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IMPERIALISMO E INTERNAZIONALISMO PROLETARIO
“ Gli Stati Uniti hanno scelto di essere il nemico mortale di tutti i
governi di popolo, di tutte le mobilitazioni della coscienza socialista scientifica
ovunque nel mondo, di tutti i movimenti antimperialisti della terra. La loro
storia negli ultimi 50 e più anni, le caratteristiche intrinseche delle
loro strutture fondamentali, la loro dinamica politica, economica e militare
fanno degli Stati Uniti il prototipo della controrivoluzione fascista internazionale
”.
George L. Jackson
Iniziamo questa relazione con una citazione del grande combattente
afroamericano assassinato dai gorilla imperialisti nel carcere di San Quentin
perché essa nella sua essenzialità coglie il cuore di una questione
per noi fondamentale: la questione dell’imperialismo.
I termini generali del problema li possiamo riassumere come segue.
L’imperialismo è un sistema di dominio mondiale al cui centro stanno
gli Stati Uniti, al centro dei quali stanno le grandi compagnie multinazionali
ed i loro interessi. Questo sistema si è negli anni articolato e stratificato
per aree funzionali di produzione e consumo che sono nello stesso tempo aree
politiche e militari.
I paesi del “ Vecchio Continente ” compongono un'importante area
economica, politica e militare dell’imperialismo. Questa area, da un punto
di vista capitalistico sostanzialmente omogenea, in termini strategici viene
definita “sistema democratico occidentale ”.
Negli ultimi tempi, dopo la lotta di liberazione vittoriosa del Vietnam e della
Cambogia, dopo la crisi di Cipro e del Medio Oriente questo “sistema”,
insieme al Giappone è diventato il banco di prova dell’intero sistema
imperialista.
Ciò vuol dire che è in Europa principalmente che sempre più
si giocherà la permanenza e lo stravolgimento degli equilibri mondiali
sanciti dalla seconda guerra mondiale.
L’unità economica, politica e militare sotto il segno atlantico
di quest’area in altri termini è decisiva per gli Stati Uniti.
E lo è a tal punto che non è affatto azzardato sostenere che dal
punto di vista “ amerikano ” (che non è solo quello degli
USA ma anche quello dei suoi alleati atlantici), il “sistema democratico
occidentale” costituisce in questa congiuntura una totalità strategica
(politica, economica, militare) che non ammette mutilazioni e che non tollera
modifiche di sostanza.
L’Italia, in quanto componente organica di questo sistema e dunque del
sistema mondiale imperialista capeggiato dagli USA, si trova in una posizione
estremamente importante perché:
— con la crisi di regime che la travaglia, costituisce un fattore di crisi
dell’intero schieramento imperialista;
— per la grande influenza che ha il PCI costituisce un punto di forza
dello schieramento sociale-imperialista e dopo i recenti fatti portoghesi ciò
non va affatto trascurato;
— per la forza non trascurabile del movimento rivoluzionario può
trasformarsi in un’area rivoluzionaria dirompente dell’Europa.
Questa situazione è oltremodo eccellente per le forze rivoluzionarie
del nostro paese perché a livello mondiale l’imperialismo è
scosso da violente convulsioni e tutto fa pensare che il peggio non è
ancora venuto. La crisi che attraversa, senza dubbio è la più
grave dopo la seconda guerra mondiale, è nello stesso tempo economica,
politica e militare.
Economica perché è crisi ciclica di sovrapproduzione in presenza
di un’inflazione galoppante e di un disordine finanziario e monetario
mai registrato. Politica poiché scatena i fattori d'instabilità
d'alcuni regimi subalterni e attivizza la lotta operaia, proletaria e rivoluzionaria
delle classi oppresse tanto negli USA che in Europa. Militare poiché
determina uno scollamento crescente dalla NATO e la defezione di alcuni importanti
paesi.
Forza scatenante della crisi sono state le lotte dei popoli e delle classi che
con determinazione rivoluzionaria hanno opposto una resistenza ideologica, politica
e armata alle sue pretese egemoniche planetarie.
Più precisamente le contraddizioni che hanno costretto l’imperialismo
alla “ crisi ”, alla difensiva e dunque ad entrare nella fase storica
della sua dissoluzione sono tre:
— i paesi che lottano per la loro liberazione e per il comunismo;
— il social-imperialismo sovietico anch’esso interessato al controllo
di aree strategiche, al rastrellamento di materie prime, a nuovi mercati e sbocchi
per i suoi investimenti;
— le lotte operaie e il decollo di guerriglie proletarie nei suoi centri
industriali e metropolitani.
E' la complessa dialettica tra queste contraddizioni che spinge irreversibilmente
verso una ridefinizione dei rapporti di forza tra imperialismo, social-imperialismo
e forze rivoluzionarie e che dunque alimenta, nel mondo capitalista occidentale
in generale, e in Italia in particolare, condizioni oggettivamente favorevoli
alla crescita dell’iniziativa apertamente rivoluzionaria. Sta alle classi
rivoluzionarie e alle loro avanguardie politiche e militari cogliere l’occasione.
Sul teatro europeo l’imperialismo reagisce alla sua crisi rincorrendo
tre obbiettivi fondamentali:
— favorisce un processo di controrivoluzione globale e aperta contro ogni
forza a lui antagonista;
— ridimensionare all’interno di ogni paese la forza della classe
operaia e ristabilire rapporti di forza favorevoli alle classi dirigenti locali
“sicuramente atlantiche ”;
— scoraggiare le velleità autonomistiche che si sono fatte strada
in alcuni paesi per ricondurli sotto l’“ala americana ”.
Manovre economiche e servizi segreti lavorano assiduamente in questa prospettiva.
L’uso della “crisi petrolifera” è solo l’ultimo
esempio, anche se alla prova dei fatti si è dimostrata un’arma
a doppio taglio.
Perché se da un lato l’inflazione selvaggia, la recessione produttiva
e il pericolo di una vera e propria depressione hanno consentito il ricatto
politico (“se volete colmare il disavanzo del deficit petrolifero e rimettere
in sesto, almeno in parte, le bilance dei pagamenti coi nostri prestiti dovete
liquidare senza incertezze le spinte “comuniste” che erodono alla
base la stabilità dei regimi politici”); dall’altro hanno
acutizzato tensioni di classe e così favorito le spinte rivoluzionarie.
Appare chiaro tuttavia che “crisi dell’imperialismo” nell’immediato
non vuoi dire “crollo”, ma controrivoluzione globale imperialista
e cioè:
a) ristrutturazione dei modelli economici di base;
b) ristrutturazione delle funzioni economiche entro una divisione internazionale
del lavoro e dei mercati rigidamente pianificata;
c) riadeguamento delle strutture istituzionali, statali e militari dei regimi
meno stabili e più minacciati entro la cornice dell’ordine imperialista.
Affermare che l’Italia è l’anello debole del “sistema
democratico occidentale” vuol dunque anche dire che è il paese
in cui la controrivoluzione si scatenerà più forte e l’intero
sistema imperialista si assumerà la responsabilità di questo processo.
Ciò significa che il proletariato italiano a misura in cui s'intensifica
la guerra di classe nel paese, non si troverà a “fare i conti”
solo col suo nemico interno, bensì con l’intera organizzazione
economica, politica e militare dell’imperialismo.
Si vuol dire, più in generale, che la guerra di classe rivoluzionaria
nelle metropoli europee è immediatamente anche guerra di liberazione
antimperialista, perché l’emancipazione di un popolo in un contesto
imperialista deve fare i conti con la repressione imperialista.
Non esistono “vie nazionali” al comunismo, perché non esiste
nella nostra epoca la possibilità di sottrarsi singolarmente al sistema
di dominio imperialista. Di fronte alla richiesta di potere che sta alla base
dei movimenti di forze comuniste che operano sul continente europeo, la contro
rivoluzione imperialista assume una specificità differente solo per forma
e per intensità: non per qualità.
Che differenza c’è tra la CDU e la DC? Strauss non è certo
diverso da Fanfani!
Per questo insieme di motivi l’internazionalismo proletario è la
nostra prima bandiera di lotta; l’area continentale è lo scenario
d’insieme entro il quale vanno studiate “le leggi della condotta
della guerra che influiscono sulla situazione di insieme della guerra”;
il territorio nazionale è il teatro operativo della nostra guerriglia;
i poli di classe industriali e metropolitani i punti di forza e di irradiamento
della guerra civile rivoluzionaria.
ASPETTI ECONOMICI DELLA CRISI DI REGIME
Premesso che la crisi è il risultato della contraddizione
che ha opposto le forze produttive ai rapporti di produzione capitalistici e
cioè dell’antagonismo espresso con continuità dalle lotte
operaie degli ultimi sei anni, vediamone la specificità economica.
La crisi economica attuale presenta tre caratteri principali:
— è crisi di sovrapproduzione o meglio di sottoconsumo: dopo la
forte espansione degli anni 1950-1960 (miracolo economico) siamo entrati in
una fase caratterizzata da un forte squilibrio tra quantità di merci
prodotte o producibili e assorbimento del mercato. Questo è l’aspetto
storico dell’attuale crisi;
— è crisi in presenza di un forte aumento dei costi delle materie
prime, tra cui il petrolio.
