo chiamato “Stato
imperialista delle multinazionali”, dai connotati caratteristici che individuavamo
in crescente militarizzazione, crescente centralizzazione dello Esecutivo, strategie
economiche dell’imperialismo, ecc. L’elaborazione di questo piano
non avveniva in astratto, ma si calava nella realtà italiana con la peculiarità
delle sue contraddizioni, costituite in particolare dalla composizione di classe
e dagli equilibri politici che ne derivano, e quindi con tutte le tendenze contrastanti
che l’imposizione ferrea del progetto imperialista non poteva non produrre.
In sostanza, la fase di cui stiamo parlando, è quella contraddistinta
da un ciclo di lotte, all’interno delle quali è nata la guerriglia
a cui si è contrapposta una “preparazione” della controrivoluzione
imperialista lanciata in un piano complessivo di ristrutturazione economico—politico—militare.
Ora diciamo che la fase è cambiata. Vuol dire che ci troviamo ad un punto
della dialettica—scontro tra crisi—ristrutturazione—movimento
di classe diverso da quello precedente.
Ci troviamo ora in presenza di un’attuazione accelerata del piano controrivoluzionario.
Si può constatare che per la borghesia non si tratta più di omogeneizzare
le linee di tendenza al proprio interno per ricondurle tutte nei binari pensati
ed imposti dal capitale monopolistico e dalle centrali multinazionali, ma di
dar corso e attuazione nella realtà italiana alle direttive che da queste
vengono imposte. Ad esempio, rilevavamo che il sistema politico italiano era
alla ricerca di una ridefinizione delle forze proiettate nella strategia imperialista,
controllate ed immediatamente utilizzabili ai fini degli interessi degli imperialisti.
Si presentava quindi la necessità di far emergere in ciascun partito
della borghesia il personale politico adatto allo scopo, di qualificare per
ciascun partito il ruolo dipendente dalle linee generali dell'imperialismo e
ad esse vincolarne l’azione, di sfrondare il regime dalle forze centrifughe
che ritardavano il compattamento, di liberarsi dei "compromessi" con
chi non era in grado di adeguarvisi rapidamente. Ora Questo scopo è raggiunto,
e la cricca delle nuove alleanze di governo ne e la dimostrazione.
Diventa ora importante comprendere non solo le direttrici generali del progetto
imperialista, ma penetrare nel bozzolo che lo ha incubato per anni, cogliere
il modo concreto in cui si sta attuando, cogliere tutte le implicazioni politiche—economiche—militari
per la classe, perché il passaggio dello scontro da una fase ad un’altra
ha proprio questo punto di partenza: l’accelerata attuazione del progetto
di controrivoluzione attraverso la forzosa applicazione di un progetto di ristrutturazione
che, oggi, dalle sperimentazioni, dai tentativi, dalle esortazioni —dalle
idee e dalle chiacchiere, insomma— passa alla veemente, inflessibile attuazione
delle cose concrete. Questo incide profondamente nella composizione delle classe
e nelle sue condizioni di vita.
Vediamo per prima cosa che l’attuazione delle politiche economiche imperialiste
investe come un rullo compressore tutto l'insieme delle componenti di classe
proletaria, nessuna esclusa, ciascuna toccata pesantemente nella sua specificità
e senza la possibilità di sottrarsi, nel suo proprio ambito, ad una confronto
diretto con la globalità del piano nemico. Vengono così a dilatarsi
i confini sociali in cui si esplica l’aggressione padronale per cui componenti
proletarie, fino ad ora parzialmente privilegiate dalle possibilità di
ridistribuzione del reddito, si ritrovano ora a essere oggetto di un attacco
tremendo, il bersaglio su cui calano i fendenti della crisi. Si è dunque
allargato il fronte delle componenti che, schiacciate dalla crisi e dalla ristrutturazione
si presentano come dato ineliminabile in contrapposizione di interessi, di bisogni,
di potere con la borghesia. Ci si ritrova così di fronte ad un solo dilemma:
o accettare lo scontro globale rivoluzionario, o subire senza speranza. Il dato
nuovo è proprio questo.
La crisi si abbatte su strati proletari allargati (diversi dalla classe operaia)
che già da oggi vivono in termini antagonistici e oggettivamente rivoluzionari
la ristrutturazione capitalistica: al nord come al sud, nella piccola come nella
grande fabbrica, nel quartiere ghetto come nelle corsie dell’ospedale.
Si dà quindi oggi la possibilità, storicamente reale, che il movimento
rivoluzionario sia movimento di grandi masse, che la ribellione prodotta da
questo stato di cose si trasformi in guerra rivoluzionaria. Tutte le questioni
che in questi ultimi anni l’avanguardia comunista aveva sollevato ed affrontato
sono divenute parte del vissuto proletario, contraddizione viva, concreta, verificabile
(e parimenti insopportabile) dei soggetti politici e sociali subalterni e sfruttati
in questa società. La strategia imperialista, individuata, smascherata,
denunciata dalle avanguardie, è oggi per grandi masse di proletari la
realtà quotidiana, la cruda esistenza di ogni giorno. Il ritmo incalzante
della ristrutturazione fa esplodere l’inconciliabilità tra esigenza
del capitale e bisogni proletari, per cui ogni istanza proletaria, se pur minima,
se pur parziale, non è più né assorbibile né cavalcabile
dal capitale ma mette immediatamente in crisi la globalità del piano
e la sua attuabilità, con la conseguenza che lo scontro diventa altrettanto
immediatamente scontro di potere.
Questo è l’altro dato che caratterizza la fase: nell’attuale
situazione il proletariato comunque ponga il soddisfacimento dei propri bisogni
immediati, non essendo questi riconducibili, nella loro generalità, all’interno
del piano di ristrutturazione, si colloca i subito in modo sovversivo, e ogni
reale momento di lotta diventa momento di frattura politicamente insanabile.
Per contro, si apre la possibilità di una saldatura, ora ad un livello
enormemente più alto, tra strategia rivoluzionaria di lungo periodo e
scontro di classe nell’immediato; tra programma comunista e pratica di
massa; tra lotta per il potere e lotta per obiettivi immediati. Non solo questo,
ma si sono create le condizioni perché si produca e si concretizzi un
livello politico—organizzativo delle “articolazioni del potere proletario”.
Si dà cioè nelle attuali condizioni la possibilità che
lo scontro espresso dal movimento di resistenza proletario; (che, ricordiamo,
è un movimento di massa; è l’insieme dei comportamenti della
classe antagonistici alla ristrutturazione) sedimenti in modo cosciente e irremovibile
gli organismi rivoluzionari delle masse, anelli indispensabili del sistema del
potere proletario. La strategia della lotta armata può trovare oggi una
nuova, ricca e formidabile articolazione. Che questa possibilità esista
è confermato anche dal modo con cui la strategia della lotta armata viene
oggi vissuta dalla parte più combattiva del proletariato. La lotta armata
non è più solo il punto di riferimento costituito dall’avanguardia
combattente nella lotta contro lo Stato, l’indicazione strategica per
le presa del potere, la prefigurazione della forza e della potenza del movimento
di massa rivoluzionario, una “ipotesi” politica da verificare e
che deve dimostrare di essere credibile. Non è più solo questo
e non ha più questi limiti, ma divenuta la pratica necessaria e possibile
per vaste masse di proletari, per non subire, per continuare a lottare.
Diceva un operaio della Montedison (uno dei tanti) a un allibito intervistatore
in occasione di una processione sindacale per l’esecuzione di Gori: “Abbiamo
speso tante energie, le abbiamo provate tutte in tanti anni di lotta, senza
cambiare nulla su questi problemi di Marghera: comincio a pensare che la strada
giusta sia quest’altra, e che bisogna fare come loro”.
Il problema di cui parlava è quello che fa di Marghera una camera a gas
per una popolazione di 150.000 persone, e le fabbriche della zona altrettanti
mattatoi per gli operai che ci lavorano. “ La strada giusta” a cui
si riferiva è la lotta armata e “loro” sono le Brigate Rosse.
Questo per dire che oggi la lotta armata non viene vista come qualcosa con cui
simpatizzare o verso cui emotivamente e istintivamente applaudire ma come la
strategia “giusta” per combattere sui problemi concreti e immediati,
come la pratica capace di modificare i rapporti dì forza tra proletariato
e borghesia.
La lotta armata è diventata necessaria per milioni di proletari, per
i quali non si pone più il problema di solidarizzare con le OCC ( e su
questo le discriminanti sono nettissime) ma di appropriarsi di una linea capace
di rompere l’accerchiamento soffocante del nemico, di demolire, nelle
piccole come nelle grandi cose, le insopportabili condizioni della propria vita.
Se tutto ciò caratterizza il passaggio alla fase attuale, occorre cogliere
nel contempo, senza la benché minima approssimazione, le peculiarità
dell’attuale congiuntura politica. Senza cogliere la particolarità
della congiuntura non è possibile dare efficacia alla nostra proposta,
non è possibile essere realmente dialettici rispetto alla organizzazione
e al la lotta delle masse.
Cosa bisogna considerare per valutare la congiuntura politica?
Come dice la DS ‘78, gli elementi da tenere in considerazione sono tre:
uno, il terreno dominante su cui si muove l’iniziativa controrivoluzionaria
della borghesia imperialista; due, le condizioni particolari e specifiche che
caratterizzano il movimento di resistenza offensivo, e in particolare gli strati
proletari più combattivi; tre, lo stato reale del Partito o comunque
dell’avanguardia armata.
Dobbiamo quindi analizzare questi tre elementi così come ci si presentano
qui e oggi, con estrema esattezza, anche se non dobbiamo cristallizzate il nostro
giudizio come in una fotografia, ma vederne il loro possibile sviluppo.
II. CONGIUNTURA E RISTRUTTURAZIONE.
A. La ristrutturazione industriale
L'attuazione delle politiche economiche in Italia, segue con monotona coerenza
le direttive delle centrali imperialiste. L’Italia, in quanto è
anello debole della catena imperialista, assume su di sé gli aspetti
più contraddittori e laceranti della crisi internazionale. In altre parole,
al nostro paese spettano i lavori più schifosi, e i capitalisti italiani
saranno quelli con l’acqua alla gola più di tutti.
Perciò la recessione, provocata dal fatto che il crollo degli investimenti,
l’inflazione e la disoccupazione sono ormai delle costanti, si sta traducendo
a partire dall’autunno in una offensiva senza precedenti contro i proletari.
Ma non in tutti i settori tira aria di crisi. In alcuni le cose vanno a gonfie
vele: quelli legati all’industria bellica. E’ questo il campo strategico
della ristrutturazione industriale: sempre più l'economia diventa economia
di guerra.
L’unica produzione che apparentemente non crea ulteriori fattori di crisi
economica è quella destinata ad essere distrutta ed a distruggere.
L’industria bellica vera e propria e quella parte di settori ad essa collegati
(nell'elettronica, nel nucleare, in alcune componenti meccaniche, ecc) hanno
avuto un enorme sviluppo proprio in questi anni, tanto che l’Italia è
il quarto paese nella graduatoria mondiale dei paesi esportatori. Naturalmente,
questa presenza sul mercato mondiale degli armamenti è subordinata alle
direttive generali dell’imperialismo americano, che opera un rigido controllo
politico su questo settore, e “indirizza” la produzione italiana
di armi —nella quale è direttamente presente con uomini e capitali
suoi— secondo le esigenze del momento: per esempio, è noto che
dall’America è arrivato il “via” all’Italia per
un massiccio rifornimento di armi all’Iraq, proprio poco tempo prima che
incominciasse la guerra con l‘Iran.
Alla regolamentazione americana della produzione di guerra e della sua esportazione,
deve corrispondere, per i capitalisti nostrani, un adeguamento della struttura
produttiva secondo queste finalità. Essendo l’industria italiana
fortemente caratterizzata da una tecnologia medio—alta, essa si trova
già in una posizione di vantaggio per assolvere a questo compito. Ma,
perciò deve realizzare attraverso la ristrutturazione una differenziazione
produttiva che “ricicli” in funzione della produzione di armamenti
una parte sempre più rilevante degli impianti.
Sì tratta cioè di specializzare all’interno di ciascun settore
industriale un ciclo per la produzione di guerra, separandolo, potenziandolo,
e costruendovi sopra una organizzazione del lavoro dalle caratteristiche sempre
più “militari”.
Oggi, infatti, la produzione bellica percorre verticalmente tutto l’apparato
industriale italiano dalla siderurgia alla meccanica fine, dall’industria
dell’auto all’elettronica, per finire, recentemente, alla chimica
e alla farmaceutica. Accanto alle fabbriche esclusivamente dedite alla produzione
bellica, assistiamo allo sviluppo in ogni grossa azienda, sia privata che di
Stato, di reparti organicamente progettati per dare vita alla produzione di
armi: questo accade su scala sempre più ampia alla Fiat, per esempio,
all’Ansaldo, alla Borletti, alla GTE, ecc. Tutto ciò potendo e
dovendo differenziare la produzione a questo fine, è una vera manna dal
cielo per i capitalisti più in crisi.
Si veda il caso della Fiat, che, in crisi nel settore dell’auto, trova
in quello bellico una grossa valvola di sfogo, così come la trova la
cantieristica, che si ristruttura quasi esclusivamente per la produzione di
navi da guerra e lascia così la maggior parte della classe operaia occupata
nel settore alla mercé dei più selvaggi piani di ristrutturazione
e riduzione del personale.
Data la tendenza accelerata alla guerra dell’imperialismo, e l’enorme
quantità di risorse buttate nella corsa agli armamenti, si capisce dunque
bene come questo settore sia e sarà sempre più privilegiato negli
investimenti. Ma ciò, in quanto destinato in ultima analisi alla distruzione
non solo di merci ma anche di capitali, porta fatalmente non già a risolvere
ma a ingenerare ulteriori fattori di crisi, nel quadro della crisi generale
dell’imperialismo. Il ruolo dell’anello debole Italia, dal punto
di vista economico e politico, si traduce nel suo opposto dal punto di vista
militare, data la sua posizione geopolitica.
L’intera economia italiana si subordina allora all’esigenza Nato
di trasformare il fianco sud dell’alleanza in un fondamentale cardine
strategico. E’ un tema che dobbiamo approfondire, nel senso che già
oggi la lotta di classe in Italia vive dentro questi rapporti di forza, e si
trova dunque nella necessità obiettiva di qualificarsi sempre più
in senso antimperialista, all’interno di una nuova strategia internazionalista
del proletariato.
La vastità dei temi che solleva l’analisi della ristrutturazione
imperialista sta in realtà alla base della definizione di un Programma
Politico di Congiuntura.
Non vogliamo affrontare qui complessivamente questo programma, ma fissare i
punti essenziali, i terreni prioritari, per quanto parziali, sui quali cominciare
a costruirlo, secondo una linea politica corretta.
Nella fase dell’attuazione del progetto controrivoluzionario, i centri
dello scontro laddove si giocano le mosse iniziali e fondamentali di una lunga
partita, sono i luoghi concreti in cui si verifica l’oppressione del proletariato:
le grandi fabbriche, per quanto riguarda l’aspetto generale dello scontro
e le galere (e la politica della detenzione in genere) per quanto riguarda il
cuore della politica dell’apparato statale.
Avevamo individuato nel piano Pandolfi il piano economico nazionale che con
la più grande coerenza, aderiva alle esigenze dell’imperialismo.
Ed è tuttora su di esso che l’economia italiana si incanala, per
rimanere nel novero dei paesi cosiddetti forti. Il piano si diceva triennale,
ma a ben vedere sembra che abbia tempi di attuazione da qui all’eternità.
Le sue chiarezze senza mezze misure diventano attacco selvaggio all’intero
proletariato, per tamponare le numerose falle di un sistema produttivo destinato
a svolgere le mansioni più utili e sporche nella divisione internazionale
del lavoro dominata dagli americani. Si dovrà produrre solo ciò
che non turba l’egemonia politica ed economica dei veri e forti padroni
del carrozzone imperialista.
E’ questo l’imperativo politico che nel piano viene accolto e rispettato
con servilismo nella definizione dei tagli di interi settori produttivi, nel
saccheggio e nella distruzione di capacità del sistema industriale italiano.
La chimica, la siderurgia, il ciclo dell’auto, la gran parte della elettronica,
ecc, seguono tutti questo filo a piombo. Il crollo degli investimenti e il restringimento
della base produttiva vengono sostituiti con due parole magiche: efficienza
e produttività.
In termini più propriamente economici, ciò significa forzare i
meccanismi dell’accumulazione del capitale spingendo oltre ogni limite
i con fini dello sfruttamento proletario.
Il taglio della spesa pubblica, l’aggressione continua dei salari reali,
la razionalizzazione dei settori produttivi, ecc, sono le mosse che vengono
attuate dentro il disegno padronale per raggiungere questi obiettivi. Gli effetti
che si riversano da tutto ciò sul proletariato sono oggi ben visibili
nella realtà quotidiana: espulsione di classe operaia occupata e conseguente
dilatazione del numero di disoccupati che vanno ad ingrossare le file dell’esercito
industriale di riserva, o di una emarginazione ormai stabile. La mancanza di
un reddito investe ora in un modo di gran lunga superiore segmenti di classe
stritolata, soprattutto al sud, da una condizione di vita sempre più
misera. I ritmi di lavoro non sono mai sufficientemente elevati, c’è
sempre qualcosa di più da spremere sia dal lavoro operaio produttivo
che da quello dei servizi, come rimedio universale in sostituzione del crollo
degli investimenti.
Non c’è un solo settore produttivo o improduttivo in cui la nocività
non sia in vertiginoso aumento. In casi sempre più numerosi, come nel
ciclo chimico o nel siderurgico o nel lavoro ospedaliero, si è arrivati
a non avere garantita neppure la sopravvivenza.
Cogli attuali rapporti di produzione e con l’attuale classe dominante,
l’opera dell’uomo sull’ambiente non sviluppa un potenziamento
delle risorse umane naturali, ma la loro distruzione in un rapporto definitivamente
stravolto. L’insieme di queste contraddizioni si è riversato negli
anni scorsi sulla classe operaia delle piccole fabbriche e sui lavoratori dei
settori produttivi, dove era più facile per il capitale muoversi sin
da subito con estrema disinvoltura. Ma in ciò occorre vedere la conferma
di quel che nel piano viene chiaramente ribadito: la centralità della
grande impresa multinazionale.
Questo non significa affatto che la grande impresa viene preservata dagli effetti
della crisi, ma soltanto privilegiata dalla ristrutturazione, e che a pagare
per primi i costi della crisi sono quei settori che, a differenza della grande
impresa, sono meno abituati ai rigidi schemi della divisione internazionale
del lavoro. Ma se l’intervento previsto dal piano in molti casi è
stato attuato con la mano del chirurgo, con la grande impresa si opera con la
mannaia del macellaio. E’ Agnelli, naturalmente, che si è assunto
l’incarico del capofila. L’offensiva scatenata contro la classe
operaia Fiat, l’accordo capestro sui licenziamenti mascherati siglato
con le confederazioni sindacali, dovrebbero essere le pietre miliari di un vero
e proprio massacro politico della classe operaia. La capitolazione dei vertici
sindacali che ha concluso la vertenza ci dà la misura di che razza di
vicolo cieco sia la politica sindacale revisionista, e a qual suicidio essa
inevitabilmente conduca (suicidio fra l’altro, che non risparmierà
neppure i bonzi che ne sono gli apologeti, ma ci dà anche la misura della
reale integrazione degli apparati del revisionismo nostrano con lo SIM).
Naturalmente non si tratta più di ottenere il coinvolgimento del PCI
attraverso la formula morotea della solidarietà nazionale, di consentire
margini, seppur minimi di contrattazione sindacale, ma di mettere la firma di
Lama in calce ai piani di Agnelli.
C’è da dire che quest’offensiva il padronato italiano l’ha
preparata con molta cura, e attraverso tappe facilmente identificabili: 61 licenziamenti
esemplari alla Fiat che hanno di fatto dichiarato illegale ogni forma di lotta,
lo sterminio di un’intera parte di avanguardie operaie, vera struttura
portante del MPRO, accompagnata dall’arresto di centinaia di compagni;
le migliaia di licenziamenti attuati silenziosamente questa estate per assenteismo,
per arrivare infine allo scontro aperto generale di questo autunno.
Ma è vero che per i padroni le cose stanno andando tutte così
lisce? non ci sembra proprio. La reazione operaia contro la stangata governativo-sindacale
di luglio, la lotta e la coscienza di classe espressa alla Fiat davanti ai cancelli
e sotto i palchi dei bonzi sindacali, non sono solo una pesante ipoteca su questo
progetto, ma costituiscono la materializzazione di un movimento di resistenza
che nessuno si illude di avere battuto.
Al contrario, la tenacia, la forza, la mobilitazione con cui la classe operaia
resiste alla ristrutturazione, sono l’esaltante premessa di un nuovo ciclo
di lotta durante il quale il potere proletario armato si estenderà e
si rafforzerà. Quelle che oggi agli opportunisti appaiono come delle
irrimediabili sconfitte, segnano invece la presa di coscienza per migliaia di
operai della necessità della lotta armata per il comunismo e della necessità
di progredire e organizzarsi per non farsi schiacciare. Anche questa volta i
padroni e i loro lacchè sperano di avere vinto, ma anche questa volta
si bruceranno le dita.
Se la disperata ricerca di margini di profitto porta ad un attacco che si configura
ormai nei termini dell’annientamento politico non bisogna pensare che
esso non abbia una tattica, attraverso una simultaneità di strumenti
che non va sottovalutata. La ristrutturazione delle fabbriche è oggi
il centro dell’iniziativa antiproletaria, e pertanto oggetto degli sforzi
congiunti delle forze controrivoluzionarie. Essa cioè non si limita a
ridimensionare alcuni settori e a potenziarne altri secondo la maggiore composizione
organica del capitale che quel tipo di produzione ha in sé, ma è
una precisa strategia complessiva che attraversa ogni settore dell'economia
industriale in profondità, nell’organizzazione del lavoro, nelle
forme della composizione di classe, anche se tutto questo provoca non poche
contraddizioni in campo borghese. La centralità politica della grande
impresa dato il suo carattere multinazionale, ha avuto la sua verifica attraverso
la contrazione del mercato interno, volta a favorire l’inserimento dell’intera
economia industriale nel mercato internazionale. Questa è una delle principali
conseguenze della ricerca di maggiore “valore aggiunto” delle merci
nell’attuale crisi. Questa politica economica è diventata unitaria
(abbracciando settori avanzati e arretrati, grandi e piccole aziende). E ciò
grazie all’ampliamento della struttura creditizia. Lo sviluppo del capitale
finanziario è andato oltre alla funzione diretta di capitale bancario
e industriale verso forme sempre più sofisticate di controllo da parte
dello Stato—banca e delle grandi imprese. Finanziarie e consorti non si
limitano a condizionare le scelte di mercato, contribuendo a modellare quest’ultimo,
ma più in profondità definiscono spesso persino gli organici,
la scelta del prodotto, la sua quantità nelle singole aziende in crisi,
eccetera; da in lato questa struttura accentua i conflitti interborghesi (vedi
la lotta contro il carattere anarchico dell’economia sommersa, lo scannamento
fra borghesia privata e di Stato, ecc), ma dall’altro ha consentito sulla
classe, che l’attacco all’occupazione diventasse il perno della
ristrutturazione, in una regia sapientemente differenziata. L’attacco
all’occupazione, per i modi in cui viene condotto, si traduce in processo
continuo di stratificazione del proletariato, il quale è costretto a
mutare le forme specifiche della sua composizione di classe. Per fare un esempio:
parallelamente alla temporanea sospensione dei licenziamenti Fiat, sono stati
sospesi una serie di crediti al mondo consortile delle piccole e medie aziende.
Il che significa un ulteriore aumento di licenziamenti in questo comparto oltre
quelli, previsti dalla Gepi che come tutti sanno è un ente di salvataggio.
Sviluppo del controllo da parte del capitale finanziario (di Stato e privato,
insieme) e attacco all’occupazione, oltre ad essere aspetti legati, sono
momenti di fondamentale importanza in questa fase dello sviluppo capitalistico,
quando la possibilità di investimento non dipende da possibilità
reali di allargamento della base produttiva, ma dalla adattabilità alla
sopravvivenza attraverso l’accumulo di tecnologie e la capacità
di supersfruttamento. Sotto questo profilo, i settori di classe che non vivono
gli aspetti più stridenti della ristrutturazione sono quelli appartenenti
alla produzione considerata trainante, ad alta tecnologia. Ma in Italia questi
settori occupano una parte ridotta dell’intero apparato industriale, dato
il tipo particolare del nostro sviluppo capitalistico. Essi godono dei migliori
appannaggi (data la larga presenza di capitale di Stato che monopolizza, per
esempio, il settore nucleare), e occupano una classe operaia numericamente ristretta,
con occupazione relativamente stabile e con una reale capacità professionale,
adeguata alla tecnologia moderna. Perciò questi settori sono tanto importanti
nell’analisi per capire l’evoluzione della ristrutturazione in generale,
quanto poco indicativi della dinamica della lotta di classe.
Centro dell’attacco della borghesia imperialista e cuore della lotta di
classe in Italia sono gli operai che lavorano nei settori a tecnologia “media”.
Si tratta dei settori che caratterizzano la maggior parte dello sviluppo capitalistico
italiano, non solo fino ad oggi, ma anche nel nostro futuro di paese di serie
B. Si va dall’auto alla cantieristica civile che sono settori strutturalmente
a tecnologia media al tipo di chimica o di siderurgia o persino di elettronica
(civile) che l’Italia deve produrre non potendo aspirare a mete più
raffinate per le quali dipende dai brevetti stranieri. Tutta questa produzione
è quella in cui è concentrata la maggior parte della classe operaia
delle grandi fabbriche, oltre che il maggior numero di operai in assoluto. E’
prevalentemente in mano alle multinazionali private. Lo scontro tra borghesia
privata e di Stato racchiude un conflitto di potere che ha questa base strutturale.
La necessità di elevare la composizione organica del capitale in questo
comparto non può tradursi semplicemente nell’aumento di capitale
fisso rispetto alla situazione precedente. Ciò infatti significherebbe
allargare la base produttiva in vista di una espansione del mercato: insomma
ignorare la crisi, la economicità, il buon senso. Si realizzano allora
le seguenti condizioni:
1) diminuzione degli occupati in rapporto al capitale fisso esistente;
2) riadeguamento dell’organizzazione della produzione alla nuova quantità
della forza—lavoro impiegata con relativi investimenti in questo senso;
3) conseguente rafforzamento dell’autorità della produzione come
”piano”, che si contrappone al singolo operaio nel mantenere i nuovi
livelli di sfruttamento.
Oggi, come vediamo, il primo punto non si dà più con lo stillicidio
dei licenziamenti nelle piccole fabbriche e il blocco del turn—over generalizzato,
ma come un’ondata di licenziamenti, epicentro di un attacco economico-politico—militare
che riguarda l’intera stratificazione proletaria e la sua capacità
di lotta; a partire dai suoi punti più alti.
Parallelamente, lo sviluppo dell’automazione vuole espropriare, con l’esasperata
parcellizzazione del lavoro manuale, ogni possibilità della classi di
contrapporsi al capitale a partire dal potere “contrattuale” costituite
dalla conoscenza del processo produttivo complessivo; e vuole realizzare la
possibilità materiale di sfruttare ancora di più la forza—lavoro
viva. La rivoluzione industriale dell’informatica applicata non solo agli
impianti, ma ormai anche a molti prodotti finiti, i microprocessori, che immettono
in un unico pezzo quello che era il frutto meccanico di un’insieme di
mansioni operaie professionalizzate.
Due sono le conseguenze di questo processo sulla composizione di classe in questi
settori ( e quindi per la maggior parte, è la più combattiva della
classe operaia).
Da un lato si diffonde ancor di più la figura di classe più espropriata
che abbiamo definito “operaio massa”. Pensare all’operaio
massa come l’addetto alle catene o alle “vecchie giostre”
o ai “tappeti” e cose simili, legate ai compiti dell’assemblaggio,
è quanto di più riduttivo si possa pensare. Da tempo oramai, con
l’estendersi dell’informatica, ogni macchina utensile può
trasformare il suo addetto in operaio massa anche nelle piccole fabbriche riciclate
nella produzione della “scelta europea”. Causa di questo processo
è l’uso sempre più massiccio della scienza come forza produttiva
contrapposta al lavoro manuale per mantenere gli attuali rapporti di produzione.
Il corrispettivo della diffusione dell’operaio massa è perciò
con tutta naturalezza l’aumento a dismisura delle funzioni di controllo.
In parole povere, alle vecchie divisioni basate sulla professionalità
si va oggi sostituendo una nuova forma di divisione, in cui il piano del capitale
nella produzione appare in tutta la sua ostilità come controllo sul lavoro
parcellizzato. Non solo i capi si trasformano in puri sbirri, ma le stesse aristocrazie
operaie di vecchio tipo vengono via via sostituite da una nuova aristocrazia
che si distingue dal fatto che nelle sue varie funzioni (sindacali e professionali)
tocca sempre meno l’utensile per limitarsi a guardare quelli che lo usano:
e quindi è improduttiva e non operaia. Mai come per questi strati di
operai massa la presunta neutralità dello sviluppo delle forze produttive
sbandierata dai revisionisti è apparsa in tutta la sua assurdità.
Le forze produttive a partire da quel che è oggi la classe operaia, sono
plasmate secondo gli attuali rapporti di produzione che appaiono in tutta la
loro ferocia. Accanto a questi strati di classe si affiancano oggi altri dei
settori a bassa tecnologia delle piccole e medie fabbriche, ed i lavoratori
dei servizi. Il rastrellamento di una massa maggiore di plusvalore relativo
di aziende a tecnologia media diventa, dove la tecnologia è più
bassa, riserva di un maggiore plusvalore assoluto. La riduzione dei costi di
lavoro, non potendo però avvenire tramite il prolungamento della giornata
lavorativa, avviene attraverso lo “spremere al massimo quanto serve”.
L’industria di questi settori trasforma i suoi addetti in operai massa
precari, la cui stabilità occupazionale sottostà ai minimi cambiamenti
di “umore” del mercato, secondo le esigenze del giro grosso delle
grandi imprese. Il carattere “indotto” di queste mondo non deriva
più, cioè, solo dal fatto che in esso è concentrata la
produzione della componentistica per le grandi imprese, perché è
la sua stessa esistenza che è ”indotta” come fenomeno direttamente
dipendente dal sistema integrato della grande impresa attraverso i meccanismi
della intermediazione finanziaria.
Come già vedevamo in tendenza nella DS ‘78, la precarietà
non riguarda più il singolo operaio, ma la stessa unità produttiva
in cui l’operaio è inserito, come valvola di sfogo del sistema
delle multinazionali.
Abbiamo messo i lavoratori dei servizi alla stessa stregua di questi strati
operai pur non essendo produttivi, per un motivo molto semplice: nella politica
fiscale dello Stato essi rientrano ormai nella voce “taglio della spesa
pubblica”.
Lo Stato, nella sua veste di imprenditore nei settori trainanti, nella sua veste
di capitalista collettivo che deve mediare con le esigenze delle multinazionali
private, di finanziatori di sbirri ecc, non può che rifarsi sotto questa
voce. I lavoratori dei servizi perdono ogni residua sembianza di strati proletari
privilegiati, sono destinati anch’essi a subire uno sfruttamento sempre
maggiore, in un numero sempre minore.
La ristrutturazione economica, e in particolare quella dell’apparato industriale,
persegue quindi l’intento di accumulare capitale e di attivare meccanismi
che a questo sono funzionali. Ma questo naturalmente ai capitalisti non basta.
Essi sanno che devono sconfiggere la resistenza proletaria che il successo del
loro piano è subordinato alla sconfitta del movimento di classe. Tutto
il piano di ristrutturazione è informato infatti da due condizioni politiche:
mobilità e militarizzazione. La mobilità è il principio
che guida ogni mossa, anche la più piccola della ristrutturazione. Significa
che, nel progettare la chiusura di una fabbrica, lo smembramento di un reparto,
la modifica di un qualsiasi processo produttivo, l’obiettivo che i padroni
tentano di raggiungere è quello di smembrare la composizione di classe,
con una stratificazione in cui sia sempre più difficile l’identificazione
proletaria e la possibilità di riunificare il proletariato. Per i capitalisti
il proletariato serve “mobile” perché possa essere duttile
e malleabile. Il restringimento della base produttiva segue certamente le esigenze
economiche del capitale, ma nel modo di raggiungerlo deve ottenere lo scopo
di impedire l’unità di classe, di frantumare l'organizzazione autonoma,
di annichilire preventivamente la crescita e lo sviluppo della coscienza e della
lotta proletaria.
I licenziamenti non vogliono dire soltanto buttare un sacco di gente sul lastrico.
Vogliono dire anche modificare profondamente la composizione dell’intero
proletariato. Vuol dire rendere disponibile, perché ricattata, priva
di reddito, una fetta sempre maggiore di proletari a lavoro nero, saltuario,
precario. Si realizza cosi una dispersione della potenzialità proletaria
nei mille rivoli del lavoro supersfruttato.
Ogni movimento del capitale, ogni licenziamento, ogni capillare manovra è
rivolta ad intaccare la composizione politica della classe, ed è per
questo che la mobilità va combattuta come il peggiore dei nemici. Ed
è per questo che la resistenza proletaria quando si misura su questo
terreno è offensiva. E’ scontro di potere in una prospettiva di
superamento delle divisioni di classe..
La militarizzazione è l’altro aspetto caratterizzante della ristrutturazione
economica, che nel sistema produttivo raggiunge il massimo della sua applicazione..
Tutto il complesso progetto, settore per settore, di automazione della produzione
tende a porre sotto un rigido controllo di tipo militare gli operai. Vale a
dire: l’automazione ha come obiettivo quello di legare l’uomo alla
macchina in modo che sia quest’ultima a determinare i ritmi e le scadenze,
si cerca di così di rendere “oggettivo” il rapporto uomo—macchina
e di annullare definitivamente la soggettività dell’operaio. L'organizzazione
del lavoro punta attraverso l’applicazione di sistemi avanzati, a vincolare
senza la possibilità di potersene sottrarre i comportamenti operai, la
loro possibilità di interazione col loro lavoro, al meccanismo autonomo
e determinato della catena produttiva. La speranza è che così
facendo venga eliminata quella “fastidiosa” microconflittualità
che la resistenza opera già pratica tutti i giorni.
Ogni riforma del processo produttivo, dell’organizzazione del lavoro,
per quanto mistificata e lubrificata dalla demagogia padronal—sindacale,
è guidata da questo perfido intento: sottoporre in ogni luogo di lavoro,
in ogni reparto, in ogni linea, la classe operaia ad un “nuovo modo di
fare la produzione”, ad una nuova organizzazione che abbia in sé
la capacità di castrare la soggettività operaia.
Parallelamente a questi meccanismi oggettivi (insiti cioè nel processo
produttivo), agiscono altri di tipo soggettivo. Sono i molteplici strumenti
di controllo, aperti e sputtanati, quali i capi, i guardioni, i sindacalisti,
i carabinieri sulle linee, i DIGOS, le schede di identificazione personale (applicazione
superlativa dell’informatica per il controllo, per seguire in ogni istante
i comportamenti individuali degli operai), le telecamere ovunque, ecc. E’
così che una fabbrica, un ospedale, uno scalo ferroviario, assomigliano
sempre più ad un campo di concentramento militarizzato a tal punto che
il consenso operaio diventa superfluo, mentre decisiva è l’impostazione
militare.
Si può dire che gli unici “investimenti” fatti negli ultimi
tre anni da capitalisti vanno unicamente in questa direzione.
Se la mobilità è l’arma che crea la stratificazione, la
militarizzazione è quella che nella stratificazione persegue l’annientamento.
Questo è valido in ogni settore di classe.
All’informatica impiegata per il controllo della grande fabbrica corrisponde
l’impiego del blindato e la carica della polizia nella piccola; all’assedio
permanente nei quartieri ghetto corrispondono le pistolettate omicide dei posti
di blocco.
LA MILITARIZZAZIONE E’ LA LINEA STRATEGICA DELLA BORGHESIA PER MANTENERE
SEMPRE PIU’ FORZATAMENTE E VIOLENTEMENTE LE CONDI ZIONI DELLO SFRUTTAMENTO
E PER DISTRUGGERE NEL PROLETARIATO CIO’ CHE E’ VIRTUALMENTE POSSIBILE.
Combatterla è compito primario delle forze rivoluzionarie. Combatterla,
mobilitando il movimento di resistenza, per disarticolare e distruggere in ogni
dove gli strumenti con cui si attua, va nel senso della guerra civile per il
comunismo e della costruzione del potere proletario.
Lo scontro tra la strategia padronale e gli interessi immediati del proletariato
vive dunque in termini di assoluto antagonismo. L’attacco alle condizioni
di vita e di lavoro non riguarda aspetti congiunturali (di mercato o di repressione
di una singola lotta), ma vuole caratterizzare i termini essenziali di un’intera
fase storica. All’interno di una complessa strategia economica e politica,
il capitale intende cioè, di fronte alla crisi “rimodellare”
le forze produttive nell’illusione di rendere eterni i suoi rapporti di
produzione. E’ per questo che l’attacco agli interessi immediati
del proletariato prende anche i connotati dell’annientamento politico.
Ma è anche per questo dunque che dal punto di vista operaio, la lotta
immediata non può porsi in termini rivendicativi ma diventa scontro di
potere.
Da questa possibilità deriva la necessità dell’organizzazione
comunista di unificare queste lotte all’interno di un programma di transizione
ai Comunismo. Occupazione, intensificazione dello sfruttamento, nuove forme
di controllo e divisione, sono oggi terreni immediati sui quali bisogna saper
individuare i nodi strategici del piano padronale. Infatti dietro l’attacco
differenziato all’occupazione emerge il carattere politico di ogni licenziamento.
Carattere politico, perché se per i padroni costituisce il punto centrale
per una nuova stratificazione delle forze produttive, per i proletari lottare
su questo terreno diventa l’articolazione specifica di un programma mirante
a lavorare tutti per lavorare meno. Dunque assumere questa parola d’ordine
a livello generale può determinare un elemento di unità per tutti
i lavoratori, produttivi e improduttivi, può impedire che, per la sua
complessa natura, la lotta contro la stratificazione proletaria (blocco del
turn—over, accordi separati, cassa integrazione prolungata, mobilità,
precarietà ...) si disperda in mille rivoli.
OGNI LICENZIAMENTO E’ POLITICO!
NESSUN LICENZIAMENTO RIMARRA IMPUNITO!
La macchina che segna i pezzi, la scheda perforata che determina il lavoro operaio,
il capo sbirro, il sindacalista spia, sono gli aspetti più immediati
e visibili, gli ostacoli più diretti di ogni lotta contro la repressione
e lo sfruttamento. Lottare contro queste cose vuoi dire ormai mettere in discussione
una divisione esasperata tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, che avendo
sempre meno qualsiasi giustificazione storica, si presenta sempre più
come pura imposizione.
CONTROLLARE I CONTROLLORI!
SABOTARE E COLPIRE L’APPARATO DI CONTROLLO: I SUOI MEZZI , LE SUE STRUTTURE,
I SUOI UOMINI!
INDIVIDUARE, ISOLARE E COLPIRE LE SPIE E GLI INFILTRATI!
Riduzione degli organici, nuove forme di divisione nell’organizzazione
del lavoro, in connubio con le tecniche di automazione, tese a fare dipendere
sempre più l’operaio dalla macchina, sono i mezzi che materializzano
l'intensificazione dello sfruttamento. In questo quadro la nocività non
è solo frutto di impianti o produzioni arretrate, ma esattamente l'opposto.
Nelle mille forme in cui si manifesta la resistenza operaia allo sfruttamento,
essa deve assumere i al suo interno l’obiettivo che:
NESSUN REPARTO NOCIVO DEVE FUNZIONARE!
Questa parola d’ordine non mira ad ottenere qualche miglioria nell’ambiente
di lavoro o il pagamento di qualche indennità in più; ma a colpire
il cuore delle multinazionali nelle loro scelte strategiche, ad affermare potere
proletario armato per imporre le finalità collettive della produzione,
a ribaltare l’attuale rapporto uomo—natura in una società
diversa.
SABOTARE CON TUTTI I MEZZI L’INTEIISIFICAZIONE DELLO SFRUTTAMENTO!
ANNIENTARE I MASSACRATORI DEL PROLETARIATO!
B. La ristrutturazione dello Stato.
1. Lo Stato espressione della borghesia imperialista.
Quando i rapporti di produzione strozzano l’ulteriore espansione delle
forze produttive, quando cioè si produce il fenomeno della crisi generale
del modo di produzione, la “politica” è costretta a tirare
fuori i denti ed a assumere un ruolo determinante. E’ la realtà
economica, naturalmente, che provoca questa accentuazione del momento politico,
determinato, in ultima istanza dal livello esclusivo delle contraddizioni fondamentali.
Tra parentesi diciamo che questa affermazione non ha nulla di poco ortodosso
dal punto di vista marxista. Il prevalere del "politico" in alcuni
momenti storici non ha nulla a che vedere con la sua presunta autonomia!
L’essenza della posizione dominante dello Stato nella fase di crisi generale
sta nella molteplicità dei meccanismi economici, politici, sociali, giuridici,
ideologici e militari che pone in essere e fa operare in ogni ambito, della
società borghese in funzione della sua conservazione, cioè della
conservazione dei rapporti capitalistici ormai superati.
Il carattere strutturale della crisi non fa che potenziare il ruolo dello Stato
quale rappresentante dell’interesse delle multinazionali.
Se l’allargamento delle funzioni dello Stato, che sempre più deve
intervenire per controbattere la tendenza alla crisi insita nel modo di produzione
capitalistico, porta alla crisi della forma—Stato stessa, ciò non
significa affatto che questa crisi ne diminuisca il ruolo. All'opposto essa
spinge lo Stato ad un salto di qualità.