Questo ha come effetto che, nella misura in cui il prezzo del macchinario aumenta,
in conseguenza dell’aumento di prezzo sia delle materie prime che lo compongono,
sia delle materie ausiliarie al suo funzionamento, proporzionalmente diminuisce
il saggio medio di profitto.
L’aumento del costo delle materie prime produce inoltre la riduzione o
l’arresto dell’intero processo di riproduzione del capitale, sia
perché il ricavato della vendita delle merci è insufficiente a
riprodurre tutti gli elementi costitutivi della merce stessa, sia perché
viene resa impossibile la continuazione del processo riproduttivo su una scala
corrispondente all’allargamento tecnico di esso;
— è crisi in presenza di una forte caduta di saggio medio di profitto.
Questo è l’aspetto specifico della crisi economica attuale.
E importante analizzare le conseguenze che questa forte caduta di saggio medio
di profitto ha prodotto e produrrà sulla struttura economica e politica
del sistema. Se la caduta tendenziale del saggio medio di profitto è
una caratteristica fondamentale del processo capitalistico (in quanto tende
sempre più ad aumentare il capitale costante in rapporto al capitale
variabile) in Italia in quest'ultimo decennio (1966-1974) questa caduta tendenziale
ha subito un notevole processo di accelerazione dovuto soprattutto al sorgere
prepotente dell’industria chimica, come industria imperialista multinazionale
(Montedison). L’industria chimica è caratterizzata infatti da un
saggio di plusvalore elevato (cioè valori alti della produttività
per ogni singolo operaio), ma da un saggio medio di profitto bassissimo.
Questo porta a far sì che è sempre più difficile per il
capitalista chimico reperire all’interno del processo di produzione stesso
i capitali necessari alle ristrutturazioni tecnologiche e quindi deve ricorrere
all’indebitamento.
Ma data la grande quantità di capitale finanziario, diventa sempre più
difficile rastrellare questi fondi all’interno del mercato finanziario
privato (finanziarie private e azionariato) per cui deve ricorrere ai prestiti
statali. In tal modo nasce per il capitalista chimico la necessità di
stabilire buoni rapporti con l’apparato statale per ottenere questi prestiti
alle condizioni più vantaggiose.
Di qui a trasformare l’apparato statale in una struttura strettamente
funzionale alle sue esigenze di sviluppo, il passo è breve ed anzi assolutamente
necessario.
Lo stato assume quindi, in campo economico, le funzioni di una grossa banca
al servizio dei grandi gruppi imperialistici multinazionali.
Dal modo in cui lo Stato-banca rastrella “a livello sociale” questi
capitali necessari (che non sono altro che plusvalore complessivo “assegnato”
alle multinazionali) nasce il forte processo inflazionistico caratteristico
dello sviluppo capitalistico attuale nella fase dominata dai grandi gruppi imperialisti
multinazionali.
E chiaro che il processo qui esemplificato per il settore chimico, vale per
ogni altro settore in cui domina la struttura capitalistica multinazionale (cioè
vale per la Montedison, come per la FIAT, come per la Pirelli) e vale per ogni
funzione dello Stato (economica, politica, militare). Lo Stato diventa espressione
diretta dei grandi gruppi imperialistici multinazionali, con polo nazionale.
Lo Stato diventa cioè funzione specifica dello sviluppo capitalistico
nella fase dell’imperialismo delle multinazionali; diventa: Stato Imperialista
delle Multinazionali.
Il capitalismo italiano quindi cerca di usare la crisi attuale per costruire
lo Stato imperialista delle multinazionali. Cioè anche in Italia si tenta
di percorrere il modello americano-tedesco.
MODIFICAZIONI SUL TESSUTO DI CLASSE
Vediamo le conseguenze che la caduta del saggio medio di profitto
produce sulla struttura di classe.
Nei settori dove il saggio di profitto ha valori estremamente bassi, si nota
una diminuzione assoluta di forza-lavoro utilizzata. Ad esempio per la Montedison,
nel periodo 1966-71, nel settore chimico, si hanno investimenti in impianti
fissi per 600 miliardi, con un notevole aumento rispetto agli anni precedenti
ed una diminuzione di forza-lavoro da 70.761 a 70.661 unità. Questa tendenza
è più che confermata anche negli ultimi quattro anni.
D’altra parte il sistema capitalistico in quanto anche produttore di merce
forza-lavoro, produce un forte aumento della popolazione complessiva.
Basti pensare Che all’inizio del 1800 la popolazione della terra era calcolata
intorno ad un miliardo di unità; con l’avvento del sistema capitalistico
si ha in 150 anni una quadruplicazione della popolazione mondiale (attualmente
siamo intorno ai 4 miliardi).
Da tutto ciò si può trarre una generalizzazione: la caduta tendenziale
del saggio medio di profitto produce una diminuzione della forza-lavoro utilizzata
in rapporto alla popolazione complessiva: cioè di fronte ad un aumento
costante della popolazione complessiva non si ha proporzionalmente un aumento
della forza-lavoro utilizzata.
Abbiamo detto in precedenza che l’aspetto specifico della crisi economica
attuale è la forte caduta del saggio medio di profitto. Quindi si può
sostenere che l’attuale crisi produrrà una notevole diminuzione
della forza-lavoro utilizzata in rapporto alla popolazione complessiva.
Questo fenomeno avverrà in modo sempre più accelerato e sarà
una caratteristica stabile del nostro sviluppo economico.
Tutto ciò produce e produrrà sul tessuto di classe modificazioni
stabili che si possono così schematizzare.
Rispetto alla popolazione complessiva si avrà:
a) una diminuzione continua di salariati con occupazione stabile;
b) un aumento dell’“esercito di riserva” (serbatoio in cui
attingere nei momenti di espansione), cioè dei salariati con occupazione
instabile (vedi attualmente l’uso della cassa integrazione);
c) un aumento di quella parte di popolazione che sarà espulsa in modo
definitivo dal processo capitalista (gli emarginati).
Quest’ultimo fenomeno finora non si era manifestato in termini acuti grazie
all’emigrazione che ha significato per tutto un certo periodo lo sbocco
alla sovrapproduzione di forza-lavoro. Attualmente, data la forte caduta a livello
internazionale del saggio medio di profitto, questa valvola di sfogo non può
più funzionare. Gli emigrati tornano a casa per ripopolare le fila dei
disoccupati e dei sottoccupati e cioè, in definitiva, degli emarginati.
Rispetto ai comportamenti di classe si può così ipotizzare:
— salariati con occupazione stabile
Una parte di questi riflette il livello di coscienza immediata che è
di difesa della loro condizione di salariati (equo salario). Costoro formano
la base materiale del riformismo.
Un’altra parte, ed è lo strato più produttivo, quello in
cui lo sfruttamento si accentua sempre più (l’operaio della catena),
sviluppa una coscienza rivoluzionaria, cioè l’abolizione del lavoro
salariato e la distruzione della società capitalistica.
— emarginati
Gli emarginati sono un prodotto della società capitalistica nella sua
attuale fase di sviluppo ed il loro numero è in continuo aumento. Sono
utilizzati dalla società capitalistica, in quanto società dei
consumi, come consumatori.
Sono però consumatori senza salario. Da questa contraddizione nasce la
“ criminalità ”.
L’utilizzo “economico” della criminalità da parte del
capitalismo sta nel fatto che essa contribuisce alla distruzione della merci
necessarie per continuare il ciclo. Per intenderci si potrebbero benissimo costruire
automobili a prova di ladro, ma ciò va contro gli interessi della FIAT.
Una parte degli emarginati riflette a livello immediato la coscienza borghese:
estremo individualismo, aspirazione ad un sempre maggior “consumo”.
Un’altra parte riflette la coscienza rivoluzionaria d'abolizione della
loro condizione d'emarginati, da cui l’abolizione della società
fondata sul lavoro salariato.
— esercito di riserva
Per quanto riguarda l’esercito di riserva, i livelli di coscienza sono
dati dall’intreccio dei livelli di coscienza riscontrabili all’interno
dei salariati con occupazione stabile e degli emarginati.
IL PROGETTO POLITICO DEMOCRISTIANO
Se gli anni 1970-1974 sono stati caratterizzati da forti contraddizioni
all’interno della borghesia (per esemplificare scontro Montedison-FIAT),
contraddizioni che hanno spaccato verticalmente la struttura dello Stato, dei
partiti, delle forze sindacali, il periodo attuale sembra caratterizzato da
una raggiunta fase di “armistizio” fra i vari gruppi capitalistici
italiani: cioè di fronte all’acutizzarsi della crisi, i vari gruppi
capitalistici hanno serrato le fila. Armistizio non significa però fine
delle contraddizioni all’interno del fronte borghese, significa semplicemente
un congelamento momentaneo di queste contraddizioni, congelamento che si manifesta
attraverso un raggiunto accordo (anch’esso di carattere momentaneo) sulla
spartizione di potere fra i più forti gruppi borghesi. In questa chiave
sono da interpretarsi l’accordo raggiunto al vertice della Confindustria
nella primavera 1974 (Agnelli presidente e Cefis vicepresidente), l’unità
stabilitasi intorno a Fanfani delle più forti correnti DC (Fanfaniani,
Dorotei, Andreottiani, ecc.), l’attuale composizione e funzione del governo
Moro.