Lo Stato diventa espressione politica reale della borghesia imperialista, perde
l’aspetto di rappresentante complessivo dell’intera borghesia e
assume definitivamente la forma di Stato imperialista delle multinazionali in
quanto aumenta sempre più, in questa fase, l’influenza sostanziale
che nel processo di formazione delle decisioni strategiche viene esercitata
dalla frazione monopolistica multinazionale del capitale. Lo Stato diventa la
determinazione operativa delle centrali imperialiste, e passa decisamente all’attuazione
del progetto controrivoluzionario.
La politica dello Stato italiano oggi è l’applicazione puntuale
delle direttive economiche del FMI e delle direttive politico—militari
della Nato sotto la guida dell’imperialismo americano. Al di là
delle apparenze di un quadro di democrazia parlamentare che viene formalmente
e opportunamente mantenuto, da una parte, il personale politico imperialista
si concentra nei ministeri e istituti chiave dello Stato (ministero del tesoro,
banca d’Italia, ...) così come negli anelli del comando padronale
(Confindustria Intersind, ....), i cui funzionari vengono oggi a costituire
il nerbo dell'imperialismo, e dall’altra i CC diventano l’esercito
antiproletario in tutta la complessità delle sue funzioni integrate nella
strategia globale della Nato.
Nella metamorfosi della forma dello Stato non possiamo vedere certo lo sviluppo
di una politica socio—assistenziale, come gli scienziati borghesi si affannano
a dimostrare, cioè una politica volta a porre rimedio alle contraddizioni
dello sviluppo capitalistico attraverso una serie di interventi molteplici ed
integrati nel sociale, quanto lo svilupparsi e il consolidarsi di una politica
"social—militare". Lo Stato si determina come Stato della controrivoluzione
preventiva con la funzione di garantire i presupposti stessi dell’accumulazione;
e, contemporaneamente, di difenderli con la forza delle armi.
DA STATO PER IL CONTROLLO SOCIALE TENDE A TRASFORMARSI IN STATO PER LA GUERRA.
Ma esso non riesce più a risolvere la questione decisiva:
LA GOVERNABILITA’ DEL SISTEMA.
Perché nessun Esecutivo, per quanto onnipotente, riuscirà mai
a mettere d’accordo le richieste degli strati sociali super sfruttati,
marginalizzati, dalla riduzione della base produttiva, privati di realistico
futuro, con le leggi dell’accumulazione capitalistica.
Proprio per questo le contraddizioni che l’intervento dello Stato produce
nei confronti della borghesia e all’interno delle sue diverse frazioni
andranno adeguatamente considerate, per individuarne i punti deboli e portare
con più efficacia il nostro attacco. Non devono però esser sopravvalutate
se non si vogliono correre tragici errori nella valutazione della congiuntura.
Vediamo le polemiche furibonde di alcuni settori dell’industria privata
verso la concorrenza dello Stato e più ancora sull’entità
e sulla distribuzione della spesa pubblica. Vediamo le lotte selvagge che si
sviluppano per il controllo del sistema bancario, vediamo come si sbranano i
partiti tra di loro ... ma queste contraddizioni riguardano sempre un aspetto
particolare, una delle facce dello Stato, mai quella principale: quella rivolta
al mantenimento degli attuali rapporti di produzione attraverso meccanismi molteplici,
in cui IL MOMENTO ESSENZIALE E' COSTITUITO DAL “NO” AL PROLETARIATO
SU TUTTA LA LINEA (dalle sue esigenze immediate a quelle strategiche). Attorno
a questo obiettivo principale la borghesia, in questa congiuntura, si trova
più che mai compatta!
Il “farsi Stato” di ogni frazione della classe borghese risponde
proprio a questa esigenza irrinunciabile, e caratterizza l’attuale congiuntura.
Il farsi Stato di queste frazioni non significa infatti che esse diventano tutte
stupidamente subalterne a ciò che dice il Governo, ma avviene all’opposto
una ridefinizione profonda del ruolo di tutte le istituzioni economiche, sociali
e politiche della società borghese. Da rappresentanti degli interessi
di questa o quella parte sociale, tutti ricomposti e unificati nello Stato attraverso
l’istituzione parlamentare, esse oggi hanno un ruolo rovesciato. Si sono
trasformate negli apparati della coercizione indiretta (non militare) dello
Stato, apparati civili per il consenso e per l’esecuzione della controrivoluzione
nei; vari ambiti.
Attraverso una logica contraddittoria quanto inevitabile, il “cuore dello
Stato” ossia la strategia politica della borghesia imperialista diventa
sempre più controparte immediata dei proletari.
2. Il ruolo della DC, partito—regime.
In Italia affrontare un problema dello Stato significa affrontare il problema
della DC, perché la DC materializza in sé tutto quanto dobbiamo
combattere e distruggere; questo partito, in più di trent’anni,
ha saputo compenetrarsi con il potere in tutte le sue articolazioni, in tutte
le sue forme, tanto da DIVENTARE IL POTERE, da identificarsi con la struttura
economica, politica, militare dello Stato stesso. Al punto che distruggere la
DC significa distruggere l’intero sistema politico—istituzionale
che la borghesia italiana, con l’aiuto determinante dell'imperialismo
americano ha costruito dal dopoguerra ad oggi. La DC è diventata così
il PARTITO-REGIME che si è impadronito dello Stato che lo ha modellato
a sua immagine e somiglianza che ne ha fatto lo strumento del suo potere.
Quando si dice che la DC materializza in sé tutto quanto dobbiamo combattere
e distruggere si dice proprio questo. Il proletariato nella sua lotta di ogni
giorno è proprio la DC’ che si trova continuamente di fronte.
E se la trova di fronte nell’insieme delle sue varie funzioni, strettamente
intrecciate l'una all’altra: quella di PARTITO—IMPRENDITORE, di
PARTITO-BANCA, di PARTITO—STATO, che tutti assieme definiscono appunto
la sua natura intrinseca di vero e proprio PARTITO—REGIME.
La DC è PARTITO—IMPRENDITORE essendo il partito che ha pilotato
l’intera processo di sviluppo industriale in Italia nel dopoguerra, ponendosi
come il partito del grande capitale privato. Nello stesso tempo controlla, attraverso
il sistema delle Partecipazioni Statali, il capitale pubblico.
Dentro la DC è dunque organizzata la grande borghesia monopolistica di
Stato, intimamente legata al capitale multinazionale ed estremamente attiva
sul piano della penetrazione imperialistica del capitale italiano nei paesi
del terzo mondo. E’ questa frazione della borghesia che guida in Italia
i processi di ristrutturazione che coinvolgono tutta una serie di settori decisivi,
quali il siderurgico, il cantieristico, l’energetico, l’elettronico.
Questa borghesia, attraverso il controllo dell’industria di Stato è
in grado di controllare e orientare lungo la via della ristrutturazione parti
consistenti dell’industria privata, assumendosi una funzione trainante.
Ma, in quanto partito—imprenditore, la DC copre una molteplicità
di figure organizzando politicamente parte della piccola industria (Confapi),
della borghesia agraria e rurale (CONFAGRICOLTURA), e dell'artigianato. Inoltre,
una delle più salde roccaforti del suo potere sta nel controllo pressoché
totale che essa ha delle Camere di Commercio, attraverso le quali può
estendere il suo potere in tutte le articolazioni e gli aspetti del meccanismo
economico.
Ai fini di questa posizione di dominio, è tuttavia essenziale l’altra
funzione della DC quella di PARTITO—BANCA.
Il sistema delle banche è saldamente in suo pugno, e non c’è
lotta per quanto feroce che la DC non sia disposta a mantenere pur di sostenerlo.
Attraverso il controllo del credito, gli UOMINI—BANCA della DC esercitano
un enorme potere nei confronti dell’intera struttura produttiva, tanto
più che la DC non controlla solo gli istituti centrali, laddove, in accordo
strettissimo con gli istituti del capitale multinazionale, si decidono le politiche
monetarie e finanziarie, ma controlla pure tutta la rete capillare delle Casse
di Risparmio. Così solo la DC è in grado di omogeneizzare sulle
linee portanti della ristrutturazione l’intera borghesia italiana, costituendone
l’elemento propulsore e unificante.
Ma infine la DC è anche PARTITO—STATO. Cioè è il
partito in cui si raccoglie la maggior parte del personale politico imperialista
che costituisce il nerbo dello Stato, anni di Stato nei ministeri negli uffici
studi, nelle commissioni che, a livello nazionale ed internazionale, mettono
a punto le strategie della controrivoluzione preventiva.
Abbiamo sempre visto nella DC l’asse portante del progetto, la forza che
polarizzava un quadro politico in formazione, forte, omogeneo, adeguato alle
esigenze ferree della ristrutturazione. Ma ora la DC è qualcosa di più
e di diverso. E’ la struttura politica attorno alla quale si è
cementato il nuovo livello di stabilizzazione del quadro politico, il partito
che ha richiamato attorno a sé un coacervo di componenti politiche coalizzate
nell’applicazione (e non più solo nella elaborazione) del piano
controrivoluzionario. Ha selezionato il personale di questa coalizione che ha
assunto in toto la direzione del progetto stesso, raggiungendo così un
grado di operatività di gran lunga più elevato del precedente,
relegando ad un livello molto secondario le contraddizioni interne alla normale
dialettica del potere. Questo lo dobbiamo saper vedere, al di là delle
lotte intestine e dei balletti che ogni volta accompagnano la formazione e l’immancabile
successiva caduta dei vari governi.
E’ il personale specializzato di questo partito—Stato che ha messo
insieme quella specie di Bibbia controrivoluzionaria che è il piano Pandolfi
e che si prepara a gestire la controrivoluzione preventiva, cioè l’insieme
delle politiche di controllo sociale e di militarizzazione che possono permettere
l’attuazione del piano stesso. Non c’è alcun aspetto che
questi UOMINI—STATO trascurano, quando è in gioco il dominio della
loro classe, quando la resistenza proletaria e l’attacco delle avanguardie
rivoluzionarie smascherano fino in fondo il volto livido e reazionario dei loro
progetti. Non c’è oggi ministero, banca o direzione aziendale in
cui la DC non sia presente ed attiva, per condurre in prima persona questa offensiva.
LA DC E' L’ASSE PORTANTE DELL’ATTUAZIONE DELLA CONTRORIVOLUZIONE
IMPERIALISTA CHE DOBBIAMO ATTACCARE E DISTRUGGERE!
Questa linea deve tenere conto delle forme concrete con cui gli uomini di questo
partito esercitano le loro funzioni di personale politico imperialista, organizzandosi
nei diversi gruppi e consorterie che rappresentano all’interno dello Stato
e dei suoi apparati altrettante funzioni del capitale monopolistico multinazionale.
E’ a partire di qui che si può definire una linea selettiva di
attacco alla DC veramente efficace, cioè in grado di produrre contraddizioni
strategiche. L’attacco va portato contro quegli uomini e quelle strutture
che, all’interno del partito, dello Stato, dell'apparato produttivo, sono
espressioni delle consorterie dominanti della borghesia imperialista e che attraverso
di esse svolgono funzioni centrali di comando, gestione, elaborazione. Proprio
perché la DC è il partito che da un lato raccoglie gran parte
del personale specializzato delle consorterie dominanti, e dall’altro
ne costituisce un fondamentale veicolo di potere politico, attaccarla vuoi dire
attaccare il cuore dello Stato.
DISARTICOLARE E ANNIENTARE LA DC E’ IL PRESUPPOSTO PER LA DISARTICOLAZIONE
E LA DISTRUZIONE DELLO STATO.
ATTACCARE LA DC PER ATTACCARE LE CONSORTERIE DOMINANTI.
COLPIRE GLI UOMINI DELLA DC CHE NEL PARTITO, NEGLI APPARATI DELLO STATO, NEL
SISTEMA PRODUTTIVO, GUIDANO IL PROCESSO DI RISTRUTTURAZIONE IMPERIALISTA.
ISOLARE E DISARTICOLARE I TERMINALI PERIFERICI ATTRAVERSO I QUALI IL POTERE
E IL CONTROLLO SOCIALE DELLA DC SI ESERCITA.
III. IL PCI, OVVERO IL PARTITO DELLO STATO DENTRO LA CLASSE OPERAIA.
Oggi non si possono analizzare i processi di ristrutturazione
dello Stato senza considerare il ruolo che in essi assumono il PCI e il sindacato.
Non è il caso di raccontare qui la triste parabola del revisionismo che
milioni di proletari hanno davanti agli occhi. Il risultato è un PCI
che con Berlinguer ha finalmente e definitivamente riconosciuto la centralità
del potere della DC in Italia; che concepisce la sua politica in esclusiva funzione
di alleanza con la DC; che ha accettato fino alle sue ultime conseguenze politiche
e militari l’integrazione dell’Italia nello schieramento imperialista;
che si è fatto portatore, all’interno della classe operaia, delle
più sottili e perfide istanze di controllo sociale per conto della borghesia
imperialista; che è diventato nei quartieri e nelle fabbriche, il miglior
alleato dei CC e dei poliziotti; che cerca di cancellare, in nome del suo “farsi
Stato”, ogni memoria e ogni coscienza di classe nelle masse proletarie.
Il PCI in effetti, da tempo in forma esplicita, ha fatto proprie le esigenze
di larghi strati di piccola e media borghesia, e si sforza in ogni modo di imporle
alla sua base proletaria, insieme a tutte le istanze di efficienza e di razionalizzazione
capitalistica dell’apparato produttivo
Il PCI e il potere economico. All’interno dell’industria di Stato,
un grande numero di esperti e manager trovano nel PCI il loro referente politico.
Da costoro partono ambiziosi e particolareggiati progetti di ristrutturazione
capitalistica dell'apparato produttivo (vedi per esempio il ruolo di Castellano
e la sua banda nella ristrutturazione del gruppo Ansaldo), e le più pericolose
politiche di contenimento delle esigenze proletarie sacrificate ai miti della
efficienza e produttività. Inoltre, il PCI dedica un impegno particolare
per conquistarsi la piena fiducia dei piccoli e medi industriali —proprio
quelli che sfruttano spesso in modo più bestiale il lavoro operaio—
ai quali offrono la propria consulenza e la propria alleanza con la promessa
rassicurante della pace sociale.
Ed è inoltre imprenditore in proprio, organizzando i suoi “padroncini”
soprattutto nella Lega delle Cooperative e occupando una posizione di monopolio
nelle intermediazione degli scambi tra l’Italia e i paesi dell’Est
europeo. Così il PCI è una delle principali forze che direttamente
collaborano alla ristrutturazione della grande industria di Stato e in forme
più mediate con quella privata: ed è diventato a livello di territorio
il partito dei “padroncini”; cioè delle peggiori sanguisughe
del proletariato.
Il PCI e lo Stato. Le strategie di potere del PCI passano in gran parte attraverso
il controllo degli Enti locali che, imitando e sopravanzando persino la DC,
esso trasforma in propri feudi e centri di aggregazione clientelare. Attraverso
di essi, inoltre, il PCI si infiltra in tutta una serie di centri decisionali
e comincia a mettere piede nel mondo della finanza e allaccia rapporti sempre
più stretti con le strutture periferiche, ma non per questo meno delicate
e meno importanti dello Stato. A livello centrale, l’attenzione che il
PCI dedica al problema dello Stato, e del suo inserimento in esso, è
testimoniata dalla mole di lavoro svolto dalla sua “SEZIONE PROBLEMI DELLO
STATO”, che si è sempre più decisamente posta sulla via
della guerra controrivoluzionari qualificandosi come vera e propria agenzia
a servizio delle borghesia imperialista. E’ soprattutto di lì,
infatti, che viene impostata e coordinata la schedatura dell’avanguardia
rivoluzionaria e delle frange più antagoniste del PM, in supporto dichiarato
alle operazioni della DIGOS e dei CC. Al proposito, è importante osservare
come già da molto tempo il PCI abbia compiuto opera di entrismo nella
polizia e nella magistratura (Caselli, Calogero, Vigna e soci, stanno lì
a dimostrarlo), riproducendo in qualche modo, anche se in scala ridotta, la
stessa tattica di compenetrazione già messa in atto dalla DC. In questo
modo, anche il PCI persegue l’obiettivo di farsi partito—Stato,
anche se è perfettamente consapevole che ciò comporta una perenne,
strutturale subalternità strategica alla DC. Entro i margini di questa
subalternità, tuttavia, il PCI cerca in tutti i modi di allargare, attraverso
i servizi che è in grado di rendere alla borghesia (e che vorrebbe vedere
meglio compensati) la sua area di influenza.
In ciò è stato in parte ripagato perché la sua avanzata
elettorale a metà degli anni ‘70 non è affatto dovuta all’aumento
dei voti operai, ma a quelli di strati sempre più ampi di borghesia,
rassicurati dalla sua politica di “diga” nei confronti del proletariato;
e una diga che si presentava tanto più efficace, in quante costruita
in parte all’interno del proletariato stesso. Ma proprio questo è
l’elemento di contraddizione che paralizza il PCI, lo rende privo di una
strategia complessiva e credibile, lo rende ostaggio nelle mani della DC.
Il PCI e la classe. Il punto essenziale per capire la posizione del PCI, la
sua strategia, le ragioni della sua tenuta elettorale (nonostante le recenti
sconfitte che gli vengono proprio da parte operaia e proletaria!) e dalla sua
indubbia capacità di controllo sulla classe operaia sta una precisa analisi
di classe.
E’ giusto dire che il PCI ha sempre avuto il suo punto di forza nella
classe operaia per via delle sue radici storiche, ma certo non è oggi
sufficiente limitarsi a questo.
Su chi il PCI esercita la sua egemonia e perché? Intanto, non solo e
non tanto su strati di piccola e media borghesia in quanto tali, e non su quelli
che abbiamo chiamato i “padroncini” che solo in base a calcoli di
convenienza immediata possono accettarne l’alleanza. In realtà,
su un piano generale, si può affermare invece che il PCI rappresenta
tutti gli strati oggettivamente interessati ad una funzione principale che esso
intende esercitare: la funzione di controllo all’interno del processo
produttivo complessivo.
Puntualizziamo due cose:
1) dato lo sviluppo raggiunto dalle forze produttive e la loro complessità
questa funzione di controllo è di fondamentale importanza; copre un arco
vastissimo di ruoli e permette al suo interno ampie e differenziate possibilità
di carriera; resta in ogni caso legata al mondo della produzione, rispetto al
quale si pone come l’indispensabile cerniera che lo lega alle direttive
generali del capitale;
2) gli strati sociali interessati a questa funzione sono assai ampi, e seppure
di diversa provenienza definiscono oggi l’area di quella che possiamo
chiamare “nuova piccola borghesia”, alla quale fornisce, nell’ambito
di quella funzione di controllo, concrete possibilità di mobilità
e prestigio sociale, e un'ideologia di tipo tecnocratico, basata sul mito della
razionalità produttiva, dell'efficienza, della ristrutturazione, dello
sviluppo.
Le ragioni della sua presa sugli strati dell’aristocrazia operaia sono,
in questo modo, assai chiare. E’ il PCI che nella sua quotidiana politica
di fabbrica aiuta l’operaio professionale a fare il salto da “produttore”
a “controllore della produzione”, facendogli contemporaneamente
compiere il “salto di classe” che lo stacca dal proletariato per
inserirlo in quella “borghesia tecnico—burocratica” che rappresenta
nei confronti della produzione il punto di vista del capitale.
Questa politica, condotta insieme dal partito e dal sindacato (non è
un mistero il gioco delle parti tra i due, né il fatto che si costruiscono
piattaforme rivendicative ad esclusivo vantaggio dell’aristocrazia operaia!),
ottiene una serie di risultati:
1) collabora in forma diretta alla nuova organizzazione del lavoro richiesta
dalle direttive generali della ristrutturazione. Su questo argomento, berlingueriani
e sindacalisti sono in prima fila a fare “proposte costruttive”:
solo che vanno a farle agli operai per conto della direzione!
2) spacca la classe, favorendo processi di scomposizione continua che la indeboliscono
e la lasciano disarmata di fronte al procedere inesorabile dei processi di ristrutturazione;
3) lascia, in ultima analisi, il proletariato senza alcuna vera rappresentanza
politica, neppure al livello degli interessi più immediati, e anzi lo
divide cacciandone una parte sempre più grande in una condizione di marginalità,
corrompendone un’altra parte con speranze di “carriera” o
almeno di sistemazione stabile, reprimendo infine quanti resistono in nome dell’antagonismo
e dell’unità di classe. Con il risultato di rivolgersi anche contro
una parte di sé, perché il PCI non esita certo a coinvolgere nella
rete dei sospetti di “terrorismo” quella parte della sua base che
resta nonostante tutto tenacemente comunista, e consegnarla alla prima occasione
al potere. In un largo arco di forze e di interessi, e che dunque ha avuto la
sua parte di successo. Tuttavia essa deve pur sempre giustificarsi in nome di
qualcosa che non siano le pure e semplici esigenze del capitale, deve fornire
una prospettiva sociale e politica complessiva.
Qualche anno fa si trattava delle riforme di struttura che si sono poi miserevolmente
ridotte agli elementi di socialismo, fino a diventare oggi efficienza produttiva
(cioè sfruttamento), ristrutturazione e pace sociale.
Cosa è successo? E’ successo che la crisi capitalistica ha distrutto
le basi stesse dell’utopia socialdemocratica del PCI, utopia che non è
altro che il cemento ideologico degli strati sociali che esso rappresenta. Le
condizioni economiche che potevano illudere circa una gestione democratica e
riformista dell’apparato produttivo sono il segno di un tempo che fu!
La crisi ha distrutto ogni margine all’ideologia riformista sì
che pian piano al PCI non è rimasto che aspirare alla gestione ed alla
conservazione dell’esistente, quale esso sia e a qualsiasi prezzo. E ciò
ha rivelato fino in fondo la natura subalterna della sua strategia di potere.
All'interno del sistema dominato dal capitale multinazionale, questa subalternità
politica non è altro infatti che il riflesso della subalternità
sostanziale e oggettiva del ruolo occupato dallo strato sociale che si riconosce
nel PCI. Un conto è controllare un processo produttivo e un conto è
possederlo e dominarlo!
In altre parole, la funzione di controllo non è che un servizio reso
ai padroni: in questo caso, in definitiva alle multinazionali imperialiste.
Una prospettiva incerta e limitata di potere all’ombra della DC, al servizio
della borghesia imperialista, sotto l’ombrello protettivo delle atomiche
della Nato: ecco qui tutta la prospettiva strategica del PCI.
Ma nei confronti del proletariato, i revisionisti, pur svolgendo un lavoro subalterno,
contribuiscono in modo fondamentale all’allargamento dell’iniziativa
controrivoluzionaria.
Al di là delle divergenze con la DC che resta l’esecutore centrale,
essi si sono costituiti in apparato civile per il consenso alla controrivoluzione
lavorando alla costruzione di un blocco sociale a sostegno dello Stato imperialista,
da opporre all’avanzata del processo rivoluzionario. Dì più,
infiltrati come sono all’interno della classe operaia essi sono in grado
di rovesciare su di essa un grado elevatissimo di pericolosità, la loro
politica.
Sono i quadri del PCI che spiano, schedano, denunciano. Già da tempo
hanno consegnato alla direzione in tutte le fabbriche italiane, l’elenco
dei sospetti “terroristi” e dei loro “fiancheggiatori”.
Ora, sono impegnati a tenere aggiornate le liste! E lo stesso sporco lavoro
di spionaggio fanno nei quartieri, in stretto contatto con i politicanti della
DC e con ogni genere di sbirri.
Il proletariato deve dunque attaccare il PCI con la massima decisione e secondo
una opportuna strategia politica. Questa strategia deve distinguere le due funzioni
principali lungo le quali il PCI conduce le sue azioni: 1°) quella che ne
fa un partito dello Stato dentro lo Stato; 2°) quella che svolge nei confronti
delle masse. La prima funzione ha un carattere strategico, e si identifica negli
uomini del PCI organicamente integrati nelle strutture dello Stato: magistrati,
alti funzionari; e manager, amministratori locali, economisti, esperti vari,
giornalisti, consulenti e merda simile. Questi uomini sono le cerniere di collegamento
tra le istituzioni statali e il PCI: in quanto tali sono riconosciuti e politicamente
indifendibili agli occhi del proletariato. Il loro annientamento militare è
anche il loro annientamento politico. E si può stare certi che neppure
un proletario piangerà per loro!
La seconda funzione presenta problemi più complessi. Dobbiamo infatti
considerare che gran parte degli agenti del revisionismo vive ancora in mezzo
alle masse. E, appoggiandosi soprattutto a un apparato di partito diffuso e
capillare, riesce in qualche modo a legittimarsi come loro rappresentante politico
e a strappare, anche se sempre più raramente, la loro immeritata fiducia.
E’ prioritario che la guerriglia faccia chiarezza politica nelle lotte,
isolandoli, screditandoli, mettendoli alla gogna, svelando le loro trame e le
loro complicità, e cioè in una parola, li sconfigga politicamente
prima che militarmente.
Naturalmente, la dialettica tra i due piani è decisiva nel senso che
il primo terreno di attacco è condizione politica assolutamente necessaria
del secondo in quanto ne costituisce l’aspetto strategico.
Battere i revisionisti e il loro progetto di controrivoluzione sociale preventiva
è la condizione necessaria per la conquista delle masse sul terreno della
guerra civile antimperialista, e per la costruzione del potere proletario armato.
SE NELLE FILE DELLA BORGHESIA IMPERIALISTA LE IENE BERLINGUERIANE CREDONO CHE
UNA TESSERA IN TASCA SIA UN PAS SAPORTO DI IMMUNITA’ SI SBAGLIANO: VERRANNO
ANNIENTATE SENZA PIETA’!
ATTACCARE I REVISIONISTI CHE SI NASCONDONO TRA LE MASSE, SMASCHERARLI, ISOLARLI,
SOLLEVARE CONTRO DI LORO L’INTERO PROLETARIATO!
4. La strategia di guerra in mano ai militari.
Nella controrivoluzione preventiva aumenta, con l’avanzare della crisi
e l’estendersi del movimento rivoluzionario, il peso numerico e politico
degli apparati diretti della coercizione statale (corpi militari, magistratura,
carceri) nell'amministrazione delle condizioni di vita del proletariato.
Questo processo che come abbiamo visto è affiancato dal parallelo trasformarsi
in apparati indiretti, della coercizione statale di partiti, sindacati, ecc,
va oltre lo scopo di annientare le forze comuniste combattenti, perché
dà già corpo alle strutture ed ai metodi per la distruzione politica
dell’intero proletariato, ossia della lotta di classe in ogni sua forma.
Non essendoci ancora la guerra civile, questa “sproporzione” che
trasforma gli apparati coercitivi in un vero e proprio apparato per la guerra,
ha due principali motivi:
1) le contraddizioni interimperialistiche, gravissime oggi in particolare in
Medio Oriente, aumentano l’importanza dei paesi mediterranei aderenti
alla Nato, ed in primo luogo dell'Italia che assume il ruolo di bastione, anello
centrale su cui si impernia la strategia militare dell’alleanza atlantica:
la linea oltre alla quale non arretra. L’Italia deve essere, per l’imperialismo
americano, una base sicura e pacificata in cui tenere la sede dei vari comandi
Nato per le forze terrestri e navali del Sud Europa e in cui organizzare un
potente retroterra logistico donde partire per esercitare il dominio sull’area
e per fare, se necessario, la guerra. L’Italia è ormai diventata
la portaerei del Mediterraneo;
2) l’estendersi e il rafforzarsi della forza guerrigliera e la possibilità
che intorno ad essa si coaguli e si organizzi l’antagonismo proletario,
che il meccanismo della crisi riproduce e approfondisce.
Ma la guerriglia in Italia ha già vinto la sua prima e fondamentale battaglia,
affermando nei fatti la lotta armata come unica strategia possibile per la conquista
del potere proletario. Inoltre, essa ha in sé la capacità di proiettarsi
in un contesto internazionale e di collegare la propria azione a quella di tutte
le forze e movimenti rivoluzionari che operano nell'area mediterranea. Lo SIM
è costretto allora a proseguire la politica del dominio con il mezzo
della guerra per prevenire quella proletaria: ciò determina un’assunzione
di peso politico da parte dei militari e trasforma sempre più la controrivoluzione
preventiva in strategia di guerra in mano ai militari. Tutti i settori della
coercizione diretta diventano una STRUTTURA INTEGRATA POSTA SOTTO UN COMANDO’
POLITICO-MILITARE CENTRALIZZATO.
Essendo in atto una tendenza al processo di guerra il comando passa ai militari.
I CC e l’apparato per la guerra civile. I militari alla testa della strategia
di guerra sono i CC per tre ragioni storiche: la loro struttura è quella
di un esercito professionale; la loro finalità è l’ordine
pubblico; la loro collocazione nell’esercito si accompagna a funzioni
specifiche integrate nella Nato. A questo si aggiunga la “fedeltà”
ottenuta attraverso una rigorosa selezione.
I CC sono oggi un vero e proprio esercito antiproletario, forte di novantamila
uomini e il loro vertice è già lo Stato Maggiore di un apparato
per la guerra civile, perché non solo ha la possibilità di usare
tutte le sue truppe nello sviluppo della guerra antiproletaria (vedi le campagne
orchestrate su tutto il territorio nazionale sotto il Comando Supremo Centrale
di Roma), ma realizza e gestisce una tale complessità di compiti e funzioni
integrate che: primo, ha bisogno di una totale indipendenza giuridica che separi,
come in tutte le guerre, gli apparati militari, nelle loro strutture e operazioni,
dai vincoli civili; secondo, deve ricorrere per questo scopo ad un personale
”militarizzato” dentro la società: una magistratura di guerra,
un personale carcerario per prigionieri di guerra, ecc. E questo sia per la
necessaria copertura formale, che per condurre le operazioni non solo appoggiandosi
alle proprie strutture, ma dovunque sia necessario sul territorio nazionale;
terzo, deve avere a disposizione un personale poliziesco che, come la PS, la
Finanza, i Vigili Urbani, i portinai abbia una conoscenza specifica e sia introdotto
in tutte le realtà sociali in cui devono svilupparsi i suoi interventi;
quarto, deve costruirsi una rete capillare di collaboratori per la raccolta
delle informazioni e per promuovere le campagne politiche che ”preparano”
le operazioni di terrorismo di massa; quinto, deve garantirsi il controllo della
controguerriglia psicologica che non si basi solo sull’asservimento dei
giornali, ma sia centralizzato a partire dagli Uffici Stampa dei comandi e delle
caserme.
Questo apparato si articola in tre livelli principali: 1) al vertice la STRUTTURA
SPECIALE costituita dallo Stato Maggiore “occulto” della guerra,
dal nucleo originario oggi molto allargato e altamente professionalizzato, dell’antiguerriglia
e dei magistrati di guerra impegnati per settore o per territorio nella lotta
alle OCC; 2) un secondo livello che chiameremo di ANTIGUERRIGLIA ALLARGATA,
costituito dal sistema DIGOS—UCIGOS del ministero degli interni, dai nuclei
dei CC, di PS, di polizia giudiziaria, delle Guardie di Finanza, dai Vigili
Urbani, che nelle varie Procure e Sezioni Istruttorie si “interessano”
di terrorismo; 3) infine la STRUTTURA ORDINARIA con la relativa truppa, che
ormai è struttura di servizio delle altre due..
Ma prima di descriverli meglio vogliamo chiarire cos’è una struttura
integrata.
I vari settori coercitivi militari e civili, ora integrati, hanno più
rapporti tra loro all’interno del singolo livello; soprattutto nella struttura
speciale, di quanti non ne abbiano tra i diversi livelli uomini e strutture
dello stesso settore. L’esempio più lampante è quello dell’uomo
di truppa: un normale agente di PS avrà più rapporti con un suo
collega CC durante i vari superblocchi, perquisizioni, ecc, di quanti non ne
abbia realmente con un suo collega di PS che faccia l’antiguerrigliero
più o meno occulto. Il magistrato di guerra ha più rapporti con
gli sbirri del suo livello che con gli altri magistrati. A differenza degli
altri, egli non si trova di fronte al ”fatto compiuto” quando i
CC fanno le loro azioni di guerra (vedi per esempio i diversi rapporti della
magistratura genovese e del "pool torinese" sulla strage di Via Fracchia).
Altri casi sono meno lampanti: se un sindacalista partecipa all’ormai
stranota “assemblea contro il terrorismo” con i relativi magistrati
e poliziotti portati in fabbrica, egli non deve necessariamente sapere di fare
parte di una campagna orchestrata ad un livello superiore dove i passi successivi
saranno operazioni di “terrorismo di massa” e quindi la creazione
di strutture antiterroristiche locali con quel che segue.
La Struttura Integrata consente una capacità di direzione politica da
parte del vertice che va oltre l’aspetto immediato, che resta in gran
parte occulta, e che consente agli altri livelli di muoversi in un ambito di
formale autonomia.
LA STRUTTURA SPECIALE. E’ quella che lotta a tempo pieno per annientare
le OCC, si muove con una strategia unitaria a livello nazionale ed internazionale
in modi e tempi propri, indipendenti in larga parte dalla realtà esteriore
percepibile dalle lotte sociali. E’ la struttura dominante al di sopra
delle altre di cui si serve, in quanto braccio armato dell’Esecutivo centrale
e dell’imperialismo.
A questo proposito va ulteriormente precisato: 1°) il vertice della struttura
è saldamente in mano ai CC. Oltre al decreto di dicembre che ha dato
la Divisione Pastrengo a Dalla Chiesa, la riorganizzazione dei servizi segreti
SISMI e SISDE è avvenuta mettendo a capo di entrambi due generali dei
CC; e per un generale dei CC è stato inventato un nuovo compito di consigliere
militare del Rimbambito Nazionale (il quale però fa parte della struttura
ordinaria quale comiziante “antiterrorista” nelle piazze del paese);
2°) la politica imperialista ha fatto un passo avanti, oltre che con il
ruolo assunto dalla Nato nelle vicende interne, con una legislazione europea
che dall'uniformazione in materia controrivoluzionaria è passata a fissare
spazi giudiziari comuni al di là delle singole frontiere.
E’ come tale che la struttura speciale non risponde a nessun livello giuridico—formale
dello “Stato democratico”, e si muove secondo una prospettiva indipendente.
Quindi, in una logica più rigida militarmente e più clandestina
degli altri livelli è il settore strategico degli apparati controrivoluzionari
dello SIM. La sua funzione particolare è quella di condurre “operazioni
speciali” vale a dire quelle operazioni che sul piano militare e su quello
politico fissano le linee strategiche della controguerriglia. Se per esempio
il problema è quello di organizzare la delazione, sarà questa
struttura a dare il via, costruendo e guidando una opportuna campagna. Se è
necessario fare mi salto di qualità nella repressione in fabbrica, sarà
sempre questa a guidare l’arresto di centinaia di operai come è
accaduto alla Fiat.
I suoi mercenari sono quelli che per primi hanno sperimentato e affinato nel
corso di questi dieci anni, le tecniche antiguerriglia. Oggi la loro pratica
assassina e la loro sadica scienza vengono generalizzate ai livelli nuovi che
lo Stato fa scendere in campo nella guerra di classe contro il proletariato
e le sue avanguardie.
L’ANTIGUERRIGLIA ALLARGATA. E’ la struttura che lotta contro le
forze rivoluzionarie e il proletariato avendo di mira intere aree sociali caratterizzate
da un insieme di comportamenti antagonistici che abbiamo definito MPRO. E’
questo il nuovo livello che scende in campo in armi contro il proletariato:
è su questo terreno che è indispensabile estendere il combattimento
perché è la struttura portante della controrivoluzione preventiva
nell’attuale congiuntura, nel senso che legittima ogni tipo di azione
contro i proletari in lotta e agisce preventivamente colpendo a cerchi sempre
più allargati, non più con lo scopo di “togliere l’acqua
al pesce” (cioè soffocare la guerriglia), ma di bloccare e spegnere
l’oggettiva spinta rivoluzionaria che il proletariato esprime ad ogni
livello. Questa forma di antiguerriglia, allargata, è il nuovo strumento
terroristico e di annientamento dell’imperialismo che si muove nella forma
di una legalità formale, ogni volta teatralmente ribadita.
Le differenze che si notano nei modi di operare tra i nuclei di Dalla Chiesa
o DIGOS, per esempio, o tra le squadre giudiziarie dei due corpi, sono il riflesso
di un’altra caratteristica della controguerriglia.
Per quanto influenzata dalla struttura speciale, l’antiguerriglia è
dotata di un certo grado di autonomia politica ed esecutiva, per una maggiore
aderenza alla realtà politica e sociale, nazionale e locale, sulla quale
vengono portate le iniziative.
LA STRUTTURA ORDINARIA. Le sue funzioni ordinarie sono ormai relegate a cose
secondarie o a demagogiche operazioni di giustizia formale. E’ al servizio
dei due livelli precedenti, e come tale viene utilizzata ogni volta che se ne
presenti il bisogno. Possiamo dire che siamo in presenza di un uso speciale
sempre più largo della struttura ordinaria.
A parte la funzione storica del personale carcerario e l’uso della truppa
quando la vastità dell’operazione lo richiede, si è avuto
l’incremento di: 1°) funzioni preventive fuori dal lavoro investigativo
specializzato, come il controllo delle fabbriche, le scorte e la militarizzazione
del territorio. E’ per esempio un luogo comune che le città sono
“squadrate” da volanti che non hanno solo il compito di fermarsi
se succede qualcosa, ma soprattutto di “cercare”, “guardare”,
ecc; 2°) campagne terroristiche a livello di massa (perquisizioni, rastrellamento,
blocchi regionali delle vie di comunicazione); 3°) intervento repressivo
dove non esiste iniziativa armata o dove non ci sono “grossi problemi”,
almeno per ora (per esempio blindati o cariche in piccole fabbriche in loco,
caccia agli occupanti di case, repressione di lotte di massa al sud, ecc); 4°)
fornitura, oltre che di uomini e mezzi, di strutture “speciali”
in cui si dislocano gli antiguerriglieri per le loro iniziative più infami
(isolamento e torture in piccole caserme decentrate, ristrutturate a questo
scopo per esempio).
La magistratura. La magistratura merita un cenno a parte, per analizzare l’evoluzione
che ha subito in funzione degli sviluppi della controrivoluzione preventiva.
I magistrati sono ormai definitivamente distribuiti nei livelli indicati dell’apparato
per la guerra, in base ad una divisione per compiti e all’esperienza che
hanno accumulato negli anni.
Al primo livello sta un ristretto “pool” di magistrati di guerra
(ben noti alle forze rivoluzionarie) organicamente collegati ai militari nella
strategia di annientamento delle OOC, completamente svincolati da qualsiasi
obbligo nei confronti delle istituzioni giudiziarie ordinarie. Questi magistrati
sono totalmente integrati nella struttura a speciale e si possono ritenere parte
dello Stato Maggiore occulto della guerra.
Al secondo livello sta un vasto strato di Sostituti Procuratori, Giudici Istruttori
e Pretori antioperai, che è alla testa della campagna di criminalizzazione
del MPRO che (attraverso) tribunali giudicanti ha già distribuito secoli
e secoli di galera a migliaia di militanti, e che nelle fabbriche e nei quartieri
ha fatto eseguire migliaia di licenziamenti e di sgomberi di case.
Oggi vi è uno sviluppo ulteriore: visto che la gestione del prigioniero
al momento della cattura è parte integrante della strategia di guerra,
i magistrati non si limitano a svolgere la funzione passiva di copertura giuridica
delle pratiche di tortura non riconosciute formalmente dalla borghesia, ma hanno
un ruolo attivo prestabilendo per queste pratiche un tempo variabile secondo
il soggetto e secondo le caratteristiche dell'operazione.
In altre parole, questo preludio all'istituzionalizzazione della tortura scientifica,
che non vuole lasciare alternative tra l’annientamento da un lato e il
cedimento e la delazione dall’altro, diventa l’intera e reale istruttoria.
E così non è un caso che dietro alla struttura speciale, nelle
sue operazioni più ambiziose, ci siano sempre figure di giudici istruttori.
Proprio per la funzione strategica che deve svolgere è in questo livello
che ultimamente il potere ha concentrato il massimo degli sforzi di ristrutturazione
in senso efficientista della magistratura, fino a progettare la concentrazione
della “lotta al terrorismo” in una serie di grandi Procure e sezioni
istruttorie metropolitane, che dovranno avere il ruolo di guida e battistrada
dell’intero processo di criminalizzazione del Movimento Rivoluzionario.
Da ultimo, va sottolineato che esiste una mente politica, il Consiglio Superiore
della Magistratura che rappresenta la cinghia di trasmissione con l’esecutivo
e che rappresenta le direttive del processo di ristrutturazione della magistratura,
attraverso la costituzione di commissioni di studio, gruppi di lavoro e la gestione,
con vari centri studi nazionali ed internazionali, di convegni in cui vengono
gettate le basi delle strategie di intervento future, e garantire ogni volta
le necessarie coperture “scientifiche” ad ogni pratica di annientamento.
L’importanza del CSM è tale —si tratta del governo della
magistratura— che la sua direzione è sempre stata saldamente in
mano alla DC (da Busco a Bachelet a Zilletti).
Attaccare lo Stato, rompere l’accerchiamentol
Il ”cuore dello Stato”, oltre ad essere una controparte
sempre più immediata dei bisogni proletari, vive in una prospettiva di
guerra civile, come “accerchiamento politico—militare” delle
masse. In questo senso allora l'azione e il programma guerrigliero escono da
una logica relativamente “simbolica”, dal punto di vista militare,
e assumono un carattere "distruttivo". Non sono ancora, come nella
guerra civile dispiegata azioni dirette ad abbattere definitivamente il sistema
di comando e di oppressione, pur essendo azioni di distruzione reale che tuttavia
vengono portate avanti selettivamente secondo priorità politica: quelle
volte, appunto, a rafforzare direttamente la possibile iniziativa di massa.