Sarebbe comunque un errore pensare che le contraddizioni che dividono il fronte
della borghesia siano contraddizioni di carattere antagonista.
Esse sono semplicemente varianti tattiche dello stesso progetto: la costruzione
dello Stato Imperialista delle Multinazionali. L’essenza del conflitto
intercapitalistico sta semplicemente in questo: quale sarà il gruppo
imperialista multinazionale che, guidando il progetto di costruzione dello Stato
Imperialista, si assicurerà la fetta più grossa di potere.
Il progetto politico della DC, che trova in questo momento il suo più
autorevole interprete in Fanfani, mira a fare della DC stessa l’asse portante
di questo progetto dello Stato Imperialista.
Ponendosi in ogni momento come gestore dell’“armistizio” raggiunto,
la DC cerca di essere l’elemento di continua mediazione dialettica fra
gli interessi dei vari gruppi capitalisti.
Nelle intenzioni della DC si dovrà realizzare così, all’interno
di un processo caratterizzato da contraddizioni nello schieramento borghese
e da un forte scontro tra borghesia e proletariato, la costruzione “pezzo
su pezzo” dello Stato Imperialista e alla fine di questo processo una
completa integrazione tra DC e Stato Imperialista.
E' chiaro che questo processo però non avverrà in modo certamente
pacifico, ma andrà assumendo sempre più i caratteri della “guerra
civile”.
Questo anche, e soprattutto, per la profonda crisi d'egemonia che costringe
la borghesia, le sue rappresentanze politiche e le istituzioni dello Stato a
risolvere sempre più le contraddizioni di classe per mezzo della forza,
utilizzando cioè l’intero apparato di coercizione e solo quello.
Più in particolare il progetto politico democristiano, apertamente sostenuto
anche da Tanassi, da Sogno e da Almirante, si propone di costruire intorno al
blocco integralista della DC un più vasto e articolato “blocco
storico” apertamente reazionario e controrivoluzionario, funzionale alla
costruzione dello Stato Imperialista.
Le elezioni amministrative di giugno e ancor più le prossime elezioni
politiche sono giocate in questa prospettiva di lungo periodo. E così
pure i “temi” dominanti della propaganda politica in queste sinistre
campagne elettorali non hanno un carattere contingente come dimostrano di credere
i revisionisti, ma sono anch’essi una tappa della costruzione “pezzo
su pezzo” dello Stato Imperialista.
Emblematica, al riguardo, è la questione dell’“ordine pubblico”
e della guerra alla “criminalità politica” che più
che a guadagnare voti, punta alla militarizzazione preventiva del territorio
e della lotta di classe ovvero è direttamente strumentale alla necessità
di ricostruire un quadro di valori di massa che consentano la ristrutturazione
e la concentrazione di tutti i poteri dello Stato nella prospettiva della guerra
civile controrivoluzionaria. Perché questa è la strada, l’unica
strada, che la Democrazia Cristiana indica e percorre per far fronte alla crisi
di Regime. Al di là delle apparenze “conciliari”, ciò
che la DC vuole è uno scontro aperto fra le forze rivoluzionarie e progressive
ed il blocco storico controrivoluzionario. Essa cerca una spaccatura verticale
che emargini ed annienti le forze ostili alla ristrutturazione imperialista
dello Stato di Regime. Essa si propone di garantire ai padroni delle multinazionali
imperialiste:
1) — il rafforzamento delle strutture e dell’organico militari nei
due sensi di una funzionalizzazione ai progetti NATO e della specializzazione
antiguerriglia contro la sovversione interna
2) — la creazione di una “magistratura di regime” e l’irrigidimento
dei provvedimenti penali su quei capitoli particolarmente inerenti alla guerra
di classe, dalle norme sulla detenzione delle armi, a quelle sulla carcerazione
preventiva, al fermo di polizia, al confine, alle pene esemplari per i militanti
rivoluzionari;
3) — l’adozione di misure “preventive” come la militarizzazione
delle grandi città, delle istituzioni degli uomini più esposti
del regime.
E più in generale, proprio per realizzare questi obbiettivi col minor
numero di contraddizioni essa punta ad una precisa riforma costituzionale, all’elezione
diretta del presidente della repubblica e ad un decisivo aumento di potere dell’Esecutivo:
in breve alla cosiddetta “repubblica Presidenziale”.
Ristrutturare lo Stato per battere il movimento operaio sul terreno della guerra
civile: questa è l’essenza del progetto politico democristiano.
IL PATTO CORPORATIVO
Il tentativo di costruire legami corporativi tra la classe
imprenditoriale del regime e le organizzazioni sindacali dei lavoratori è
funzionale più di quanto si creda alla formazione dello Stato Imperialista.
Agnelli, in quanto portavoce dell’interno padronato, lo aveva anticipato
nel suo primo discorso da Presidente della Confindustria, quando sostenne la
necessità di “addivenire ad un patto sociale che, a 30 anni dall’aprile
‘45, ridefinisca gli obiettivi nazionali del popolo italiano in vista
degli anni ‘80 e ‘90. Non si tratta però di un patto tra
sindacati - imprenditori - governo”.
Lo ha ribadito anche quest’anno: “La durezza della crisi economica,
le sue complicazioni di ordine sociale e l’esigenza di un sollecito ritorno
allo sviluppo, prospettano all’organizzazione industriale obbiettivi di
carattere generale che sono in larga parte comuni alle organizzazioni dei lavoratori.
Ritengo che sindacati e rappresentanza imprenditoriale si trovino davanti al
medesimo problema: quello della costruzione di un quadro generale fatto di scelte
e indirizzi che non favoriscano il consumo passivo, la rendita e l’accumulazione
parassitaria, bensì l’iniziativa e la capacità”.
Secondo Agnelli dunque le maggiori forze industriali - multinazionali del Paese
si dovrebbero assumere una responsabilità più diretta nella gestione
del potere fissando una serie di principi politici e soluzioni tecniche per
realizzare una gestione “concordata” della crisi oggi, e della ripresa
domani con le Confederazioni sindacali e con il Governo.
Ciò che ci interessa è che il “patto sociale” viene
giustificato non in funzione “anticongiunturale”, dunque come accordo
tattico, ma come esigenza avanzata e perciò come progetto di stabilizzazione
per gli anni ‘80!
L’operazione d'ingabbiamento che esso presuppone può essere definito:
incorporazione organica della classe operaia dentro il capitale e dentro lo
Stato. Essa segue la logica che la classe operaia per salvare se stessa, deve
salvare il padrone; per salvare il padrone deve salvare lo Stato; per salvare
lo Stato, deve assumersi i costi economici della riconversione produttiva ed
i sacrifici della ristrutturazione imperialista. E' una logica miserabile e
val la pena di tenerne conto solo perché essa è fatta propria
dai vertici sindacali e da quelli del Partito Comunista.
La falsità delle argomentazioni portate a giustificazione del “patto
corporativo” sta in questo:
— si identifica l’interesse operaio con l’interesse di sviluppo
del grande capitale multinazionale e l’interesse delle multinazionali
con l’interesse nazionale;
— si contrabbanda per disposizione riformistica l’esigenza di riconversione
produttiva del grande capitale;
Il “patto corporativo” riferito alla fabbrica vuole nascondere una
realtà che da anni le avanguardie operaie chiamano “fascismo di
fabbrica” e cioè una ristrutturazione del ciclo e dell’organizzazione
del lavoro con i suoi risvolti di:
a) rottura della rigidità della forza-lavoro (mobilità: distruzione
sistematica dei nuclei di avanguardia; maggior utilizzo degli impianti; intensificazione
dello sfruttamento);
b) militarizzazione dell’apparato di dominio (corporativizzazione dei
dirigenti, dei quadri dei capi; sindacalismo giallo; utilizzo dei fascisti per
i “lavori sporchi”; spionaggio ).
Rispetto alla lotta operaia una conseguenza decisiva del “patto”
è dunque una più moderna concezione della repressione: sindacalista
e poliziotto, spionaggio padronale e controllo sindacale si fondono in un unico
disegno di annientamento della autonomia e dell’antagonismo.
Un esempio è la tendenza, già dimostratasi in molte fabbriche
dove la lotta autonoma è particolarmente incisiva, che vede gli esecutivi
sindacali e le direzioni del personale impegnati a collaborare per l’identificazione
dei “provocatori” con l’obiettivo specifico della loro eliminazione
mediante licenziamento o denuncia alla magistratura.
In sostanza, questa proposta corporativa è decisamente reazionaria. Essa
prefigura una dittatura feroce nei confronti delle forze di classe rivoluzionarie;
e a misura in cui essa si afferma in fabbrica, tende a proiettarsi sul terreno
politico generale chiudendo ogni spazio alla guerra di classe rivoluzionaria.