Il programma guerrigliero vive dunque ancora in una fase di disarticolazione
del nemico e non di distruzione. E questo vale anche nell'attacco all’apparato
di guerra dello Stato; (sia militare, sia giudiziario, sia carcerario), in cui
occorre seguire un progetto di disarticolazione lungo i tre livelli che abbiamo
individuato.
Il primo livello, quello speciale, è il nemico principale, quello che
fa la guerra e guida le tappe della guerra civile. Esso va attaccato, ma non
è nell’attuale congiuntura “disarticolabile” in concreto.
Tuttavia contro di esso, il cuore strategico e militare dello Stato imperialista,
e contro il personale altamente professionalizzato che lo costituisce, va diretto
e concentrato ogni sforzo per un annientamento senza mediazioni.
Ma accanto a questo obiettivo strategico, che le OCC devono saper praticare
con continuità ed efficienza adeguata, pena la loro possibilità
di crescita e la stessa sopravvivenza, l’obiettivo generale di questa
congiuntura rispetto all’apparato militare nel suo complesso è
quello di aprire una spaccatura tra il personale antiguerriglia e quello che
si rifiuta di svolgere compiti che lo pongono come antagonista diretto del proletariato
e delle OCC.
Se dunque l’obiettivo strategico è quello di colpire l'apparato
di guerra dello Stato nei suoi gangli vitali, bisogna anche condurre con costanza
un’opera di ANNIENTAMENTO SELETTIVO che privilegi l’antiguerriglia,
e non attacchi come tale la struttura ordinaria se non nell’esercizio
di particolari funzioni antiproletarie.
La politica è sempre al primo posto.
Nel cuore dello Stato non vediamo dunque una somma di apparati da distruggere,
ma l’essenza della strategia politica e, all’interno di essa, dobbiamo
sapere cogliere gli elementi di oggettiva debolezza.
Lo schieramento nemico è ormai chiaramente definito in una politica di
guerra in cui ridistribuisce le sue forze politiche, sociali e militari. Ma
tutto ciò avviene alla luce di un progetto studiato preventivamente,
che si deve ancora misurare con una iniziativa rivoluzionaria adeguata, con
un iniziativa cioè che al tempo stesso crea le condizioni per rafforzare
lo schieramento proletario, e perciò centuplica i suoi effetti.
Chi, da un punto di vista obiettivo è più isolabile oggi dalla
popolazione? I Betassa che stanno nei reparti, o le caserme dei CC che arrestano
e torturano i proletari? Attorno a chi è più facile fare terra
bruciata?
5. La controrivoluzione preventiva nel carcerario.
Nel settore carcerario la controrivoluzione preventiva ha assunto le forme della
strategia differenziata, cioè, in altre parole, di un processo di ristrutturazione
continua, nel quale lo Stato imperialista gioca fino in fondo la sua capacità
di colpire in modo articolato l’intero movimento di classe e di predisporre,
in base ad una precisa linea strategica, gli strumenti per condurre una guerra
di classe che, in modo lento e contraddittorio ma irreversibile, sta assumendo
sempre più chiaramente i tratti della guerra civile dispiegata.
In questo senso, la strategia differenziata è insieme progetto e sperimentazione.
E' la manifestazione della capacità del personale politico imperialista,
incaricato della sua gestione di cogliere di volta in volta la specificità
dello scontro in atto, e di rispondere con tempestività ed efficienza
all’attacco delle forze rivoluzionarie.
In questa fase di transizione alla guerra civile, la strategia è volta
a selezionare gli obiettivi e le forme degli apparati della controrivoluzione
preventiva in presenza della contraddizione principale che si presenta oggi
alla borghesia imperialista:
IMPOSSIBILITA’ DI ARRESTARE LA VITA E LA CRESCITA DELLA GUERRIGLIA.
Solo qui si può capire come l’elemento trainante della strategia
differenziata sia appunto la controrivoluzione preventiva, che in questi anni
ha fatto, e non poteva non fare, un salto di qualità verso l’affidamento
ai militari della condotta complessiva della guerra.
La delega ai militari dell’arma dei CC ha lo scopo di concentrare le forze
e i mezzi di un intero esercito per tentare di stroncare l’affermarsi
della guerriglia e il suo consolidarsi all’interno di sempre più
ampi strati di classe. E ha lo scopo, in ordine ai fini che l'imperialismo si
propone nella nostra area, di preparare gli uomini e gli strumenti della guerra
civile.
Storicamente, in Italia, questa strategia di guerra in mano ai militari si è
coagulata materialmente per la prima volta nel '77, con l’istituzione
delle cosiddette “carceri speciali”, cioè di un circuito
carcerario relativamente autonomo, posto sotto il diretto controllo dell’esercito.
Quella scelta si collocava all’interno di una strategia di lungo respiro:
nel quadro cioè di una nuova strategia di guerra. E oggi siamo di fronte
alla realtà di uno Stato che proprio in questi anni, affrontando un processo
di ristrutturazione continua e affinando i meccanismi della differenziazione,
ha costruito un apparato carcerario in grado non solo di contenere o reprimere,
entro margini più larghi che in passato, le lotte interne, ma anche di
sopportare in tendenza il peso di una guerra civile. Se negli anni passati il
potere aveva inseguito le lotte dei PP, oggi con la ristrutturazione del settore,
le ha sopravanzate.
Se analizziamo a grandi linee le fasi della ristrutturazione, possiamo cogliere
meglio i termini di questo passaggio.
La strategia differenziata nella sua prima fase, ha assunto soprattutto l’aspetto
immediato di una differenziazione del trattamento dei prigionieri per controllarne
e regolamentarne la massa.
La separazione fisica delle avanguardie politiche si presentava come condizione
per la pacificazione del carcere, come condizione per ristabilire il controllo
sociale sui prigionieri provenienti dagli strati disgregati del proletariato
metropolitano che, durante una lunga stagione di rivolte, aveva incrinato dalle
fondamenta l’intero sistema carcerario italiano. Per fare un esempio che
ha costituito certamente un modello per i nostri strateghi della controguerriglia,
il carcere americano di Soledad, pur segnando livelli diversi e assai sofisticati
di annientamento scientifico dei detenuti “politici”, assolveva
la stessa funzione: separare la minoranza per regolamentare la maggioranza..
Rivolte come quella di Attica dovevano essere per sempre scongiurate.
In Italia però la strategia differenziata ha avuto due funzioni. Il radicarsi
e l’allargamento della guerriglia e del movimento di massa rivoluzionario,
l’altissimo livello politico—militare espresso dentro alle carceri
speciali dai C.d.L. hanno portato subito in primo piano i termini reali della
questione carceraria.
Il potere ha separato le avanguardie rivoluzionarie catturate e quelle formatesi
in carcere per poter sviluppare nei loro confronti una strategia di annientamento
e di distruzione politica. Naturalmente questa funzione convive con l’esigenza
sempre presente di regolamentare la massa dei prigionieri della altre carceri.
Ma la fondamentale distinzione del settore carcerario in due circuiti, quello
speciale posto sotto il controllo dei CC e quello “normale” costituite
dai grossi giudiziari metropolitani e dal circuito dei penali, non è
mai stata qualcosa di statico.
La strategia differenziata, da quel primo punto di partenza, ha continuato ad
operare in profondità all’interno dell’uno e dell’altro
circuito, con caratteristiche specifiche sempre più complesse. Sicché
oggi in definitiva l’Italia non è un paese imitatore di una qualche
"germanizzazione" ma al contrario è un capofila, un modello,
per gli altri paesi europei, rispetto ai quali si pone come esportatore di strategie
controrivoluzionarie, al servizio delle quali si è formato un personale
politico imperialista particolarmente qualificato a livello internazionale,
e sono stati costituiti alcuni dei più importanti centri che elaborano
le principali strategie della controrivoluzione preventiva alle dirette dipendenze
dell’imperialismo americano.
Dalla parte del proletariato, ciò non è del resto che la conseguenza
del fatto che l’Italia è il paese europeo nel quale la guerriglia
si è radicata in modo irreversibile, e in cui più alto è
il livello e la qualità politico—militare dello scontro.
L’importanza del carcere non sta dunque solo nel fatto che esso rappresenta
un nodo centrale nel rapporto di guerra che sempre più oppone il proletariato
allo Stato imperialista.
Il primo e fondamentale elemento che occorre considerare in tutta la sua ricchezza
e complessità per impostare una corretta analisi del settore carcerario,
e per dare forma ad una corrispondente linea di combattimento, è dunque
il rapporto complessivo tra rivoluzione e controrivoluzione, così come
si è storicamente determinato e come vive nella presente congiuntura.
All’interno di questo quadro, i rapporti di forza esterni si legano dialetticamente
con i rapporti di forza espressi dentro il carcere dalle lotte dei pp., e solo
in questo legame la linea di combattimento può trovare adeguata definizione.
Ma essa deve anche sapersi articolare rispetto alla complessità di un
settore della controrivoluzione che lo Stato imperialista sottopone a processi
di ristrutturazione continua, differenziandolo sempre più al suo interno.
Il carcere, infatti, nel disegno strategico dello Stato deve rispondere a molti
compiti: la regolamentazione di grandi masse proletarie, l’annientamento
selettivo e scientifico di avanguardie comuniste combattenti; la diffusione
del terrore e di una immagine di onnipotenza; lo studio e la raccolta di dati
sulla guerriglia, come in un laboratorio affidato ad una nuova razza di specialisti
in tecniche di controspionaggio e di annientamento.
Il circuito delle carceri speciali e le avanguardie politico—militari
del P.M.
Il circuito delle carceri speciali(con i suoi accessori, i bracci speciali all’interno
dei grossi giudiziari metropolitani —GGM) ha la funzione di annientare
politicamente uno strato di proletari che rappresenta di fatto l’avanguardia
politico—militare del proletariato metropolitano. Questo circuito è
oggi l’anello forte del carcerario, perché il potere l’ha
costruito e organizzato in totale separazione dalle altre carceri e lo ha distribuito
nelle zone più sicure dall’attacco delle forze rivoluzionarie,
e perché in esso si è venuto sempre più concentrando il
carattere di strategia di guerra in mano ai militari proprio della strategia
differenziata.
La stratificazione dei prigionieri è il prodotto delle lotte del proletariato
metropolitano ed è così composta: uno strato di avanguardie storicamente
formatesi dentro il carcere, in espansione negli ultimi anni, ed in gran parte
allineato alla scelta della lotta armata; uno strato di militanti delle OCC
e di avanguardie provenienti da diverse esperienze di lotta armata, anch’esso
in rapido e continuo aumento per le ondate di arresti che si susseguono ormai
da tempo; uno strato di avanguardie del movimento di classe entrato in carcere
in seguito alle periodiche campagne di criminalizzazione del movimento, articolato
in una complessa dialettica nei con fronti della lotta armata.
In un arco di dieci armi e specialmente in questi ultimi tempi (a partire dall’aprile
scorso sono entrati in carcere circa seicento compagni accusati di far parte
delle 0CC e del MPRO) questo strato è cresciuto enormemente, sino a raggiungere
proporzioni di massa tali da determinare in Italia una situazione "cilena".
Dei resto non è un mistero per nessuno che ci sono molti più prigionieri
politici oggi in Italia che durante il fascismo.
La difficoltà pratica di isolare un numero così vasto e in costante
aumento di prigionieri costringe il potere ad accrescere il numero delle carceri
speciali ed a sperimentare nuovi sistemi di differenziazione multipla e di scomposizione
per rompere l’unità e la forza oggettiva.
La fase attuale è caratterizzata proprio da questa sottile opera di divisione,
dispersione e concentrazione dei prigionieri, attraverso una analisi politica
della loro esperienza e dei loro comportamenti, sin dal primo ingresso in carcere.
La differenziazione scatta quindi subito e conosce successivamente tutta una
serie di gradi diversi che non passano solo e sempre attraverso le condizioni
materiali di carcerazione. Un elemento sempre più importante in questo
quadro, infatti, è dato dalla composizione dei singoli “speciali”
,attentamente calibrata dagli esperti antiguerriglia.
Lo scopo per cui i compagni delle OCC e le avanguardie del PP vengono raggruppati
in un certo modo e in certe carceri è per lo più quello di esercitare
su di loro uno stretto controllo politico che individui eventuali tensioni e
fratture al loro interno, che ne scopra i canali che li legano con l’esterno,
che fornisca elementi di conoscenza sulla consistenza e sulle strategie delle
organizzazioni che in Italia si muovono nel. l’area della lotta armata
e sui loro collegamenti.
Il grande passo avanti che il potere ha indubbiamente fatto in questo senso
nell’ultimo anno deriva certamente, in parte non trascurabile, dal tipo
assai sofisticato di sorveglianza a cui i compagni sono sottoposti.
Ciò pone naturalmente il problema della particolare delicatezza dei rapporti
interno—esterno e pone anche un problema tutto “interno”;
se il potere ormai è capace di determinare secondo i suoi fini la composizione
dei vari campi, è chiaro che in qualche misura riesce a condizionare
indi rettamente anche la composizione della struttura stessa delle istanze di
lavoro politico e di combattimento che i compagni prigionieri costruiscono dentro
le carceri.
Per fare un esempio, il potere ha attentamente valutato cosa comportasse il
concentramento a Palmi di tanti compagni noti della nostra Organizzazione, e
Palmi infatti è a tutt'oggi il caso più chiaro e nuovo di carcere—laboratorio
approntato apposta per le BR, ma lo è per esempio anche Trani in cui
da sempre la direzione mira alla disgregazione politica dello schieramento proletario
alimentando in tutti i modi le fratture fra i componenti delle varie OCC. Il
che avviene in parte anche a Messina e, in modi e contenuti diversi, anche a
Cuneo. Ma all’estremo opposto della differenziazione, ben presente a tutti
i PP c’è l’Asinara. Cioè il massimo della capacità
terroristica e dell’annientamento fisico che il potere in questa fase
riesce ad esprimere.
Dopo la battaglia del 2 ottobre dell’anno scorso, durante la quale la
sezione speciale era stata completamente distrutta dai compagni, sull’Asinara
è tornata a concentrarsi gran parte della strategia del potere rispetto
al settore carcerario. Da una parte ripartivano i lavori di ristrutturazione
che hanno portato oggi la sezione speciale a poter accogliere una settantina
di prigionieri, in condizioni particolari di isolamento per blocchi di due celle
assolutamente separati l’uno dall’altro. Dall’altra hanno
continuato a starci dai 15 ai 20 prigionieri, attraverso un lento ma continuo
gioco di trasferimenti in condizioni al limite della sopravvivenza.
In questo modo l’Asinara torna a rappresentare il punto più alto
del progetto complessivo di annientamento, il cuore strategico del progetto
imperialista nel carcerario. Ed è insieme il modello ultimo di un percorso
che ha altri punti di forza: per esempio Novara, dove tanti proletari hanno
sperimentato sulla loro pelle la scientifica brutalità che avrebbe dovuto
portare alla loro distruzione psicofisica oppure, in passato, a Favignana, prima
che le epiche battaglie condotte dal C.d.L. costringessero il potere a chiudere
la sezione speciale.
Perciò la strategia differenziata vive all’interno di una linea
unitaria che sempre più tende a caratterizzare le carceri speciali come
campi di concentramento per prigionieri di guerra, nei quali si delinea la scelta
imperialista di realizzare una forma di annientamento alternativa all’esecuzione
sommaria sul campo di battaglia.
Ma, se i campi vogliono essere l’anello forte della controrivoluzione
sul piano dei rapporti di forza militari, essi sono anche politicamente lo anello
debole. Per due motivi fondamentali:
— il potere, nonostante gli enormi sforzi e l’incredibile concentrazione
di risorse che dedica al settore, non riuscirà mai a risolvere in via
definitiva il problema dei prigionieri di guerra, in presenza di una guerriglia
che si estende sempre più. Né 10 né 100 campi di concentramento
potranno di per sé risolvere un problema che dipende dai rapporti di
forza esistenti su] piano generale tra rivoluzione e controrivoluzione;
— per i proletari il carcere speciale, nelle sue strutture e nelle sue
condizioni di vita, concretizza il massimo possibile di antagonismo sociale
e politico; diventa perciò punto di aggregazione e crea, attraverso le
esperienze delle avanguardie rivoluzionarie, omogeneità nei livelli di
coscienza. Il Movimento dei PP trova in esso la sua forza e le sue forme organizzate
più avanzate: finché il movimento di lotta nei campi saprà
mantenere l'offensiva nessun anello del carcerario potrà essere pacificato!
La pratica della differenziazione trova in questa contraddizione irriducibile
il suo limite storico. Nessuna differenziazione o isolamento possono cancellare
la profonda e indivisibile unità che lega le avanguardie prigioniere
con il proletariato metropolitano e con l’intero movimento rivoluzionario;
possono cambiare le radici che le legano al movimento di classe; possono evitare
che lo stesso antagonismo che le ha prodotte si riproduca con determinazione
e chiarezza politica sempre maggiore proprio là dove la natura dello
scontro in atto si rivela nelle sue forme estreme.
E’ questa avanguardia perciò che assume il ruolo di referente principale
dell’Organizzazione nel carcerario, ed è insieme ad essa che va
condotto l'attacco ai progetti di annientamento della controrivoluzione imperialista.
Cattura e tortura.
Nell’ultimo anno, l’importanza del settore carcerario ha fatto un
grande salto in avanti su un punto specifico. Ci riferiamo qui non tanto al
numero dei compagni imprigionati, che pure è un elemento nuovo e fondamentale
per cogliere i termini dell’attuale congiuntura, ma a ciò che avviene
al momento della cattura e nei mesi appena successivi.
Abbiamo visto i risultati delle torture e dei pestaggi. Sappiamo dell’isolamento
nelle caserme dei CC, magari dentro container metallici costruiti apposta. Sappiamo
degli interrogatori speciali, della costruzione di figure più o meno
artificiali di “pentiti”, di coinvolgimento in campagne terroristico—psicologiche
di parenti e amici.
In una parola, la cattura e l’immediata gestione della cattura con ogni
mezzo possibile, anche il più feroce, si inscrivono ormai interamente
in una logica di guerra: si definiscono in ogni loro aspetto come azioni militari
che lo Stato imperialista cerca di rovesciare col massimo di efficacia distruttiva
possibile contro le 0CC, e contro il Movimento Rivoluzionario nel suo complesso.
Noi dobbiamo cogliere in ciò alcuni importanti elementi di novità.
Soprattutto due:
1) rispetto ai corpi dello Stato con quel che la precede e la segue rappresenta
il momento di maggior integrazione tra quella parte di magistratura che abbiamo
definito “magistratura di guerra” e l’esercito. Pratiche di
isolamento, interrogatori, allargamento ad ondate successive delle operazioni,
richiedono infatti una collaborazione strettissima ed organica che oltrepassa
ormai tutti i tradizionali confini istituzionali, tra quella parte della magistratura
che si è riciclata in funzione della guerra civile e le forze militari
che questa guerra conducono. Per fare un esempio, sarebbe certo interessante
considerare in questa luce i comportamenti “integrati” della magistratura
torinese e dei CC nell’operazione che, facendo perno su Peci, ha ”costruito”
la strage di Via Fracchia e, successivamente, la morte del compagno Arnaldi;
2) rispetto ai compagni, il fatto che la cattura non concluda ma al contrario
allarghi ed approfondisca, attraverso la sua gestione militare i termini di
un rapporto complessivo di guerra, fa saltare, o per lo meno definisce in modo
nuovo la vecchia separazione fra “esterno” e “interno”.
Ciò significa che l’Organizzazione deve costruire la sua linea
di combattimento nel settore carcerario, innanzitutto come coerente prosecuzione
dei livelli più alti di attacco agli uomini e alle strutture dello Stato,
in una logica di disarticolazione e rappresaglia adeguate alla natura nuova
dello scontro.
L'isolamento e la tortura dei compagni subito dopo la cattura, infine, sono
sempre più spesso la prima tappa di una strategia differenziata e quella
più feroce e insidiosa per gli effetti devastanti che cerca di ottenere
contro tutto il Movimento rivoluzionario.
Il circuito delle carceri normali (GGM e periferici) e il proletariato
extralegale
Il circuito delle carceri normali e in particolare i grossi giudiziari metropolitani,
raccolgono la massa del PP con la funzione specifica di controllare e regolamentare
ampie fasce del proletariato metropolitano.
Questo circuito ha storicamente costituito e continua a costituire, nonostante
tutti gli interventi messi in opera dallo Stato, l’anello debole del settore
carcerario, perché il potere è costretto a mantenere al suo interno
strati del proletariato metropolitano, contraddicendo il principio della separazione
che è alla base della strategia differenziata, perché non può
impedire la concentrazione periodica di grandi masse proletarie.
Come dicono i compagni prigionieri, la composizione di classe dei GGM rispecchia
sempre più la stratificazione del proletariato nei poli metropolitani,
e ciò significa che aumenta sempre più il numero dei prigionieri
che vive la propria carcerazione in termini di diretto antagonismo di classe.
Questi proletari infatti, fanno parte di un preciso segmento di classe: il proletariato
extralegale, che vive come determinazione particolare del proletariato marginale,
cioè di quella parte di proletariato costituita da strati diversi, tutti
caratterizzati dalla posizione di marginalità rispetto alla struttura
produttiva.
A questo proposito va fatta una precisazione rispetto alla DS ‘78, nel
senso che il proletariato extralegale non nasce solo tra coloro che sono definitivamente
espulsi dal processo produttivo —cioè gli emarginati— ma
al contrario attraversa tutti gli strati che compongono il proletariato marginale.
Nelle condizioni di particolare disgregazione prodotte dalle stesse leggi dello
sviluppo capitalistico, incrementate oggi dall’inesorabile meccanismo
della crisi, si sviluppa il fenomeno del passaggio da emarginato, disoccupato,
lavoratore nero, precario, sottopagato ... a extralegale: questa è la
via di chi non trova più alcuna possibilità di vendere la propria
forza-lavoro o deve svenderla sottomettendosi alle più dure e distruttive
condizioni di sfruttamento e nell’illegalità di massa trova o allarga
le sue possibilità di sopravvivenza.
In questo senso l’illegalità di massa è la traduzione diretta
nei comportamenti di un preciso strato di classe, dell’antagonismo irriducibile
prodotto dalle leggi dell’accumulazione capitalistica: accumulazione crescente
di ricchezza da una parte, accumulazione crescente di miseria dall’altra.
Per questo, l’extralegalità non definisce solo un insieme di comportamenti
soggettivi, specchio della disgregazione che li ha prodotti, ma nel loro insieme
in tendenza esprime una oggettiva collocazione di classe determinata da un identico
bisogno di reddito, e da una contrapposizione sempre più netta allo Stato
che dell'accumulazione capitalistica è il garante sul piano politico
come su quello militare, come ogni proletario incarcerato ha bene imparato a
sue spese.
E’ proprio nel carcere che per questo strato si può compiere il
salto da una disgregazione soggettiva ad una prima formazione di una coscienza
di classe.
Mentre all’esterno questi strati non riescono a trovare alcun punto reale
di aggregazione e anzi spesso approfondiscono i termini oggettivi e soggettivi
della loro marginalità, nel carcere, all’opposto, le comuni e dure
condizioni di vita, l’uguale rapporto nei confronti del potere, costituiscono
una potente spinta a processi di socializzazione e di politicizzazione. Il carcere,
per questo segmento di classe diventa il momento di maggior socializzazione,
veicolo di coscienza politica, organizzazione e lotta.
Storicamente, le lotte nelle carceri hanno trasformato i detenuti in PP! E tutto
ciò a dispetto delle mille pratiche di differenziazione, di regolamentazione,
di controllo con le quali il potere inutilmente cerca via via di soffocarne
la crescita politica.
L’analisi non può tuttavia fermarsi a questo punto.
E’ senz'altro vero, e va sottolineato con forza, che il carcere rappresenta
l’unico punto di aggregazione per questo strato, ma ciò non deve
far saltare direttamente alla conclusione che si debba rovesciare allora il
corretto rapporto che parte dal territorio e cioè dalla situazione di
classe propria di questo strato per arrivare al carcere. Non si tratta cioè
di teorizzare un ruolo autonomo per il proletariato extralegale e per di più
costruito sul carcerario, anche se le sue forme storicamente date di aggregazione
sono esistite per così dire al negativo, in esclusiva funzione della
istituzione carceraria.
E’ proprio qui che va operato un rovesciamento dialettico.
Senza negare la spinta antagonistica verso la società borghese che caratterizza
questo strato e le concrete possibilità di politicizzazione che riesce
a maturare nel carcere, è necessario ribadire che la sua collocazione
di classe non è definita dall’illegalità e dal carcere,
ma dalla collocazione di marginalità rispetto ai rapporti di produzione.
Inoltre è fondamentale considerare che la durata assai diversa del soggiorno
in carcere —spesso breve e ripetuto— e dunque la particolare “mobilità”
alla quale questo strato è soggetto, lo distingue dagli altri strati
costituiti da avanguardie del movimento di classe e da prigionieri di guerra
destinati, secondo il potere, a morirci dentro.
Il rapporto dell’Organizzazione con questo strato si pone dunque correttamente
nell’ottica complessiva del rapporto con gli altri strati diversi dalla
classe operaia, e quindi della ricomposizione del proletariato metropolitano
a partire dalla situazione strutturale in cui esso vive (il quartiere, la borgata
...).
Se è dai rapporti di produzione che si deve partire per una giusta individuazione
della posizione oggettiva di ciascuna componente del proletariato, è
altresì necessario, per un'analisi che voglia afferrare il fenomeno nella
sua complessità, cogliere tutta la ricchezza delle sue determinazioni
e dunque anche le forme specifiche della soggettività.
Ma il fatto che il GGM faccia spesso emergere quella soggettività antagonista
che è sempre presente nei comportamenti del proletariato extralegale
non significa che noi dobbiamo costruire la nostra linea di intervento solo
dentro il carcere, e che dobbiamo limitarci, per fare un esempio significativo,
ad una pratica di reclutamento, basata sul di una esperienza carceraria frammentaria
e disgregata. E’ chiaro che il reclutamento entro questo strato di classe
è sempre possibile, ma è altrettanto chiaro che esso non è
una linea politica. Il vero problema è un altro.
Si tratta di costruire una linea di intervento nel proletariato marginale all’esterno
del carcere, a partire dai suoi livelli reali di coscienza e lotta politica:
una linea che possa diventare concreta in un programma immediato, che dia espressione
e forma organizzata ai bisogni di questo strato di classe.
Le forze rivoluzionarie devono aggredire il carcere metropolitano dall'esterno,
quale parte fondamentale del sistema di controllo sociale sul territorio, e
anello di quella catena che va dagli uffici di collocamento giù giù
fino alla rete degli sbirri di quartiere.
La lotta dentro il carcere deve raccogliere e potenziare i contenuti dei la
lotta esterna! In questo modo l’aggregazione che il carcere produce non
resta fine a sé stessa, ma diventa strumento di reale antagonismo di
classe mentre la maturazione politica può rovesciarsi sul sociale, radicandosi
in forme stabili di organizzazione e di lotta.
Ci sembra questa la via per costruire nuove possibilità di attacco alle
grandi carceri metropolitane: una via che non si fida solo delle grandi esplosioni
spontanee, ma cerca di arricchirle di precisi contenuti di classe.
Così sarà possibile mettere realmente in crisi la funzione di
questo potente strumento di controllo e repressione dei bisogni proletari.
In questa prospettiva, infine, occorre considerare che questo tipo di carcere
costituisce il primo anello della differenziazione e che le lotte che in esso
si sviluppano rompono, per le loro caratteristiche di massa gli equilibri assai
delicati di questa strategia.
Ne è direttamente colpita, infatti, l'efficienza stessa di tutto l’apparato
carcerario, e dunque anche l’efficienza e la funzionalità del circuito
speciale che può essere gestito solo sulla base della concreta pacificazione
di quello normale.
Liberazione dei prigionieri e guerra alla strategia differenziata.
La controrivoluzione preventiva ci costringe a riconsiderare i termini della
questione carceraria e a ridefinire i nostri compiti dopo il salto di qualità
compiuto dal potere nel ‘69.
Il carcere imperialista proprio perché costituisce l’anello terminale
della pratica dell’annientamento, è diventato uno dei punti più
alti della ristrutturazione dello Stato, il punto in cui si condensa gran parte
della strategia di guerra dell’imperialismo in Italia. La possibilità
per la borghesia di far arretrare il processo rivoluzionario trova, come abbiamo
visto, un momento fondamentale in questo anello, in cui gran parte dell’avanguardia
politico—militare del proletariato dovrebbe essere neutralizzata, e in
cui una parte ancora più vasta del proletariato marginale dovrebbe essere
controllata, regolata, pacificata.
L’analisi fin qui fatta evidenzia la complessità dei problemi che
l’Organizzazione si trova davanti nel formulare il suo programma di interventi.
Ma, dall’analisi stessa emergono pure con chiarezza quegli elementi attorno
ai quali l'Organizzazione può e deve costruire una stabile e unitaria
linea di combattimento.
Innanzitutto, accettare di avere più di tremila avanguardie in carcere
per un movimento rivoluzionario in Italia e di avere centinaia di militanti
in carcere per qualsiasi 0CC, significa farsi strangolare politicamente ancor
prima che militarmente.
Di qui occorre costruire la capacità di raccogliere la sfida e di sfidare
a nostra volta lo Stato sul terreno in cui oggi questo gioca tanta parte della
sua forza e della sua credibilità.
E’ dunque anche su questo terreno che si misurerà la capacità
della nostra Organizzazione di agire da Partito, articolando nel settore la
linea strategica di attacco al cuore dello Stato. Ciò comporta una linea
di combattimento caratterizzata non solo dalla stabilità e dal livello
militare che di fatto oggi la guerra impone, ma anche una linea profondamente
unitaria rispetto al movimento dei PP. Una linea che abbia cioè la capacità
di coniugare l’attacco al potere carcerario con le lotte dei PP stessi
e con la loro analisi della congiuntura a riguardo.
Perché è proprio partire da un patrimonio comune di analisi che
può essere concretamente individuato di volta in volta il cuore politico
del nemico.
In questo senso, è importante capire che dare una linea unitaria significa
essenzialmente due cose:
1) realizzare volta per volta, come si è detto, il massimo di unità
possibile con i PP, sia per quanto riguarda il loro patrimonio di esperienza
e analisi politiche che va discusso verificato e fatto proprio dall’intera
Organizzazione. Tutto ciò non è tuttavia un dato di partenza,
ma il risultato di un preciso lavoro politico, che deve sviluppare e arricchire
tutti i rapporti tra l'interno e l’esterno. Si tratta di realizzare anche
qui un salto di qualità, collocando questi lavori nel quadro di una vera
e propria “costruzione di organizzazione” che significa costruzione
di militanti, di strutture, di reti di sostegno, finalizzate a questo scopo,
attraverso i quali una linea di combattimento possa calarsi e vivere in modo
non episodico e senza scollamenti;
2) l’unità; intesa come capacità di rapporto e confronto
continuo con i PP, deve diventare dialetticamente anche un’altra cosa.
Deve infatti diventare unità politica interna alla linea di combattimento,
deve diventare prospettiva strategica unificante.
In altre parole i momenti più alti d'attacco agli uomini e alle strutture
del settore carcerario devono potenziare al massimo l’unità dialettica
tra il contenuto politico generale (attacco al cuore dello Stato) con il contenuto
concreto e particolare dell’attacco al settore specifico, secondo linee
e obiettivi specifici, e secondo parole d’ordine che sappiano sintetizzare
ogni volta i contenuti politici propri di ogni congiuntura. Solo così
le azioni militari di disarticolazione possono avere immediata dimensione ed
efficacia politica, e coerenza strategica di fondo. Solo così non ci
saranno salti o vuoti che dividano le piccole dalle grandi azioni e che dividano
le grandi azioni tra di loro, lasciandole scollegate e sospese nell’astrattezza
che hanno tutti gli interventi che non riescono a dialettizzarsi con la realtà
presente, a calarsi in essa. Realtà che, nel nostro caso è quella
complessa del settore carcerario, nel quale direttamente si scontrano le strategie
dello Stato imperialista e l’irriducibile capacità di lotta e di
analisi politica dei PP. E con tutto ciò, sempre, noi dobbiamo fare i
conti, quando in questo settore facciamo qualcosa.
Sul piano dei contenuti generali dell’attacco, tenuto conto dell’esperienza
militare e politica sin qui accumulata da noi e dai PP, sono punti centrali
del nostro programma la liberazione dei PP, la disarticolazione del carcere
imperialista.
Tra liberazione e disarticolazione non esiste oggi una priorità o una
subordinazione di uno nei confronti dell’altro, se non nel senso assai
preciso che la liberazione rappresenta il livello massimo della disarticolazione,
e la disarticolazione è una delle condizioni della liberazione.
Esse non devono dunque più definire l’una il programma strategico
(la liberazione), l’altra il programma tattico (la disarticolazione),
quasi che tra i due ci fosse una sorta di gradualismo o di rapporto meccanico.
In realtà, dato il livello ormai raggiunto nel settore dallo Stato imperialista,
esse devono vivere in stretta unità dialettica nella nostra pratica di
combattimento: saranno le condizioni oggettive, le possibilità concrete,
che definiranno di volta in volta quale momento privilegiare e quindi la tattica
da seguire. Importante non è dunque di per sé la diatriba: liberazione
si, liberazione no (col rischio di correre dietro senza alcuna chiarezza e senza
nessuna capacità di direzione politica e in modo del tutto episodico
ad ogni progetto in merito), oppure l’altra: distruzione si, distruzione
no.
L'importante è capire fino in fondo che la controrivoluzione preventiva
ha assunto nel carcerario la forma della strategia differenziata, e che la strategia
differenziata costituisce il cuore —strategico appunto— di tutte
le pratiche di annientamento che a vari livelli lo Stato mette in opera contro
i PP.
Noi dobbiamo assumere in questa congiuntura la parola d’ordine generale:
GURRRA ALLA STRATEGIA DIFFERENZIATA PER LA LIBERAZIONE DEL PP E PER LA DISARTICOLAZIONE
DEL CARCERE IMPERIALISTA.
Questo comporta una scelta: quella di concentrare l’attacco contro i punti
forti della ristrutturazione carceraria, e quindi quella di considerare come
punto centrale di riferimento i carceri speciali nei quali si realizza oggi
il massimo della differenziazione e della strategia di annientamento. E’
da queste carceri, del resto, che negli ultimi anni, sono venute le esperienze
più alte e significative di lotta (Favignana, Asinara, Termini Imerese).
E’ contro questo circuito che va oggi rovesciato il massimo di capacità
distruttiva che l’Organizzazione può esprimere.
I percorsi della disarticolazione sono pressoché infiniti, come ci insegna
la pratica dei C.d.L., e non sta a noi tentare di elencarli, o di spiegare come
essi, caso per caso, possano far vivere nell’immediatezza dello scontro
il contenuto strategico ultimo: la liberazione e la distruzione di tutte le
galere.
Nel concreto è ormai ben chiaro davanti a noi nel suo preciso significato
politico, una serie di obiettivi contro i quali va portata una linea di attacco
coerente che deve tradursi in uno stato d’assedio stabile del carcerario
secondo il principio:
“colpire al centro e logorare la periferia”.
Ciò vuoi dire:
1) colpire i vertici del MGG, i vertici della Direzione Generale Istituti di
Pena, i vertici delle agenzie imperialiste nazionali e internazionali, che in
stretta cooperazione reciproca, hanno guidato e guidano, la ristrutturazione
nei settore carcerario, elaborando le direttive e le tecniche più criminali
e sofisticate con le quali controllare e annientare i PP;
2) colpire i direttori delle singole carceri e l’intero staff di esperti
che a vario titolo applicano quelle direttive e collaborano quotidianamente
alla loro elaborazione e al loro aggiornamento;
3) colpire la magistratura di guerra e i CC, che in modo sempre più integrato
conducono le loro campagne di guerra, e si incaricano in prima persona dell’isolamento
e della tortura dei compagni catturati, e tra cui si annidano i nuclei operativi
speciali; colpire i nuclei che assicurano la militarizzazione attorno alle carceri
e nel territorio circostante;
4) colpire il corpo degli AC, a partire dal comando centrale e dai comandi regionali,
e in particolare il sistema dei marescialli e dei brigadieri ai quali spetta
di tradurre le direttive superiori in pratica giornaliera di sorveglianza, in
pratica di violenza;
5) colpire i1 GGM nei suoi uomini e nelle sue strutture, quale primo anello
della catena della differenziazione, attuata scientificamente in forme multiple
nei suoi bracci e nelle sue sezioni, e quale generale strumento di controllo
e distruzione dell’antagonismo proletario. Colpirli per destabilizzare
l’intero sistema della differenziazione e mettere in crisi anche il circuito
degli speciali.
Oggi, questa linea di attacco dà corpo alla nostra strategia di disarticolazione
del settore e di liberazione dei PP, ed è dunque tutt’altra cosa
da un “programma inventato” perché in essa si riassumono
e si moltiplicano le esperienze e le indicazioni di lotta che sono ormai patrimonio
della nostra Organizzazione.
A questa linea hanno dato contributi determinanti i PP, i quali l'hanno articolata
dentro contenuti del programma immediato e lo hanno calato nelle forme organizzative
dei C.d.L.
Ma —quel che più conta— l'hanno fatta vivere attraverso gli
attacchi disarticolanti che hanno saputo portare contro i carceri speciali e
in particolare contro uno di questi che rappresenta il punto più alto
della ristrutturazione, il cuore della SD, quello in cui l’isolamento
e la tortura sono tornati a distruggere fisicamente, nel modo più diretto
e brutale, i prigionieri che vi sono rinchiusi: l’Asinara. La nostra linea
deve trovare dunque là il suo punto materiale di coagulo, oggi storicamente
acquisito alla coscienza di tutti i PP nei suoi contenuti immediati e alla sua
portata strategica. Dobbiamo perciò raccogliere la parola d’ordine:
CHIUDERE CON OGNI MEZZO L'ASINARA, e farla vivere da subito come contenuto unificante
dei nostri attacchi. Solo così le lotte per il programma immediato negli
altri campi potranno riavere l’ampiezza e il respiro di un attacco complessivo
alla strategia dello Stato imperialista. Solo così, insieme ai PP, potremo
cominciare a realizzare concretamente il nostro programma.
E proprio questa capacità di assediare stabilmente il carcere dall’interno
e dall’esterno, e di colpire il cuore del progetto nemico, in modo da
impedire alla strategia differenziata di funzionare, che ci permette di mettere
all’ordine del giorno il contenuto centrale e irrinunciabile del nostro
programma:
LA LIBERAZIONE DI TUTTI I PP!
GUERRA ALLA STRATEGIA DIFFERENZIATA PER LA LIBERAZIONE DEL PP E PER LA DISTRUZIONE
DEL CARCERE IMPERIALISTA!
III. L’UNICA TRANSIZIONE POSSIBILE E’ PER IL COMUNISMO.
Nel sistema imperialista delle multinazionali, i rapporti di
produzione capitalistici non caratterizzano più il sistema dominante,
ma sono ormai estesi, generalizzati su scala planetaria. Questo richiede un
profondo riadeguamento della teoria comunista, che sia il riflesso di questa
comprensione: l’unica transizione possibile è ormai quella verso
il Comunismo.
In passato, il programma di transizione si traduceva in una serie di mediazioni
rese, oltre che necessarie, possibili dalle leggi dello sviluppo storico nell’ambito
del capitalismo.
La liberazione delle forze produttive vedeva il suo primo passo nella loro emancipazione,
ossia nel loro sviluppo. E questo sia prima che dopo la presa del potere da
parte delle forze rivoluzionarie. La strategia del socialismo, elaborata dai
comunisti, è sempre stata sostanzialmente questo; la risposta a simili
questioni.
E’ per esempio assurdo andare a vedere nei tentativi di realizzazione
della società socialista (URSS dei primi anni, la Cina fino alla Rivoluzione
Culturale) un particolare modello economico diverso dal capitalismo, con una
diversa funzione delle categorie di valore, mercato, accumulazione. La socializzazione
dei mezzi di produzione vedeva il suo primo passo nella statalizzazione: quindi
in pratica nella realizzazione di un contraddittorio capitalismo di Stato. E
questo ovviamente, a prescindere da alcune idealizzazioni teoriche sulla transizione
di allora che qui stiamo mettendo in discussione; a prescindere dalle diverse
tattiche con cui si è portato avanti l’accumulazione per formare
l’industria di base, ecc. Ciò che storicamente ha contraddistinto
la transizione socialista (dopo la presa del potere) sta soprattutto nella sovrastruttura:
nel potere politico che assicura il processo —ancora capitalistico, anche
se contraddittorio— di sviluppo delle forze produttive, evitando che questo
processo rafforzi la vecchia classe dominante sotto nuove forme. Dunque, ciò
che in teoria definisce il socialismo come fase transitoria è la dittatura
del proletariato, con il suo corollario: “mettere in piedi uno Stato costituito
in modo che cominci subito a sparire e non possa fare a meno di sparire”
(Lenin).
A maggior ragione si riscontrava questo carattere di "mediazione"
del programma rivoluzionario di transizione prima della presa del potere. Basti
pensare al carattere delle rivendicazioni sindacali, salariali e normative che
si ha. Nella teoria socialista, l'operaio scopre il suo ruolo di merce, afferma
i suoi bisogni materiali in un’ottica di classe: ma a partire dal fatto
che è possibile uno spazio socio—economico nell’ambito dello
sviluppo capitalistico, ambito che si traduce per gli operai in modifica della
professionalità, nella sua modernizzazione.
Ma oggi i sindacati non sono istituzioni del capitale solo per la logica evoluzione
delle loro storiche vocazioni tradunionistiche; i revisionisti non hanno smesso
di essere riformisti per un repentino tradimento.