IL “ COMPROMESSO STORICO ”
Nella sinistra ufficiale non vi è comprensione delle profonde trasformazioni
strutturali e politiche che stanno compiendo per opera della DC e della Confindustria
all’interno della controrivoluzione globale imperialista.
Soprattutto il PCI dimostra la sua incapacità ad indicare una strategia
di classe alternativa. La linea ribadita al XIV° Congresso ne è una
dimostrazione definitiva. La “strategia” del Compromesso Storico
affonda i suoi presupposti in due incomprensioni decisive: il carattere guerrafondaio
dell’imperialismo, e il carattere reazionario e imperialista della DC.
Berlinguer, questo Kautskj in sedicesimo, indica come tendenza a livello mondiale
e scorge perfino conferme dal comportamento degli USA, la politica della “coesistenza”
e della “cooperazione” giungendo a profetizzare “un sistema
di cooperazione e integrazione così vasto da superare progressivamente
la logica dell’imperialismo e del capitalismo e da comprendere i più
vari aspetti dello sviluppo economico e civile dell’intera umanità”.
Non c’è antagonismo per Berlinguer tra imperialismo, social-imperialismo
e rivoluzione, ma contraddizioni in via di soluzione “pacifica”
e “civile”.
La realtà lo smentisce.
La tendenza generale oggi nel mondo è quella che indicano i compagni
cinesi: è la rivoluzione.
Imperialismo e social-imperialismo si trovano sempre più spesso in aperta
contraddizione e le guerre di liberazione dei popoli conoscono nuove vittorie.
Così è in Vietnam, in Cambogia o per altro verso in Portogallo.
Anche per quel che riguarda l’Italia l’idillio filocapitalistico
di Berlinguer non ha limiti di pudore. Con un'operazione teorica assai lontana
dal materialismo storico e dialettico, egli propone il “compromesso con
le masse popolari cattoliche” ovvero, fuor di perifrasi, con la Democrazia
Cristiana di cui trascura o addirittura nega il carattere imperialista, antinazionale
e antipopolare che da trent’anni fa di questo partito l’anima e
il cervello di tutte le spinte più reazionarie e fasciste che si registrano
con intensità sempre crescente nel Paese.
A tal punto si diserta dal marxismo e dal leninismo, si sconfina dall’analisi
di classe che la contraddizione principale viene ormai presentata come contraddizione
tra “democratici” e “antidemocratici”, dove i primi
sono tutti coloro che agiscono nell’area costituzionale, e i secondi tutti
gli altri, non importa se i fascisti, rivoluzionari od operai che perseguono
obiettivi di lotta “particolaristici” o “corporativi”.
La funzione che il PCI si assegna dunque, è quella di recuperare all’interno
del “sistema democratico” tutte le spinte antagoniste del proletariato
stravolgendole in termini riformisti.
Il “compromesso storico” infatti non presuppone un antagonismo strategico
rispetto al programma di realizzazione dello Stato imperialista (nello Stato
imperialista “democristiano” ci saranno un po' più poliziotti;
in quello del PCI un po' meno, ma solo perché ognuno dovrà essere
poliziotto di se stesso), ma si presenta semplicemente come diversa formula
per la gestione del potere: di quel potere.
Il “compromesso storico” non corrisponde ad un bisogno politico
di classe, ma più riduttivamente ad un tornaconto opportunista di uno
strato di classe che dal rafforzamento del sistema imperialista, realizza alcuni
miserabili vantaggi.
Per questo il PCI si oppone ormai violentemente al movimento rivoluzionario
e alle forze di classe da cui quest’ultimo trae forza ed alimento.
Per questo i disegni revisionisti verranno certamente sconfitti. Non bisogna
tuttavia sottovalutare la funzione ambivalente che nei tempi brevi la linea
del “compromesso storico” svolge entro la crisi di regime:
— da un lato costituisce un potente fattore di crisi politica del regime;
incute terrore ed accelera contraddizioni nei settori più conservatori
e più reazionari:
— dall’altro evita che il Paese diventi ingovernabile, e cioè
ostacola lo sviluppo della guerra di classe.
Perché ciò significa che, mentre i settori conservatori o reazionari
preoccupati dalla piega degli avvenimenti progettano e alimentano disegni di
sopravvivenza apertamente controrivoluzionari, larghi settori del movimento
operaio e popolare rimangono catturati nella trappola paralizzante della linea
del “compromesso”. E questa linea, congelando le forze di classe
ritarda ed ostacola la presa di coscienza a livello di massa della necessità
della guerra, e questo proprio nel momento in cui la situazione è assai
favorevole per le forze rivoluzionarie.
Quando si dimentica che sono gli sfruttati che devono volere la guerra, si è
scelto per la pace dei padrone!!
PORTARE L’ATTACCO AL CUORE DELLO STATO
La nostra linea, entro questo quadro generale di progetti e
di contraddizioni resta quella di unificare e rovesciare ogni manifestazione
parziale dell’antagonismo proletario in un attacco convergente al “cuore
dello Stato”.
Essa prende l’avvio della considerazione del tutto evidente che è
lo Stato imperialista nel suo farsi, a garantire ed imporre il progetto complessivo
di ristrutturazione e dunque anche i progetti particolari, e che perciò
al dì fuori del rapporto classe operaia-Stato, non si dà, come
del resto non è mai data, lotta rivoluzionaria.
Obiettivo intermedio è il collasso e la crisi definitiva del regime democristiano,
premessa necessaria per una “svolta storica” per il comunismo.
Compito principale dell’azione rivoluzionaria in questa fase è
dunque la massima disarticolazione politica possibile tanto del regime, che
dello Stato. E cioè il massimo sviluppo possibile di contraddizioni tra
le istituzioni e, all’interno di ognuna di esse, tra i diversi progetti
tattici di soluzione della crisi e all’interno di ciascuno di essi.
Il passaggio ad una fase più avanzata di disarticolazione militare dello
Stato e del Regime è prematuro e dunque sbagliato per due ordini di motivi:
1) la crisi politica del regime è molto avanzata, ma ancora non siamo
vicini al “punto di tracollo”;
2) l’accumulazione di forze rivoluzionarie sul terreno della lotta armata
seppure ha visto negli ultimi due anni una grande accelerazione, ancora non
è tale per espansione sul territorio e per maturità politica e
militare da consentire il passaggio ad una nuova fase della guerra.
La distruzione del nemico e la mobilitazione politica e militare delle forze
popolari non possono che andare di pari passo. Il rafforzamento del potere proletario
è in altri termini condizione e premessa del passaggio alla fase più
avanzata della disarticolazione militare del regime e dello stato nemico.
LA GUERRIGLIA URBANA
La guerriglia urbana gioca un ruolo decisivo nell’azione
di disarticolazione politica del Regime e dello Stato. Essa colpisce direttamente
il nemico e spiana la strada al movimento di resistenza.
E' intorno alla guerriglia che si costruisce ed articola il movimento di resistenza
e l’area dell’autonomia e non viceversa.
Allargare quest’area vuol dire in primo luogo sviluppare l’organizzazione
della guerriglia, la sua capacità politica e di fuoco.
Sono sbagliate tutte quelle posizioni che vedono la crescita della guerriglia
come conseguenza dello sviluppo dell’area legale o semi legale della cosiddetta
“autonomia”.
È bene far chiarezza su questo punto. Entro quella che viene definita
“area dell’autonomia” si ammucchiano e stratificano posizioni
diversissime. Alcuni, che definiscono la loro collocazione all’interno
dello scontro di classe per via “soggettiva”, si riconoscono parte
di questa area più per imporre al suo interno bisogni e problemi ad essa,
e cioè per “recuperarla su1 terreno della politica”, che
a favorirne la progressiva definizione rivoluzionaria, strategica, tattica ed
organizzativa.
A nostro giudizio, l’intera questione va affrontata a partire dallo strato
di classe che più d'ogni altro subisce l’intensificazione dello
sfruttamento, conseguente ai progetti di ristrutturazione capitalistica ed imperialistica.
Teoria rivoluzionaria è teoria dei bisogni politico—militari di
“liberazione” di questo strato di classe. Solo esso infatti esprime
in potenza, se non ancora in coscienza, (che vuol dire organizzazione) l’universalità
degli interessi di classe.
Solo intorno ai suoi bisogni possono essere organizzati e assunti i bisogni
degli strati sociali emarginati dal processo di ristrutturazione e possono essere
battuti i propositi revisionisti, riformisti o corporativi di quella parte di
classe operaia che trova tornaconto, anche se miserabile, nel rafforzamento
dei sistema di dominio imperialista.
Le “assemblee autonome” non sono l’avanguardia di questo strato
di classe poiché esprimono, oggi, un'interpretazione molto parziale e
soprattutto settoriale dei suoi bisogni.
Al loro sorgere esse hanno costituito un fattore decisivo nel processo di superamento
del “gruppismo”, ma oggi rischiano di finire esse stesse nel culo
di sacco di quell'impostazione. Ciò che predispone a questo pericolo
è il “feticcio della legalità” e cioè l’incapacità
di uscire dalla falsa contrapposizione tra “legalità” e “illegalità”.
In altre parole le assemblee autonome non riescono a porre la questione dell'organizzazione
a partire dai bisogni politici reali e così finiscono per delimitare
questi ultimi entro il tipo d'organizzazione legale che si sono date.
Tagliando il piede per farlo entrare nella scarpa!
Alcuni, maggiormente consapevoli della contraddizione in cui si dibattono, giungono
ad ammettere un dualismo d’organizzazione e così a riproporre l’improponibile
teoria del “braccio armato” nell’antica logica fallimentare
terzinternazionalista.
Ma, pena l’estinzione della loro funzione rivoluzionaria, esse in questa
nuova situazione devono fare un salto dialettico se vogliono rimanere aderenti
all’assunto fondamentale di organizzare, sul terreno della guerra di classe,
l’antagonismo proprio dello strato “oggettivamente” rivoluzionario.
Fuori di questa prospettiva non c’è che minoritarismo o subalternità
al revisionismo.
La guerriglia urbana organizza il “nucleo strategico” del movimento
di classe, non il braccio armato.
Nella guerriglia urbana non ci sono contraddizioni tra pensare ed agire militarmente
e dare il primo posto alla politica. Essa svolge la sua iniziativa rivoluzionaria
secondo una linea di massa politico-militare.
Linea di massa per la guerriglia non vuol dire, come qualcuno fraintende, “organizzare
il movimento di massa sul terreno della lotta armata”, o perlomeno non
vuol dire questo momento.
Nell’immediato, l’aspetto fondamentale della questione rimane la
costruzione del Partito Combattente come reale interprete dei bisogni politici
e militari dello strato di classe “oggettivamente” rivoluzionario
e l’articolazione d'organismi di combattimento a livello di classe sui
vari fronti della guerra rivoluzionaria.
La differenza non è da poco e vale la pena di esplicitarla poiché
essa nasconde una divergenza sulla questione dell’organizzazione che non
è secondaria.
La sostanza della divergenza sta nel fatto che la prima tesi appiattisce fino
a dissolverla, l'organizzazione nel “movimento”, che nello stesso
tempo viene gonfiato fino a raggiungere dimensioni mitiche; la seconda concepisce
organizzazione e movimento come realtà nettamente distinte e in perenne
dialettica tra loro.
Il Partito Combattente è partito di quadri combattenti. E dunque reparto
avanzato e armato della classe operaia e perciò nello stesso tempo distinto
e parte organica di essa.
Il movimento è una realtà complessa e disomogenea in cui coesistono
e si combattono molteplici livelli di coscienza. E' impensabile, e soprattutto
impossibile, “organizzare” questa molteplicità di livelli
di coscienza “sul terreno della lotta armata”. Vuoi perché
questo terreno, pur essendo strategico, non è ancora quello principale;
vuoi perché il nucleo che costruisce il Partito combattente, e cioè
le BR, non ha certamente maturato le capacità politiche, militari e organizzative
necessarie allo scopo.
Non si tratta di “organizzare il movimento di massa sul terreno della
lotta armata”, ma di radicare l’organizzazione della lotta armata
e la coscienza politica della sua necessità storica nel movimento di
classe.
Questo rimane il principale obbiettivo del Partito combattente in costruzione
in questa fase.
Per l’insieme di motivi che abbiamo discusso il livello di scontro adeguato
a questa fase resta quello della propaganda armata.
Gli obiettivi principali dell’azione di propaganda armata sono tre:
— creare il maggior numero possibile di contraddizioni politiche all’interno
dello schieramento nemico e cioè disarticolarlo, disfunzionalizzarlo;
— battere la pista al movimento di resistenza praticando terreni di scontro
spesso sconosciuti ma non per questo meno essenziali;
— organizzare lo strato di classe avanzato nel Partito e in organismi
di combattimento a livello di classe sui vari fronti della guerra.
La propaganda armata realizzata attraverso l’azione di guerriglia indica
una fase della guerra di classe e non come qualcuno ritiene una “forma
di lotta”. A questa fase segue quella della “guerra civile guerreggiata”,
in cui compito principale dell’avanguardia armata, sarà quello
di disarticolare, anche militarmente, la macchina burocratica e militare dello
Stato e spezzarla.
L’assalto al carcere di Casale per la liberazione di un compagno chiarisce
il concetto nel senso che quest'azione di propaganda armata:
— ha prodotto una disarticolazione profonda dello Stato: ribaltamento
della campagna di propaganda con cui tentava di darci per “spacciati”;
vanificazione dei progetti democristiani di un “processo esemplare”
sotto le elezioni; accentuazioni delle contraddizioni tra magistratura e CC,
tra magistratura di Milano e di Torino, tra alti gradi e bassi gradi della magistratura;
tra DC e altre forze politiche e via elencando;
— ha battuto la pista al movimento di resistenza nei due sensi di aver
realizzato una parola di ordine del programma rivoluzionario (liberazione dei
prigionieri politici) e perciò aver creato un clima di fiducia nella
massa dei prigionieri politici oltre che tra le avanguardie rivoluzionarie;
aver esplorato un nuovo terreno di scontro ed aver tratto indicazioni ed esperienza
che nei prossimi tempi risulteranno decisivi;
— ha creato le premesse reali per organizzare l’avanguardia rivoluzionaria
rinchiusa nelle carceri del regime su un programma rivoluzionario d'attacco
allo Stato.
Ora evidentemente tocca al Partito combattente dentro e fuori delle carceri
trasformare le premesse in strutture, le potenzialità rivoluzionarie
liberate in potere proletario armato.
Su quale terreno deve svilupparsi la nostra iniziativa tattica?
Essi sono definiti in tre parole d’ordine fondamentali:
1) SPEZZARE I LEGAMI CORPORATIVI TRA LA CLASSE DIRIGENTE INDUSTRIALE E LE ORGANIZ-ZAZIONI
DEI LAVORATORI
2) BATTERE LA DC CENTRO POLITICO E ORGANIZZATIVO DELLA REAZIONE E DEL TERRORISMO
3) COLPIRE LO STATO NEI SUOI ANELLI PIU' DEBOLI
SPEZZARE I LEGAMI CORPORATIVI TRA LA CLASSE DIRIGENTE INDUSTRIALE
E LE ORGANIZZAZIONI DEI LAVORATORI
Sul terreno della lotta operaia il nodo da sciogliere, e dunque
anche il punto centrale del programma di lotta, è il “patto corporativo”:
il rapporto Confindustria-Confederazioni-Governo come asse portante della ristrutturazione
capitalistica e come elemento fondamentale dello Stato corporativo imperialista
delle multinazionali.
È molto importante, ma non è sufficiente in questa prospettiva,
intensificare i movimenti autonomi di lotta contro ogni aspetto della ristrutturazione
così come ci appare “immediatamente” con la Cassa integrazione,
la mobilità del lavoro, i licenziamenti e l’intensificazione forsennata
dello sfruttamento.
Questi livelli di scontro vanno nella direzione giusta e assumono un carattere
offensivo nella misura in cui riescono a rompere la “gabbia” sindacale
e a mettere in scacco, cioè a minare, la capacità di controllo
delle Confederazioni.
Ma l’attacco deve essere esteso soprattutto alla struttura politico-militare
del comando; perché la Confindustria riformata è il maggior centro
dell’iniziativa padronale; perché essa si serve delle organizzazioni
“sindacali” dei dirigenti, dei quadri, dei capetti e degli operai
con la testa da padrone come cinghie di trasmissione della nuova ideologia e
come centri di organizzazione corporativa.
Disarticolare a fondo questa “cinghia” esplicitandone struttura,
modo, funzionamenti e legami con i centri di potere politico e col disegno generale,
è un'esigenza immediata della lotta rivoluzionaria. Finora abbiamo condotto
l’epurazione a livello della produzione. Da oggi in avanti si rende necessario
investire anche livelli amministrativi, dirigenziali o direttamente padronali
più ampi.
Disarticolare questa trama vuol dire farne saltare la funzione politica e militare.
Infatti, la tendenza corporativa nel suo farsi, porta con sé l’esigenza
e l’organizzazione della repressione violenta dell’antagonismo di
classe e cioè di chi non accetta il suicidio revisionista.
Di conseguenza la funzione del comando va sempre più specializzandosi
anche in questa direzione.
La raccolta di informazioni sui nuclei di avanguardia operaia, lo spionaggio
politico, l’infiltrazione, la provocazione e ogni altro genere di lavoro
controrivoluzionario vengono portati a nuovi livelli di efficienza.
Si tratta di non lasciarli funzionare, di anticiparli, neutralizzarli e punire
con la durezza opportuna chiunque si assuma la responsabilità del loro
funzionamento.