Il tradunionismo e il suo corrispettivo politico, il riformismo, erano ancora
delle politiche operaie, per quanto non rivoluzionarie e coincidenti con un
settore della borghesia. E’ che oggi, invece, non esiste più lo
spazio sindacale—riformista inteso per quel che è realmente, non
solo ideologicamente: briciole da dare alla classe operaia via via che aumenta
la torta del capitale. Non c’è dunque nessuno spazio socio—economico
dove, all'interno di questa società, si possa realizzare un interesse
proletario che nella sua ambiguità politica, ma non per questo meno concretamente
compiuto, prefiguri al tempo stesso la società futura. Tutti i temi della
transizione vivono già nell’immediatezza dello scontro di classe
sono inscindibili dalla lotta per i bisogni immediati del proletariato. I quali
a loro volta, per essere affrontati, non si possono scindere da una visione
comunista che, nella sua tattica di organizzazione e di lotta, sappia tradursi
in una via che rompa gli attuali rapporti di produzione.
Di conseguenza, non c’è nessun programma di “sapore socialista”
realizzabile in questa società, basandosi su di una piattaforma più
avanzata di quella della classe dominante o della “opposizione”
PCI—sindacato: istituzioni queste ormai addette a rappresentare le istanze
borghesi dentro il proletariato. Il programma proletario richiede la rottura
dei rapporti di produzione: deve diventare programma comunista e non più
“progressivo” rispetto ad una presunta timidezza evoluzionista di
un riformismo che è morto.
La transizione al comunismo si pone quindi come necessità storica, vissuta
come tale da milioni di uomini. Ma questa transizione ad una società
comunista possiede le basi materiali per essere oltre che necessaria anche possibile?
A differenza del ‘17 sovietico o del ‘49 cinese, nella metropoli
imperialista contenuto e forma della rivoluzione proletaria coincidono perfettamente.
Ciò significa che qui è effettivamente data la condizione materiale
per eliminare, insieme al rapporto col capitale, anche la maledizione del rapporto
sfruttato.
Sono date cioè le condizioni materiali per il passaggio epocale dalla
"comunità illusoria" alla “comunità reale”,
dalla divisione del lavoro al pieno sviluppo dell’individuo sociale.
Certo, come il sistema dell’economia borghese si è venuto sviluppando
passo passo, così avviene anche per la sua negazione, che ne è
il risultato ultimo: ma questa negazione è qui immediatamente transizione
rivoluzionaria al comunismo.
L’enorme sviluppo delle forze produttive capitalistiche costituisce la
base contraddittoria di questo processo. Mentre, infatti, sapere scientifico
e applicazioni tecnologiche sono ostinatamente usate per distillare plusvalore
e controllare la classe operaia, la dinamica interna del sistema spinge inesorabilmente
verso trasformazioni “impensabili” per la borghesia imperialista.
E quei rapporti di produzione e quella rielaborazione delle forze produttive,
che la classe dominante è costretta a impedire, sono condizioni imprescindibili
di superamento della crisi e della liberazione proletaria.
In questa contraddizione, si forma ed emerge il proletariato metropolitano come
soggetto rivoluzionario, come espressione sul terreno politico, dei rapporti
sociali di produzione in gestazione, latenti, possibili, costretti ad esercitare
una pressione virtuale sui rapporti di produzione operanti. Rapporti di produzione
in gestazione che, tuttavia interiorizzandosi in ciascuna avanguardia proletaria
ne rimodellano in continuazione la struttura della coscienza, alludendo ad una
trasformazione radicale: all’uomo sociale, collettivo, ricomposto nelle
sue molteplici pratiche. Rapporti sociali di produzione in gestazione il cui
carattere radicalmente rivoluzionario è fondamento del programma di transizione
al comunismo e che, perciò, definiscono la pratica della ribellione,
anche armata, per la loro instaurazione, come la forma di esistenza sociale
e più avanzata oggi possibile nella metropoli imperialista.
Tutto questo rende, nelle attuali condizioni storiche, la transizione al comunismo
necessaria e possibile. Quando diciamo “possibile” non intendiamo
che sia realizzabile qui e oggi qualche frammento di comunismo, o nelle pratiche
di riappropriazione delle merci o in una sorta di riorganizzazione individuale
del lavoro, ecc. Questo finisce per essere soltanto una parodia del Comunismo.
Intendiamo dire invece che la transizione al comunismo è oggi possibilità
materiale di guardare il presente con gli occhi del futuro, di vedere in ciò
che esiste ciò che sarà ed è anche possibilità di
fissare, attraverso la critica del modo di produzione capitalistico, i contenuti
del programma di transizione.
Ciò, d’altra parte non può avvenire senza fissare nel contempo
il percorso storico —che attraversa un’intera epoca— che la
sua realizzazione presuppone.
La concezione del potere proletario armato è il punto dal quale dobbiamo
partire.
Il sistema del potere proletario armato —nella sua ambivalenza: Partito
Combattente e OMR— nell’evolversi dello scontro di classe cresce
e si afferma accumulando il potenziale proletario. Il potere proletario armato
è esercizio di potere e trova il suo compimento nella conquista e nella
distruzione dello Stato borghese, cioè nel pieno dispiegamento della
sua forza, nella forma della sua dittatura. La categoria politica della dittatura
del proletariato è e rimane un momento fondamentale del cammino per la
trasformazione comunista della società.
Non si tratta di concepirlo come un momento magico che, basta aspettare, prima
o poi arriverà, ma come l’esercizio pieno e dominato di un potere
politico che ha soppiantato quello della borghesia. Quello che oggi affermiamo
è che la dittatura del proletariato non è un momento di passaggio
per la realizzazione di qualche conquista “specialistica” (mediata
cioè dalla necessità dell’accumulazione capitalistica),
ma è condizione per una diretta e immediata transizione al comunismo.
Potere proletario armato, dittatura proletaria per la transizione rivoluzionaria
al comunismo! Infatti, pur immaginandolo in un contesto storico più avanzato,
che senso avrebbe oggi proporre piattaforme socio—economiche di carattere
generale? Quelle dei sindacati e dei revisionisti, per esempio non chiedono
poco: chiedono niente e contro i proletari.
Compito dei comunisti è dunque un altro.
In ogni situazione specifica vissuta dai proletari, la lotta per gli interessi
immediati, per soddisfarli, è qualcosa di diverso da ieri. Compito dei
comunisti è di cogliere “questo diverso”. C’è
un unico bisogno che obiettivamente accomuna questi interessi, ed è ormai
il bisogno politico di comunismo. Lo sviluppo dell’organizzazione del
lavoro produce solo controllo e disoccupazione, mentre il problema operaio,
ormai, è il superamento della divisione del lavoro.
La nocività mortale nasce da impianti moderni: l’unica soluzione
complessiva sta in un diverso rapporto dell’uomo con la produzione e la
natura.
Questi interessi, per andare avanti, hanno perciò bisogno di una capacità
politica che sappia far emergere la necessità del comunismo in ogni situazione
particolare, e dunque in forme di organizzazione che costruiscano il potere
proletario, e nella loro capacità di rovesciare gli attuali rapporti
di produzione..
La funzione del Partito è di essere questa ”capacità politica”
di far vivere la lotta in ogni situazione di classe come parte di un programma
generale di transizione al comunismo; essere con la propria pratica d’avanguardia
e con le sue indicazioni a livello di massa il punto di riferimento che riesce
a dare questo significato concreto a ogni situazione di classe.
IV. ORGANIZZARE LE MASSE PROLETARIE SUL TERRENO
DELLA LOTTA ARMATA PER IL COMUNISMO.
COSTRUIRE I NUCLEI CLANDESTINI DI RESISTENZA.
Le condizioni di vita e di lotta delle masse sono molto cambiate.
Dobbiamo sbarazzarci degli schemi che abbiamo ereditato da una tradizione politica
adeguata a una vecchia situazione storica, che ora è bruscamente cambiata.
Come abbiamo già detto, non c’è più alcun sbocco
riformista alle tensioni e alle lotte che il proletariato esprime. La prima
conseguenza è che si è chiusa la possibilità dell’autonomia
di classe di sfruttare come per il passato la contraddizione tra due strategie
capitalistiche. E in particolare, la contraddizione sindacato—padronato,
che oggi si è ricomposta (pur con numerose sbavature) all’interno
di un’unica strategia controrivoluzionaria, dove gli uni e gli altri si
trovano sostanzialmente uniti nel realizzare la ristrutturazione.
Il secondo aspetto concerne la natura della repressione. Il suo carattere preventivo
è sempre stato rivolto soprattutto alla possibilità di estensione
delle lotte. Rispetto alla singola lotta, la repressione in genere è
arrivata dopo, invece che prima, per impedire che le cose diventassero troppo
serie per l’aspetto del dominio. Solo allora la repressione era rappresentata
direttamente dallo Stato, poiché dalle concezioni derivate dalla libera
concorrenza sul mercato, esso si manteneva formalmente neutrale nel rapporto
diretto operai—capitale, almeno finché la situazione restava di
“normale amministrazione”: quando riguardava cioè la contrattazione
del prezzo della forza lavoro (nei limiti del necessario sviluppo della professionalità)
e non il potere.
L’autonomia della lotta di classe si è dunque storicamente determinata,
nel lungo periodo, come capacità proletaria di “forzare le possibilità
offerte dalla stessa legalità del sistema. Quindi oggi, ogni lotta, seppur
parziale e circoscritta, può nascere solo se riesce a scavalcare (o a
eludere) l’insieme degli impedimenti sindacali—padronali—statali
che le si frappongono.
Quando la spontaneità delle masse riesce a creare (battendo il sindacato
ecc) le condizioni di unità su cui sviluppare la lotta per i bisogni
immediati, questa lotta raggiunge istantaneamente un tetto. Essa si configura
immediatamente come scontro di potere rispetto al quale il movimento di massa
stenta a mantenere l’offensiva. Sebbene lo scontro di potere viva oggettivamente
nella sua immediatezza, non esistono ancora i livelli di organizzazione sufficienti
a poterlo interpretare. Su questo piano il movimento di massa è pressoché
all’anno zero. Accade quindi che le iniziative di lotta intraprese dai
vari segmenti di classe, che, seppur con varia intensità e frequenza
percorrono tutto il proletariato, si arrestano di fronte alla possibilità—necessità
di affrontare disarmati lo Stato imperialista.
Il culo di sacco entro cui la controrivoluzione preventiva sembra avere imbottigliato
l'autonomia proletaria è però solo apparente.
In realtà, la soggettività proletaria comincia a misurarsi e realizzarsi
su questo nuovo terreno. Ed è cui che va valutato il suo carattere offensivo,
perché offensivo può essere solo ciò che si forma sulle
novità della fase attuale.
Se di fronte allo sfascio concreto delle forme organizzate tradizionali del
proletariato sono scomparse persino le istanze politiche più elementari,
se viene permessa a e considerata legale solo la lotta che non serve in alcun
modo ai proletari, è scomparso rapidamente e definitivamente il vecchio
ma altrettanto rapidamente ha cominciato a nascere il nuovo.
I proletari più coscienti e combattivi, le vere avanguardie delle masse,
hanno cominciato a misurarsi con il problema che si pone sui tappeto: ricostruire,
nelle nuove condizioni la capacità del movimento di massa di riprendere
l’offensiva.
In questo senso va valutata la vasta mobilitazione che si è verificata
quasi ovunque nel movimento di classe (dalle grandi fabbriche ai quartieri)
intesa a riallacciare a partire dalla clandestinità, i fili di una rete
proletaria che sappia riappropriarsi della capacità di lotta e di antagonismo
che le mutate condizioni avevano distrutto nella vecchia forma.
Il carattere di massa di questi primi momenti organizzativi sta in questo; sono
la prima espressione organizzata e stabile dei caratteri offensivi della resistenza
di massa alla ristrutturazione.
In quanto forma organizzata della resistenza alla ristrutturazione che si materializzano
nell’immediato in ogni situazione di classe, rappresentano il massimo
dell’offensiva oggi esprimibile dalle masse. E’ un fiore destinato
a crescere per la ricchezza del terreno su cui nasce. In tutti i momenti di
lotta aperta che si sono verificati di recente (dagli scioperi Fiat Alfa, ecc;
alle lotte dei lavoratori dei servizi, alle esplosioni sociali dei proletari
del Sud) si è espressa una componente antagonista che ha mantenuto e
ricreato una continuità dello scontro in mille episodi di resistenza
quotidiana alla ristrutturazione. Questi comportamenti sono diventati un immenso
fenomeno di riorganizzazione sotterranea di migliaia e migliaia di proletari
che la controguerriglia psicologica deve riconoscere con le parole velenose
della mistificazione.
In realtà, questo fenomeno apre la possibilità di lottare stabilmente
nella fase della controrivoluzione preventiva, poiché non si tratta di
un arroccamento in difesa dei livelli precedenti, ma di un adeguamento a quelli
nuovi con una capacità autonoma di organizzazione.
L’agitazione e la propaganda clandestina, le mille piccole azioni combattenti,
il sabotaggio continuo della struttura produttiva di controllo, la pressione
e l’accerchiamento contro le gerarchie militarizzate, il rigetto e il
crescente isolamento degli apparati sindacal—revisionisti, sono il dato
caratteristico fondamentale della lotta di classe in quest'ultimo periodo.
Cogliendo questo nodo essenziale, dobbiamo lanciare nel movimento di classe
la parola d’ordine:
COSTRUIRE I NUCLEI CLANDESTINI DI RESISTENZA in quanto embrioni degli organismi
che nascono dalle masse e, per il modo offensivo di collocarsi nello scontro,
ORGANISMI DI MASSA DEL POTERE PROLETARIO.
Ciò che dà valore a questa parola d’ordine non è
tanto la consistenza numerica che i nuclei possono avere, ma il fatto che sanno
unire già oggi in una pratica di massa il politico e il militare in forme
clandestine; interne ad un processo di resistenza di massa alla ristrutturazione.
Questo perché nella fase attuale solo la lotta armata può esprimere
compiutamente l'antagonismo proletario: è la sola strategia che nelle
attuali condizioni storiche possa dirsi rivoluzionaria.
Ne consegue che la costruzione del PCC non può darsi separando il politico
dal militare come separazione dei due aspetti. Questo, deve essere chiaro, vale
anche per gli OMR.
Nella guerriglia, in cui non c’è separazione tra una fase politica
(precedente) e una militare (presa del potere) gli OMR non sorgono alla vigilia
dell’insurrezione, ma nel corso di un intero periodo storico in cui la
crisi economica e politica si accentua e la lotta armata si intensifica e si
caratterizzano insieme come organismi politico—militari.
Anche per quanto riguarda la clandestinità delle masse, cogliamo un segno
dell’avanzata nella costruzione del potere proletario. Il concetto di
clandestinità è legato ad una concezione politica offensiva dello
scontro e dell’organizzazione che deve guidarlo.
Clandestinità vuole dire organizzarsi perché la lotta non si fermi
alla prima ventata repressiva, altrimenti è solo la repressione a stabilire
il tetto del programma rivoluzionario e chi lo deve condurre. E' chiaro altresì
che le forme che assumono i momenti di organizzazione delle masse non sono legate
ad uno schema rigido e immutabile ma al contrario si modellano a secondo delle
condizioni particolari, delle specifiche possibilità che i vari momenti
presentano.
Ma non dobbiamo confondere la forma con la sostanza. E nella sostanza noi dobbiamo
vedere con chiarezza che il nuovo sta proprio nell’estendersi e nel rafforzarsi
della rete sotterranea dentro il tessuto proletario, il sedimentare dei primi
momenti di organizzazione stabile quale o quali punti di partenza di organismi
propri delle masse che si misurano con la capacità di combattere la ristrutturazione,
e di costruire il potere proletario armato.
Ma non si può ridurre il problema dell’organizzazione delle masse
ad un problema esclusivamente organizzativo. Si tratta di definire i contenuti
di un programma che tenda a riunificare la classe, che sia fin da subito mobilitante.
Che cosa vuoi dire questo?.
Nelle masse vivono tensioni, lotte, espressioni multiformi di antagonismo generate
dalla crisi che hanno la loro origine nelle condizioni materiali quotidianamente
vissute.
“Gli uomini si pongono, in genere, solo i problemi che possono affrontare
e risolvere”, e non c’è dubbio che le masse proletarie questo
fanno, lo fanno spontaneamente senza l’intervento di nessuno. Ma se le
contraddizioni affrontate giorno per giorno dalle masse proletarie generano
la lotta spontanea, il processo che porta alla elaborazione del programma immediato
su cui mobilitarle e farle combattere non è altrettanto spontaneo e automatico.
Va capito innanzitutto che il punto di partenza è la lotta spontanea
(a volte soltanto tensioni, esplicite o latenti), perché in essa vi sono
già tutti gli elementi politici, i contenuti specifici del programma
immediato valido per i diversi strati del proletariato metropolitano. Non c’è
dunque da inventare niente in questo piano, ma bisogna invece cogliere con intelligenza
politica quel che già esiste nella spontaneità delle masse e trasformarlo
in progetto lucido e coerente, in piattaforma politica e unificante sulla quale
imperniare la costruzione dei livelli di mobilitazione delle masse e delle articolazioni
del potere proletario.
Facciamo un esempio: Alfa Romeo, reparto verniciatura. Nei mesi scorsi gli operai
di questo reparto hanno sviluppato una lotta sul salario: in concreto, volevano
il passaggio automatico di categoria. La lotta è stata dura perché
questa esigenza non rientra né tanto né poco nei piani di ristrutturazione
di Massacesi e quindi ci si è trovati contro tutto l’apparato controrivoluzionario:
la direzione, il sindacato e infine la DIGOS. Le BR si sono dialettizzate con
tutta la fabbrica e con questa lotta in particolare con un insieme di iniziative
politico—militari di propaganda armata (Opuscolo N°8, azione Dall’Era,
ecc). Nella lotta della verniciatura, vive anche materialmente uno dei contenuti
operai affermatisi in dieci anni di lotta: l’aumento uguale per tutti.
Questa parola d’ordine, sempre presente in tutte 1e lotte per il salario,
è intesa a riunificare la classe, a rompere l’artificiosa stratificazione
operaia ottenuta dal padrone attraverso la differenziazione salariale. Non solo,
ma vediamo che, pur interpretando un bisogno reale ed immediato (più
soldi), allude ad una società diversa, fondata su altri principi. Una
società in cui il valore sociale del lavoro non si misuri col denaro
con cui ti pagano, ma in cui, al contrario, ribaltati i rapporti di produzione,
si può e si vuole vivere tra uguali, secondo il principio: da ciascuno
secondo le sue capacità, a ciascuno secondo il suo bisogno.
Non si creda che questa interpretazione della lotta della verniciatura sia una
forzatura, un voler mettere un cappello politico troppo grande ad una lotta
troppo piccola. E’ l’insieme di queste cose che i comunisti devono
saper leggere e valorizzare dalla lotta spontanea della masse.
Occorre rielaborare i contenuti di ogni lotta contro la nocività, i ritmi,
per il salario, ecc, per mettere in evidenza lo scontro di potere, la carica
sovversiva che li anima contro i rapporti di produzione.
Da questa operazione politica nasce il Programma Immediato, che parte sì
dalla spontaneità, ma la trasforma in un movimento organizzato e cosciente.
Senza questa operazione politica la spontaneità nasce e muore, rinasce
e ri— muore, come è sempre avvenuto, e non produce affatto né
programmi né altro. D’altro canto, senza programma immediato è
impossibile che nascano, si sviluppino diventino potenti gli OMR. Se oggi cominciano
ad esistere gli embrioni di Questi organismi (i Nuclei Clandestini di Resistenza)
essi troveranno le ragioni della loro esistenza e della loro evoluzione solo
in un programma immediato che sappia essere sintesi. politica e proposta mobilitante
con le condizioni di vita delle masse.
Occorre quindi farsi carico, da parte del PCC, per ogni segmento di classe e
approfondendo l’analisi delle lotte rivista alla luce della necessità
di elaborare programma immediato, della capacità immediata di ciascuna
componente di lottare per i propri bisogni. In altri termini il programma immediato
non è un programma economico—riveniicativo, ma un programma politico
che fa vivere le esigenze e i contenuti generali dello scontro in stretta aderenza
alle necessità immediate che questo scontro esprime in ogni concreta
situazione di classe. Con chi si elabora un Programma Immediato?
Sono i proletari più attivi e combattivi delle masse che devono essere
mobilitati in questo lavoro. E’ all’interno della costruzione degli
OMR che la dialettica deve essere sviluppata a questo scopo. Il compito del
Partito deve essere quello di favorire, sollecitare, supportare attraverso la
sua azione, la sua iniziativa militante, la definizione chiara, esplicita, concreta
degli elementi che costituiscono il programma immediato. Favorire, sollecitare,
supportare la mobilitazione possibile per un suo raggiungimento. Il compito
della brigata di fabbrica, di quartiere, di campo è principalmente questo.
Il militante delle BR deve oggi qualificarsi nella classe come dirigente attivo
di questo processo.
Lo scontro tra rivoluzione e controrivoluzione si gioca essenzialmente su questo
terreno. Per la guerriglia, vuol dire conquistare e mobilitare le masse sul
terreno della lotta armata per il comunismo. Per lo Stato imperialista annientare
questa possibilità.