BATTERE LA DC CENTRO POLITICO E ORGANIZZATIVO DELLA REAZIONE E DEL TERRORISMO
Sul terreno politico è la DC che va combattuta e battuta
perché essa è il vettore principale del progetto di ristrutturazione
imperialista dello Stato e il punto d'unificazione del fascio di forze reazionarie
e controrivoluzionarie che unisce Fanfani a Tanassi, a Sogno, a Pacciardi, ad
Almirante, ai gruppi terroristici.
La DC è il nemico principale.
Essa è il partito organico della borghesia, della classe dominante e
dell’imperialismo. E' il centro politico e organizzativo della reazione
e del terrorismo. E' il motore della controrivoluzione globale e la forma portante
del fascismo moderno: il fascismo imperialista.
Non ci si deve lasciar ingannare dalle professioni di fede “democratica
e antifascista” che talvolta vengono da taluni dirigenti di questo partito,
perché esse rispondono al bisogno tattico di mantenere aperta la finta
dialettica tra “fascismo” e “antifascismo” che consente
alla DC di rastrellare voti facendo credere che contro il pericolo “fascista”
sia meglio la “democrazia riformata”, e cioè lo Stato imperialista.
Il problema delle avanguardie rivoluzionarie è quello di fare chiarezza
sull’intero gioco colpendo collegamenti, connivenze e progetti.
La DC non è solo un partito ma l’anima nera di un regime che da
30 anni opprime le masse operaie popolari del Paese. Non ha senso comune dichiarare
la necessità di battere il regime e proporre nei fatti un “compromesso
storico” con la DC.
Ne ha ancora meno chiacchierare su come “riformarla”. La Democrazia
Cristiana va liquidata, battuta e dispersa. La disfatta del regime deve trascinare
con sé anche quest'immondo partito e l’insieme dei suoi dirigenti.
Com'è avvenuto nel ‘45 per il regime fascista e per il partito
di Mussolini. Liquidare la DC e il suo regime è la premessa indispensabile
per giungere ad un'effettiva “svolta storica” nel nostro paese.
Questo è il compito principale del momento!
COLPIRE LO STATO NEI SUOI ANELLI PIU DEBOLI
La questione dello Stato è quella che più ci
differenzia dalle forze revisioniste e pararevisioniste che lavorano instancabilmente
a perfezionare questa macchina antiproletaria.
Con Marx, Engels, Lenin, Stalin e Mao anche noi diciamo che:
“spezzare la macchina burocratica e militare dello Stato è la condizione
preliminare d'ogni reale rivoluzione proletaria”.
La lotta contro il corporativismo, il fascismo e il regime non può essere
disgiunta dall’azione diretta contro le istituzioni dello Stato e rivolta,
in questa fase, alla loro massima disarticolazione politica.
“Disarticolazione politica” e non “erosione propagandistica
della credibilità democratica” perché questo Stato in via
di ristrutturazione è già lo Stato della guerra civile.
Per questo è necessario conseguire risultati sul terreno della liberazione
dei compagni detenuti politici; della rappresaglia contro la struttura militare
delle carceri; contro l’antiguerriglia in tutte le sue articolazioni;
contro la magistratura di regime; contro quei settori del giornalismo che si
distinguono nella “guerra psicologica”.
L’attualità di questa prospettiva è più che dimostrata
dai livelli raggiunti dall’azione controrivoluzionaria nei nostri confronti
e nei confronti di tutte quelle forze che si sono mobilitate sul terreno della
guerra di classe; e dagli eccellenti risultati politici che sono seguiti all’operazione
Sossi (peraltro non conclusa) e all’assalto al carcere di Casale Monferrato.
A queste linee si uniformerà la nostra presenza nel
movimento rivoluzionario e la nostra iniziativa di guerriglia e di costruzione
del potere proletario. Ma un’ultima cosa è importante aggiungere:
è necessario superare ogni tensione particolaristica e ogni spirito di
setta.
Noi crediamo nella necessità di “unirsi al popolo per unire il
popolo” nella guerra di classe per il comunismo.
E in questa prospettiva combattiamo e lottiamo per l’unità del
movimento rivoluzionario.
Da “Lotta armata per il comunismo”
CRISI E RIVOLUZIONE
Alcuni compagni hanno realizzato quest'approfondimento politico-economico sulla
prima parte della “Risoluzione della Direzione Strategica” di aprile.
Lo presentiamo a tutta l’organizzazione per la discussione e lo studio.
Per affrontare l’analisi della crisi economica attuale sono necessari
alcuni accenni al problema dell’accumulazione.
Questo problema è stato fra i più dibattuti perché a seconda
della soluzione che se ne da, ne deriva una diversa interpretazione della crisi
e delle cause che la determinano.
Per i riformisti le crisi del capitale sono puri accidenti, eliminabili attraverso
una “giusta programmazione” del capitalismo.
Per essi il passaggio al Socialismo si pianifica mediante uno sviluppo equilibrato
del capitalismo.
Ma per i rivoluzionari:
“ La critica non è una passione del cervello, ma è il cervello
della passione. Essa non è un coltello da anatomico, ma un’arma.
Il suo oggetto è il suo nemico, ed essa non vuole confutarlo, ma annientarlo,
perché lo spirito di quelle condizioni di vita è già confutato”
(K. Marx).
Allora per i rivoluzionari che usano l’analisi marxista le crisi fanno
parte della natura stessa del Capitale e sono necessarie al suo sviluppo.
E’ nella crisi che si pone concretamente la possibilità della conquista
del potere.
Per i rivoluzionari, affinché i rapporti di produzione capitalistici
possano essere distrutti, è necessario l’intervento di chirurgia
ostetrica della Rivoluzione.
1. IL PROBLEMA DELL’ACCUMULAZIONE
Se analizziamo il processo di riproduzione, e quindi l’accumulazione
del Capitale Sociale, cioè del capitale complessivo della società,
ci troviamo immediatamente di fronte ad una contraddizione: come può
il plusvalore sociale, che è sotto forma di merci, trasformarsi in denaro
e poi riconvertirsi in nuovi mezzi di produzione (mezzi di produzione addizionali)
e nuova forza lavoro, dati i rapporti di mercato capitalistici, e quindi come
può, aversi una riproduzione allargata, che è la base ed il fine
del sistema capitalistico?
Consideriamo il Capitale Sociale C = c + v + pv nel suo processo di riproduzione;
possiamo distinguerlo in due sezioni, la sezione I, a cui appartengono tutti
i capitali che producono mezzi di produzione (macchine, etc. ..) e la sezione
II a cui appartengono i capitali che producono beni di consumo, che entrano
cioè nel consumo individuale dell’operaio e del capitalista. Dal
punto di vista del mercato avremo una domanda di mezzi di produzione uguale
a (c) e di beni di consumo uguale a (v + pv/x), dove con (pv/x) indichiamo la
parte di plusvalore consumata sotto forma di beni di consumo dai capitalisti.
Resta quindi sempre una parte del plusvalore (cioè pv — pv/x) che
a prima vista non può realizzarsi all’interno del mercato, cioè
attraverso la vendita convertirsi in denaro e trasformarsi poi in mezzi di produzione
addizionali.
In tal modo, ogni accumulazione, e così pure ogni processo di riproduzione
allargata, appaiono impossibili in un ambiente esclusivamente capitalistico.
Gli economisti borghesi (da Ricardo, alla scuola riformista tedesca di Otto
Bauer, fino ai giorni nostri) danno a questo problema una risposta apparentemente
semplicissima: i capitalisti si scambiano tra di loro i mezzi di produzione
e i beni di consumo eccedenti, in tal modo possono allargare la produzione all’infinito,
tranquillamente e senza scosse (confondendo così la produzione capitalistica
che è produzione di merci-valori di scambio - in produzione di valori
d’uso).
Secondo costoro quindi le crisi di sovrapproduzione, che periodicamente sconvolgono
il sistema capitalistico, sono crisi di sproporzionalità, dovute al fatto
che una delle due sezioni del capitale sociale ha prodotto troppo rispetto ai
bisogni dell’altra, quindi con una buona programmazione (se è “democratica”
tanto meglio) il sistema capitalistico potrebbe soddisfare crescendo progressivamente
senza crisi, tutti i bisogni della “società”. Da qui i socialdemocratici
tedeschi del primo novecento (Bernstein & Company) ricavarono la conclusione
che la rivoluzione non è necessaria, perché inserendosi gradualmente
nelle strutture statuali borghesi e introducendovi l’idea “geniale”
della programmazione si può giungere tranquillamente al Socialismo.
(I vari Berlinguer nostrani ci appaiono più odiosi dei riformisti di
allora semplicemente perché vogliono propinarci le stesse cazzate, senza
avere la loro dignità teorica).
Non occorre perdere troppo tempo per dimostrare i profondi errori insiti in
tale posizione. Già Marx Io ha fatto a più riprese, dimostrando
l’inconsistenza teorica di quegli economisti borghesi (Ricardo, Say, etc.)
da lui definiti “apologeti del capitalismo” (come si vede sul fronte
del riformismo niente di nuovo da 150 anni almeno). Ci limitiamo a riportare
alcuni brani dl Marx.
“L’idea (propriamente appartenente a J. Muli) di quell’insulso di Say, adottata da Ricardo, che non sia possibile alcuna sovrapproduzione o almeno nessuna saturazione generale del mercato, poggia sulla tesi che i prodotti sono scambiati contro prodotti (“Teorie del plusvalore” vol. 11, pag. 534, Ed. Riuniti).
“Non va mai dimenticato che nella produzione capitalistica non si tratta direttamente del valore d’uso, ma del valore di scambio e precisamente dell’aumento del plusvalore. Questo è il motivo motore della produzione capitalistica ed è una bella concezione quella, che per abolire le contraddizioni della produzione capitalistica, fa astrazione dalla sua base e la rende una produzione indirizzata al consumo immediato dei produttori)” (Ibidem pag. 536).
“In Ricardo in primo luogo una merce in cui esiste l’antitesi fra valore di scambio e valore d’uso, viene trasformata in semplice commercio di scambio di prodotti, semplici valori d’uso. Si retrocede di fronte non solo dietro la produzione capitalistica, ma sin anche dietro la semplice produzione di merci, e il fenomeno più complicato della produzione capitalistica — la crisi del mercato mondiale — viene negato, negando la condizione prima della produzione capitalistica, cioè che il prodotto è merce, perciò deve rappresentarsi come denaro e passare attraverso il processo di metamorfosi cioè il processo di compravendita ... anche il denaro viene allora conseguentemente concepito come semplice intermediario dello scambio dei prodotti, non come una forma di esistenza essenziale e necessaria della merce che deve rappresentarsi come valore di scambio-lavoro generale sociale” (ibidem pag. 543).
“Anzitutto ‘il possesso di altri beni’ non è lo scopo della produzione capitalistica, ma ]‘appropriazione di valore, di denaro, di ricchezza astratta” (ibidem, pag. 545).
Contrapponendosi alle tesi riformiste del suo tempo (che dicevano
che il capitalismo grazie alla struttura monopolistica si sarebbe sviluppato
senza crisi e sarebbe arrivato “naturalmente” al socialismo, rendendo
quindi inutile la rivoluzione), la Luxemburg ne fa una critica serratissima
e dimostra che l’accumulazione capitalistica non può procedere
senza crisi. Ma il problema dell’accumulazione da ugualmente una risposta
sbagliata, affermando che “l'accumulazione in un ambiente esclusivamente
capitalistico è impossibile” (“Un'anticritica” in “L’accumulazione
del capitale” p. 583) e quindi che l’accumulazione è possibile
solo fino a quando esistono al di fuori del sistema capitalistico aree economiche
non-capitalistiche, con le quali poter scambiare il plusvalore eccedente. In
realtà la Luxemburg anche se sottolinea sempre che il suo è da
considerarsi un contributo all'analisi marxista e non una revisione, mette in
discussione tutta la teoria di Marx, perché Marx parte sempre dal presupposto
che vi sia “il dominio generale ed esclusivo del capitalismo” e
che in tale sistema l’accumulazione possa avvenire.
Dalla sua analisi la Luxemburg trae la conclusione che il capitalismo, avendo
ormai occupato quasi tutta l’area mondiale, era vicinissimo al punto in
cui l’accumulazione non sarebbe più stata possibile e quindi sarebbe
automaticamente crollato (definisce infatti l’imperialismo “espressione
politica del processo di accumulazione del capitale nella sua lotta di concorrenza
intorno ai residui di ambienti non-capitalistici non ancora posti sotto sequestro”
in “L’accumulazione del capitale” p. 447).
L’errore principale commesso dalla Luxemburg è quello di considerare
il capitale sociale come capitale unico e il saggio generale del profitto come
saggio unico di profitto. Con queste premesse è chiaro come l’accumulazione
in un ambiente esclusivamente capitalistico non possa avvenire. Marx afferma
infatti nei Grundrisse:
“Un capitale universale che non abbia di fronte a sé altri capitali con cui scambiare — e dall’attuale punto di vista egli non ha di fronte a sé altro che il lavoro salariato e se stesso — è perciò un assurdo. La repulsione reciproca dei capitali è già implicita nel capitale in quanto valore di scambio realizzato” (Gnindrisse vol. 11, p. 28, Ed. La Nuova Italia).
L’accumulazione in un ambiente capitalistico avviene proprio perché il capitale sociale è una molteplicità di capitali e il saggio generale del profitto è la media di vari saggi particolari di profitto. In tal modo attraverso la lotta di concorrenza fra i vari capitali (i capitali a composizione organica più elevata realizzano, a danno dei capitali a più bassa composizione organica, il valore contenuto nelle loro merci ed anche un sovrapprofitto), si attua l’accumulazione del capitale sociale nel suo complesso. Sempre dai Grundrisse:
“Concettualmente la concorrenza non è altro che
la natura interna del capitale, la sua determinazione essenziale che si presenta
e si realizza come azione e reazione di una molteplicità di capitali
l’uno sull’altro, la tendenza interna non necessita esterna. Il
Capitale esiste e può esistere soltanto come molteplicità di capitali
e perciò la sua autodeterminazione si presenta come azione e reazione
reciproca” (Ibidem p. 17).
E ancor più chiaramente in seguito:
“ Riguardo al suo operaio il capitalista sa bene che egli non gli sta di fronte come produttore e consumatore e perciò desidera restringere il più possibile il suo consumo, vale a dire la sua capacità di scambio, il suo salario. Egli si augura naturalmente che gli operai degli altri capitalisti siano il più possibile grandi consumatori della sua merce. Ma il rapporto di ciascun capitalista rispetto ai suoi operai è il rapporto generale tra capitale e lavoro, che è il rapporto essenziale. Ma l’illusione — vera per il singolo capitalista distinto da tutti gli altri, per cui al di fuori dei suoi operai tutto il resto della classe operaia gli sta di fronte in veste di consumatore e di soggetto di scambio, cioè di spenditore di denaro, non come operaio — questa illusione dicevamo nasce proprio da questo. Cioè si dimentica che come ha detto Malthus “proprio l’esistenza di un profitto su una merce presuppone una domanda esterna a quella del lavoratore che la ha prodotta”, e perciò la domanda di questo stesso operaio non può mai essere adeguata. Poiché una produzione mette in moto un’altra e perciò si procura dei consumatori negli operai del capitale altrui, ecco che per ogni singolo capitale la domanda della classe operaia, che è creata attraverso la produzione stessa, figura come domanda adeguata” (ibidem, p. 26).
Non solo l’accumulazione continua ad avvenire nella fase del “dominio
generale-assoluto del capitale” ma in questa fase l’accumulazione
avviene su una base produttiva più estesa e tra contraddizioni crescenti.
Proprio dal concentrarsi di queste contraddizioni e dal fatto che esse non possono
più essere contenute all’interno dei rapporti economici esistenti,
non solo nascono le crisi, ma ora esse sono sempre più grandi e distruttive.
Le crisi del mercato mondiale devono essere concepite come il concentramento
reale e la perequazione violenta di tutte le contraddizioni dell’economia
borghese” (teorie sul plusvalore” p. 552).
Tra tutte le contraddizioni quella tra produzione e consumo sulla base dei rapporti
capitalistici è certamente molto importante. E’ essa infatti che
costituisce la condizione della sovrapproduzione e quindi racchiude già
la possibilità della crisi (la possibilità, ma non la necessità
che va ricercata nella produzione del plusvalore e non nella sua realizzazione).
“La sovrapproduzione in modo speciale ha per condizione la legge generale
di produzione del capitale, di produrre nella misura delle forze produttive,
cioè della possibilità di sfruttare, come una data massa di capitale,
una massa di lavoro la più grande possibile senza riguardo per i limiti
di mercato esistenti o per i bisogni solvibili, e di realizzare questo per mezzo
di un continuo allargamento della riproduzione e della accumulazione, mentre
d’altro canto la massa dei produttori rimane limitata alla misura media
dei bisogni e deve restare limitata secondo l’organizzazione della produzione
capitalistica” (Ibidem p. 577).
Comunque la Luxemburg ha intuito (anche se ne ha poi dato una
soluzione teorica sbagliata) che dal momento in cui il capitalismo completa
l’occupazione dell’area mondiale e si ha quindi “il dominio
generale ed esclusivo del capitalismo” le sue contraddizioni esplodono
in tutta la sua violenza.
Questo non significa però che il capitalismo, giunto a questo punto,
debba automaticamente distruggersi; significa solo che sviluppandosi oltre produce
contraddizioni sempre più favorevoli alla rivoluzione proletaria, che
la rivoluzione è sempre più necessaria.
2. TEORIA DELLA CRISI
Abbiamo visto precedentemente come nel processo di riproduzione
allargata, e quindi nell’accumulazione, sono già insite tutta una
serie di contraddizioni che determinano la possibilità delle crisi, cioè
è possibile che ad un certo momento dello sviluppo tutte queste contraddizioni
sfocino violentemente in un processo di crisi. Ora ciò che vogliamo dimostrare
è che la crisi non solo è possibile, ma all’interno dei
rapporti capitalistici è necessaria, che lo sviluppo capitalistico, la
sua accumulazione può avvenire solo attraverso successivi momenti di
crisi.