Il PCC misurerà quindi la sua capacità di essere tale principalmente
nel ruolo che saprà giocare nella direzione di questo complesso lavoro,
nella capacità che avrà di legare indissolubilmente e strategicamente
il programma generale di transizione al comunismo con i programmi immediati
e con gli organismi che ne sono i portatori.
“Brigate” e “Nuclei Clandestini di Resistenza” non sono
dunque rispettivamente espressione della ”strategia” e della “tattica”,
della rivoluzione, ma articolazioni strategiche di un unico processo di costruzione
del potere proletario armato. Nella dualità che assume il processo di
costruzione del potere proletario, i nuclei clandestini di resistenza non sono
organismi di Partito.. Mentre le Brigate sono gli embrioni del Partito come
cellule politico—militari, i nuclei sono gli embrioni degli organismi
di massa del potere proletario. Le Brigate raccolgono quella parte dell’avanguardia
di classe che porta avanti il programma generale rappresentato dall’agire
da Partito; i nuclei tendono a raccogliere l’avanguardia di classe nel
suo complesso (e quindi nelle sue varie componenti non solo sociali, ma anche
politiche per esser espressione del programma generale nella realizzazione dei
programmi immediati: ossia strategia applicata ad una particolare situazione
di classe del proletariato. La dialettica esistente tra questi diversi elementi
autonomi è quella esistente tra due momenti inversi: dal generale al
particolare per gli embrioni del Partito; dal particolare al generale per gli
embrioni degli OMR. E’1o stesso tipo di rapporto che c’era, per
fare un paragone, tra Soviet e Partito Bolscevico. Ma l’analogia si ferma
qui perché oggi, in una situazione storica molto diversa di “capitalismo
maturo”, mutano gli obiettivi, i quali perdono il loro carattere intermedio
rispetto allo sviluppo capitalistico e che allora si presentava come necessario.
Muta quindi il loro carattere spesso “difensivo” dal punto di vista
proletario, mutano ancora, quindi, come abbiamo visto, le caratteristiche di
questi organismi che non scindono il politico dal militare.
Il lavoro di massa delle BR nell’attuale congiuntura.
Via via che la guerra di classe avanza, via via che cresce il movimento rivoluzionario,
si evolve, cambia la fase in cui si connota lo scontro. Non c’è
mai staticità e ripetitività nello scontro, ma dialettica, che
sposta continuamente in avanti la contraddizione: la classe abbatte e supera
le vecchie barriere, conquista e si attesta ad un nuovo livello.
L’organizzazione rivoluzionaria, il Partito, deve sapere adeguare la sua
linea politica alle nuove esigenze, deve ridefinire la sua funzione partendo
sempre da una strategia complessiva, ricalibrando i compiti che deve assolvere.
Ciò gli è possibile solo tenendo ben chiari e fermi i propri riferimenti
strategici; solo se sa reinterpretare alla luce delle nuove esigenze i propri
principi politico—organizzativi. L’insieme dei principi politico—
organizzativi dell’Organizzazione non deve essere un corpo imbalsamato
esposto in una bacheca di cristallo, perfettamente conservato, ma irrimediabilmente
morto. Deve essere al contrario materia viva, sostanza cromosomica che modella
l’Organizzazione nella sua evoluzione, che le consente di mutare e crescere
mantenendo inalterati i caratteri distintivi fondamentali. A partire da queste
considerazioni, è necessario ridefinire e riqualificare una struttura
essenziale e insostituibile nel nostro lavoro: il fronte di massa.
Nella teoria dell'organizzazione delle BR, i fronti di combattimento rispondono
all’esigenza “di elaborazione e omogeneizzazione dei programmi di
lotta e di lavoro in settori specifici”. Questo, nella fase della propaganda
armata (dove i compiti principali erano, ricordiamo in sintesi: radicare la
necessità della lotta armata, disarticolare il progetto di costruzione
dello SIM, costruire il PCC come indispensabile determinazione del potere proletario),
ha dato origine a due strutture centralizzate di lavoro e direzione politica:
il Fronte di lotta alla controrivoluzione e il Fronte logistico.
Il lavoro di massa dell’Organizzazione, in quanto finalizzato ai compiti
sopraddetti, percorreva tutto il corpo dell’Organizzazione; trovava impulso
e proposizioni da una parte, e centralizzazione dall’altra, nelle Colonne
e nei Fronti. Il lavoro di massa, pur non avendo strutture sue proprie (oltre
alle Brigate, naturalmente), anzi proprio per questo riusciva ad essere presente
in tutte le strutture dell’Organizzazione e trovava in esse la centralizzazione
necessaria. Propaganda armata e lavoro di massa, in questoouB~to schema organizzativo,
essendo due funzioni strutturalmente integrate, si compenetravano perfettamente
senza che vi fossero frapposti steccati organizzativi. Questo era l’unico
modo corretto per risolvere dialetticamente la necessità di far nascere
e attecchire la lotta armata, e di lavorare nella classe per organizzare l’avanguardia
del Partito.
Ora ci troviamo in una fase in cui possiamo definire i compiti dell’organizzazione,
per semplicità di sintesi, in una parola d’ordine: conquistare
le masse alla lotta armata; organizzare le masse in un articolato sistema di
potere proletario armato.
Il lavoro di massa dell’O punta allora a qualcosa di più e sostanzialmente
diverso che per il passato. Non si tratta cioè di una semplice espressione
quantitativa o geografica, ma di una evoluzione qualitativamente diversa. Non
muta affatto il rapporto tra l'O e il movimento, anzi la funzione del Partito
si rafforza e acquista ancora più valore; muta invece la qualità
politica delle finalità e degli obiettivi del nostro lavoro di massa.
Il nostro programma punta ad organizzare strati di classe per la guerra civile;
a favorire la nascita e crescita degli OMR, alla mobilitazione per i programmi
immediati, in dialettica con il Programma Generale. Questo conferisce al lavoro
di massa dell’O non solo una grande importanza (questa l’ha sempre
avuta),ma una connotazione del tutto nuova che non può essere compresa
entro lo schema organizzativo della fase precedente. Si tratta infatti di articolare
la linea politica dell’O in riferimento specifico alle diverse componenti
del proletariato metropolitano, in aderenza ai loro bisogni immediati e strategici,
alla dinamica particolare dei diversi momenti di lotta, ecc. Si pone quindi
la necessità di approfondire l’analisi e l’elaborazione politica
dal punto di vista di strati omogenei di classe (omogenea per condizione oggettiva),
di produrre gli indirizzi politici in un’ottica di riunificazione dei
programmi di lotta e di ricondurre questi ad una strategia generale, tenendo
conto della complessa dialettica esistente tra Partito e movimento.
Il lavoro di massa dell’O deve pertanto essere centralizzato in apposite
strutture che possano assolvere a questo compito. Il Fronte di Massa deve costruirsi
come struttura centrale dell’O nella medesima concezione che caratterizza
sia il fronte di lotta alla controrivoluzione (che il fronte logistico), i quali
nell’attuale congiuntura conservano a pieno la loro validità e
la loro funzione. Dovendo centralizzare il lavoro di massa che l’O svolge
all’interno delle varie componenti di classe le articolazioni del Fronte
di Massa sono conseguenti alla capacità che si avrà di penetrare
e radicarsi all’interno di ogni componente proletaria. In questa prospettiva,
possiamo già individuare e realizzare delle valide articolazioni, suddividendo
il Fronte di Massa in tre settori fondamentali: 1) settore della classe operaia
e fabbriche; 2) settore dei lavoratori dei servizi; 3) settore proletariato
marginale.
V. LA GUERRIGLIA NELLA FASE DI PASSAGGIO DALLA PROPAGANDA ARMATA ALLA GUERRA CIVILE ANTIMPERIALISTA.
Non siamo più nella fase della propaganda armata e non
siamo ancora in quella della guerra civile antimperialista.
La fase della propaganda armata è contraddistinta da questo: la guerriglia
con la sua iniziativa politico—militare disarticola politicamente il nemico
di classe. Avviene cioè che la guerriglia, individuando il cuore pulsante
del progetto nemico sferra i suoi attacchi per mettere a nudo di fronte ai proletari
la sua natura, i suoi intenti, la sua inconciliabilità di interessi,
e così facendo ”batte la strada”, “apre la pista”
al movimento proletario.
Collocandosi al punto più alto della contraddizione tra borghesia e proletariato,
costituisce per quest’ultimo il punto di riferimento sul piano strategico;
si traduce in piano politico nella massima espressione dell’antagonismo
di classe; apre dei varchi nella gabbia dell’oppressione capitalistica,
così che la governabilità politica dei rapporti di produzione
ne esce irrimediabilmente infranta e prefigura la possibilità della distruzione
definitiva del potere della borghesia. La guerriglia infrange la "pax imperialista",
fa vivere al suo punto più alto lo scontro di potere in cui si esprime
l’antagonismo di classe, dimostra che i tempi della rivoluzione proletaria
sono maturi e che questa non può essere recuperata neppure con tutte
le mistificazioni di cui è capace la borghesia imperialista.
In questa fase pur essendo minoritaria, la guerriglia riesce ad essere un interprete
dei bisogni politici della maggioranza. Pur essendo come forza militare dispiegata
ben poca cosa, riesce in quanto materializzazione organizzata della più
alta coscienza proletaria, a conquistare spazi politici entro cui la lotta,
delle masse può avanzare. Disarticolazione politica vuol dire soprattutto
questo, inoltre, l’attacco guerrigliero, nella misura in cui è
veramente indirizzato contro l’aspetto principale della contraddizione
provoca uno sconquasso tra le file nemiche: ne acuisce le contraddizioni interne,
divarica le differenti tendenze delle varie componenti del suo fronte, impedisce
il ricomporsi dei conflitti intercapitalistici, rende l'apparato ancor più
disfunzionale. La fase della propaganda armata si contraddistingue quindi per
l’esistenza della lotta armata come strategia possibile per il comunismo,
e la guerriglia in sostanza propaganda sé stessa. La tattica viene definita
non tenendo in alcun conto i rapporti di forza militari perché è
scontato che essi tendono in modo soverchiante da parte del nemico e il compito
principale della guerriglia è quello di esistere, esistere come fatto
politico.
La fase della guerra civile dispiegata è quella in cui la lotta armata
costituisce il fronte di lotta principale dell’iniziativa della masse.
La mobilitazione delle masse si articola prevalentemente sul fronte della guerra,
lo scontro di potere non è più solo proiezione politica dell'antagonismo
di classe e prefigurazione di rapporti di forza possibili, ma è capacità
di impostazione, è progressiva estrinsecazione della forza proletaria
che distrugge il potere borghese, e attraverso la costruzione del sistema del
potere proletario armato ribalta i rapporti di produzione esistenti. La fase
della guerra è quella in cui le forme organizzate del potere proletario
hanno la capacità di inchiodare il nemico senza via di scampo, di operare
per la sua distruzione, di eroderne ogni spazio di agibilità politica
e militare.
La tattica in questa fase è principalmente determinata da rapporti di
forza militari (intendendo per militari i livelli di organizzazione costruiti,
la loro capacità di mobilitazione delle masse, la disponibilità
e il grado di capacità al combattimento raggiunto) che diventano la principale
determinazione del fare politica delle masse.
Abbiamo detto che non siamo ancora in una situazione di guerra civile dispiegata,
pur essendo esaurita la fase in cui la propaganda armata era l’unica dimensione
in cui la strategia della lotta armata potesse vincere. Ciò significa
che ci troviamo in un momento di passaggio, che stiamo vivendo un periodo in
cui le masse si approprieranno della lotta armata, un periodo in cui dovranno
avvenire profonde trasformazioni, radicali innovazioni del modo di “fare
politica” (nel senso di incidere nei rapporti di forza) del movimento
di classe. Ci troviamo nel momento iniziale della formazione degli organismi
del potere proletario.
Dire che non siamo ancora in piena guerra civile significa affermare che non
siamo all’inizio di un processo politico—militare che conquisterà
nella sua interezza il proletariato alla lotta armata, intorno alla quale ogni
segmento di classe potrà essere riunificato e mobilitato, edificando
gli organismi della dittatura del proletariato. E’ quindi chiaro che non
si verificherà alcun spostamento significativo nel senso della guerra
civile se non attraverso un’avanzata, passo dopo passo, delle condizioni
soggettive di coscienza, di organizzazione che permetta al movimento di classe
di trasformarsi in movimento di massa rivoluzionario e in definitiva, di fare
la guerra. Perché la guerra può essere fatta solo da grandi masse,
e non dalla organizzazione guerrigliera, per quanto forte e organizzata essa
possa essere. Qual è allora il compito della guerriglia in questo periodo
che è a cavallo tra le due fasi? Prima di tutto deve mantenere la funzione
di propaganda armata: deve però proiettarla in modo diverso che nel passato.
Lo scopo della propaganda armata ora deve essere quello di conquistare stabilmente
gli spazi politici, i terreni di scontro in cui l’iniziativa possibile
delle masse si possa incanalare, su cui la spontaneità della classe si
trasforma in Programma Immediato, su cui la resistenza “naturale”
alla ristrutturazione diventa offensiva e quindi istanza di potere.
La propaganda armata deve cioè essere rivolta non più solo a "battere
la pista" al Movimento, ma a spianare, definendolo, il campo di battaglia,
dove le varie componenti di classe combattono per la conquista del programma
immediato. Laddove i proletari lottano per i propri bisogni, laddove le contraddizioni
particolari enucleano i contenuti dell’iniziativa proletaria seppure informale
o solo potenziale, l’azione di propaganda deve tendere a interpretare
l’elemento di programma che dalla lotta stessa emerge, deve ricondurre
i contenuti che si agitano nei momenti di scontro dentro un progetto unitario
che ne elevi la capacità sovversiva e rivoluzionaria. L’azione
di propaganda armata deve quindi essere di guida perché si pone avanti
(non sopra!) al movimento di massa, ma nello stesso tempo deve essere di supporto
alla capacità e possibilità di mobilitazione e di combattimento
del MPRO.
Deve essere il vero, effettivo, concreto punto di riferimento nel quale le forze
impegnate nella costruzione organizzata di nuovi rapporti di forza con il nemico
non guardano con astratto interesse e simpatia, ma per avere indicazioni valide
nella loro condizione e praticabili nell’immediato. Questo ancora non
basta.
La propaganda armata deve avere la funzione di esplicitare, facendoli vivere
nello scontro, gli obiettivi della trasformazione sociale di cui i comunisti
sono i portatori.
Deve cioè essere rivolta a propagandare con chiarezza i principi, i contenuti,
la logica e la teoria che stanno a fondamento della società che i comunisti
vogliono costruire.
Qui facciamo una parentesi, per chiarire un modo di intendere questa funzione
che riteniamo sbagliato.
Taluni credono che essere comunisti voglia dire possedere un’ideologia
perfettamente costruita seguendo i “sacri” testi del marxismo leninismo,
da tenere gelosamente custodita e accessibile solo ai pochi eletti che sono
i membri del Partito. Per cui quest’ultimo illumina di tanto in tanto
la scena buia dello scontro di classe (alcuni lo fanno poco, altri dicono che
bisogna farlo molto) con i portentosi raggi di un “comunismo” progettato
a tavolino, sognato e prefigurato come la più pura delle astrazioni.
Questo modo di intendere la questione porta a ridurre il problema della transizione
al comunismo ad una specie di dipinto psichedelico perfettamente pennellato
con i colori dei sogni, che raffigura una società perfetta, idilliaca,
altamente desiderabile per ciascuno perché ciascuno può pensarla
come vuole.
Questo porta a tanti grandi discorsi vuoti, che non sono nient’altro che
lo sfogo alle frustrazioni (che sono tante!) che la società capitalistica
ci regala, e che ciascun proletario si porta dentro. Questo modo depravato di
intendere la teoria comunista ha generato, sin dal nascere del movimento proletario,
la più sciocca e inoffensiva delle deviazioni dal marxismo—leninismo:
l’ideologismo dogmatico, settario e gruppettaro. Noi crediamo invece che
una società che muore —e la società capitalistica è
in piena agonia— ha già in sé, nei soggetti sociali che
la affossano, i nuovi valori che sostituiscono i vecchi, le nuove concezioni
che stanno alla base di un nuovo mondo da costruire, così come le vecchie
concezioni stavano alla base del mondo che scompare. Ma anche questo non si
percepisce metafisicamente e vive nella lotta di classe, non al di fuori di
essa. Ed è nella lotta che vive se pur solo come aspirazione, come negazione
che nello stesso tempo proietta la possibilità di costruzione, il comunismo
come “il movimento reale che modifica lo stato di cose presenti”.
Compito del Partito è quello di essere la coscienza organizzata anche
di questo, di saperlo vedere e raccogliere nel suo rapporto con la lotta del
movimento reale, di legarlo con la sua capacità teorica di progettazione
al disegno complessivo, non astraendo mai, neppure per un istante, dalla dinamica
sociale che lo produce, di ributtarlo al movimento trasformato in arma potente
se impugnato dai proletari che combattono. Inoltre bisogna tener conto che viviamo
in questa società e non in un’altra del tutto ipotetica, e quindi
ne siamo il prodotto:
siamo “uomini vecchi” e non “uomini nuovi”.
I comunisti devono affrontare la battaglia ideologica contro la vecchia concezione
trasformando anche sé stessi e gli altri non con intimistiche elucubrazioni,
ma come un aspetto della lotta di classe, e in essa ricercarne le verifiche.
Ritornando alla propaganda armata è evidente che non è sufficiente
fare “propaganda di comunismo” semplicemente con qualche slogan
alla fine dei volantini, o anche parlandone tanto, ma legando il programma generale
di transizione al comunismo ai programmi immediati della classe, con uno sforzo
di interpretazione politica con un’operazione di partito.
In questa fase la propaganda armata deve collocarsi con puntualità nella
dialettica che deve esistere tra programma generale e programma immediato. Al
di fuori di questo esiste solo fantasia e astrazione, che come è noto
sono cose diverse dal materialismo dialettico.
Se la propaganda armata è ancora uno dei punti principali dell’Organizzazione,
pur rivista nella nuova luce, si dice anche che è cominciata la fase
della guerra civile.
Non c’è dubbio che il nemico è già pienamente sul
terreno della guerra di annientamento, mentre il fronte proletario antimperialista
non si è ancora costruito.
Significa allora che la guerra non è possibile rifiutarla. Il livello
di scontro è dato, e chi pensa che sia possibile tornare indietro, prima
ancora che un opportunista è uno sciocco.
Che significa accettare la guerra nell’attuale fase di passaggio? Non
è accettare lo scontro frontale: accettare questa logica è un
suicidio politico e militare. Nell’attuale contesto ciò si riduce
alla logica del colpo su colpo e alla sola rappresaglia. E’ una riduzione
militarista dei termini dello scontro che si riduce sul piano politico in una
forma di arroccamento. Infatti siamo all’inizio di una fase di transizione
e non alla sua fine.
E il passaggio dal movimento di resistenza proletario al movimento di massa
armato non è affatto spontaneo: in esso dunque dovrà qualificarsi
tutta la capacità di costruzione del PCC. Dobbiamo passare all’offensiva,
accettando il livello della guerra, ma sui terreni scelti dalla guerriglia.
Tutta la partita si gioca nella capacità guerrigliera di operare questa
selettività! Se il regime ha inferto colpi al movimento di classe e alle
sue avanguardie combattenti, non è affatto il momento di stare sulla
difensiva, ma al contrario di sferrare colpi dieci volte maggiori e più
terrificanti nelle file della borghesia.
Ma l’azione distruttiva —e sempre meno simbolica— vive militarmente
in un programma politico di disarticolazione: se assume questo carattere distruttivo
anche sul piano politico è perché si pone come “punto di
forza” di una possibile iniziativa di massa.
Avviene perciò attraverso una selezione dei terreni politici dello scontro,
dove la priorità è data dal loro carattere interno ai bisogni,
alle lotte, alle tensioni di massa proletarie.
ACCETTARE LA GUERRA, ATTACCARE IL CUORE DELLO STATO, FAR VIVERE I CONTENUTI
DI DISTRUZIONE E DISARTICOLAZIONE MILITARE SVILUPPANDO UNA LINEA DI MASSA CHE
DIALETTIZZI I CONTENUTI SPECIFICI DEI PROGRAMMI IMMEDIATI CON IL PROGRAMMA GENERALE
DI TRANSIZIONE AL COMUNISMO!
IN QUESTO COMPLESSO LAVORO ORGANIZZARE LE DUE DIVERSE DETERMINAZIONI DEL POTERE
PROLETARIO: IL PCC E GLI OMR!
E’ evidente che questo è un compito difficile ma non sono accettabili
semplificazioni di sorta. La molteplicità degli aspetti che deve avere
la politica della guerriglia non può essere ridotta a una sola valenza,
che non sia in stretta connessione con le altre.
Ogni scorciatoia conduce irrimediabilmente e in un tempo brevissimo alla sconfitta.
Mentre se si accettano con coraggio i complessi compiti che spettano oggi alla
guerriglia, l’avanzata, se pur lenta e faticosa, sarà inesorabile,
la vittoria sicura!
Comunicato agli atti del processo di Torino
Seguono firme ………