La possibilità generale della crisi è la metamorfosi formale del
capitale stesso (cioè il fatto che la merce deve essere trasformata in
denaro), la separazione temporale e spaziale di compra e vendita.
Ma questa non è mai la causa della crisi. Perché non è
altro che la forma più generale della crisi, quindi la crisi stessa nella
sua espressione più generale. Si cerca la sua causa, si vuole appunto
sapere perché la sua forma più astratta, la forma della sua possibilità,
dalla possibilità diventa realtà. (ibidem, p. 587).
Prima di affrontare direttamente questo problema alcune precisazioni.
Quando si parla di sovrapproduzione di capitale non s'intende semplicemente
sovrapproduzione di merci individuali (quantunque la sovrapproduzione di capitale
determini sempre sovrapproduzione di merci), ma sovraccumulazione di capitale,
cioè sovrapproduzione di mezzi di produzione e di sussistenza, in quanto
questi possano operare come capitale.
“Vengono periodicamente prodotti troppi mezzi di lavoro e di sussistenza, perché possano essere impiegati come mezzi di sfruttamento degli operai ad un determinato saggio di profitto. Vengono prodotte troppe merci, perché il valore ed il plusvalore che esse contengono possano essere realizzati e riconvertiti in nuovo capitale, e nei rapporti di distribuzione e di consumo inerenti la produzione capitalistica, ossia perché questo processo possa compiersi senza continue esplosioni. Non viene prodotta troppa ricchezza. Ma periodicamente viene prodotta troppa ricchezza nelle sue forme capitalistiche, che hanno un carattere antitetico” (Capitale III (I) p. 315).
Si ha sovrapproduzione relativa quando la sovrapproduzione abbraccia un settore produttivo o solo alcuni settori, sovrapproduzione assoluta quando investe l’intera area capitalistica; inoltre la sovrapproduzione relativa prepara sempre la sovrapproduzione assoluta, per cui la nostra analisi si riferisce alla sovrapproduzione assoluta.
“Si avrebbe una sovrapproduzione assoluta di capitale qualora il capitale addizionale delta C destinato alla produzione capitalistica fosse uguale a zero. Ma lo scopo della produzione capitalistica è l’autovalorizzazione del capitale, ossia l’appropriazione del plusvalore, la produzione di plusvalore, di profitto. Non appena dunque il capitale fosse accresciuto in una proporzione tale rispetto alla popolazione operaia, che né il tempo di lavoro assoluto fornito da questa popolazione operaia potesse essere prolungato, né il tempo di plusvalore relativo potesse essere esteso (quest’ultima eventualità non sarebbe d’altro lato possibile nel caso in cui la domanda di lavoro fosse così forte da determinare una tendenza di rialzo dei salari), quando dunque il capitale accresciuto producesse una massa di plusvalore soltanto equivalente od anche inferiore a quella prodotta prima del suo accrescimento, allora si avrebbe una sovrapproduzione assoluta di capitale; ossia il capitale accresciuto C più delta C non produrrebbe un profitto maggiore o produrrebbe un profitto minore di quello dato dal capitale C, prima del suo accrescimento di delta C” (Capitale voi. III (I) p. 307-308).
Il processo d'accumulazione capitalistica si attua con un aumento
continuo della composizione organica del capitale sociale, quindi con una diminuzione
tendenziale del saggio di profitto (Il plusvalore cresce sempre meno del capitale
anticipato (c + v).
Si giunge perciò necessariamente un certo momento del processo in cui,
supponendo che il plusvalore assoluto e il plusvalore relativo non possano più
essere estesi, la massa del plusvalore sociale è diventata troppo piccola
rispetto al capitale complessivo accumulato, e quindi questa massa di plusvalore
non è più in grado di valorizzare l’intera base produttiva,
per cui l’accumulazione, il processo di riproduzione allargata, deve interrompersi.
E’ quindi la legge fondamentale dello sviluppo capitalistico la caduta
del saggio di profitto, che determina la necessità della crisi.
“Lo sviluppo della forza produttiva del lavoro, determinando la caduta del saggio di profitto, genera una legge che, ad un datò momento, si oppone inconciliabilmente al suo sviluppo e che quindi essere superata per mezzo di crisi” (ibidem p. 315).
All’interno dell’area investita dalla sovrapproduzione assoluta, si ha una crisi generale della struttura produttiva e creditizia. Solo una parte del capitale esistente e precisamente quella a composizione organica più elevata, quindi più concorrenziale — potrà continuare a valorizzarsi concentrandosi a spese degli altri capitali, mentre un’altra parte è esportata al di fuori dell’area, in zone ove il saggio di profitto è più alto e può essere investito più produttivamente (base economica della nascita dell’imperialismo).
“Quando il capitale C viene inviato all’estero questo non avviene perché sia assolutamente impossibile impiegarlo nel paese, ma perché all’estero può venire impiegato ad un saggio di profitto più elevato. Ma questo capitale è effettivamente superfluo rispetto alla popolazione operaia occupata e a quel determinato paese in generale, come tale esso sussiste accanto ad un relativo eccesso di popolazione e, fornisce un esempio di come questi due fenomeni coesistono e sono dipendenti tra di loro” (ibidem, p.3 13).
In tal modo il capitale supera la crisi aumentando il suo grado di concentrazione, cioè con una maggior concentrazione organica, e ampliando la sua base produttiva e di mercato mediante l’allargamento dell’area stessa.
“E a partire da questo momento il medesimo circolo vizioso verrebbe ripetuto con mezzi di produzione più considerevoli, con un mercato più esteso e con una forza produttiva più elevata” (Ibidem p. 312).
E’ quindi attraverso successivi momenti di crisi che il capitalismo estende sempre più il suo dominio e questa tendenza all’espansione è una necessità che deriva dal suo nodo di produzione stesso. Il capitalismo non può esistere senza espansione. E’ evidente allora che dal momento in cui il sistema capitalistico distruggendo tutti i modi di produzione precedenti (feudalesimo, ecc.) si è esteso su tutta l’area mondiale (“Inizio del dominio generale ed esclusivo del capitalismo”2 periodo immediatamente precedente la prima guerra mondiale) tutte le sue contraddizioni si inaspriscono ulteriormente. Infatti ora ogni merce è prodotta all’interno di un rapporto di produzione capitalistico, ogni mercato è un mercato capitalistico, per cui ogni capitalista realizza il valore della sua merce sempre più a spese di un altro capitalista: allora i monopoli diventano necessari e indispensabili per stabilire il controllo del mercato e la “libera concorrenza” diviene una concorrenza sempre più feroce tra monopoli; la composizione organica dei capitali si eleva sempre più velocemente, per aumentare il plusvalore estorto e diminuire i prezzi delle proprie merci; la caduta del saggio di profitto è sempre più rapida e le crisi sono sempre più distruttive e catastrofiche, l’allargamento della base produttiva di un’area in crisi può avvenire soltanto occupando un’altra area capitalistica e quindi le guerre interimperialistiche per una nuova spartizione del mondo diventano indispensabili per ogni ulteriore sviluppo. Mai come ora l’essenza del modo di produzione capitalistico “produrre per distruggere, distruggere per poter produrre” appare in tutta la sua assurdità.
3. LA CRISI ECONOMICA ATTUALE
L’attuale crisi economica che coinvolge il sistema capitalistico nel suo complesso è crisi di sovrapproduzione assoluta di capitale rispetto all’intera area capitalistica occidentale. Per capirne a fondo la specificità e quindi gli sbocchi inevitabili che dovrà assumere, sono indispensabili alcune considerazioni.
Il capitale monopolistico multinazionale
L’esito del secondo conflitto mondiale ha determinato
la spartizione del mondo in due grandi aree: quella occidentale, sotto il dominio
dell’imperialismo USA, e quella orientale, sotto il dominio del socialimperialismo
URSS. Se elemento costitutivo fondamentale dell’imperialismo è
stato sin dal suo sorgere il capitale monopolistico, è solo però
con la II guerra mondiale che si ha il definitivo affermarsi su tutta l’area
occ. del capitale monopolistico multinazionale: i grandi gruppi monopolistici
superano definitivamente i loro confini nazionali per spaziare liberamente su
tutta l’area, anzi la struttura multinazionale diventa ora fattore necessario
ed indispensabile per ogni ulteriore possibilità di accumulazione3. E’
infatti grazie alla struttura multinazionale che si possono sfruttare pienamente
i diversi saggi di profitto presenti nell’area, e realizzare così
quegli enormi sovrapprofitti che sono il dato caratteristico dell’accumulazione
nella fase imperialistica.
Le varie aree nazionali sopravvivono ora come retroterra delle multinazionali.
Cioè per ogni multinazionale l’area nazionale, in cui essa è
nata e si è sviluppata, diventa il suo punto di forza, la zona in cui
essa gode di una posizione di monopolio quasi incontrastato. Quando parliamo
di multinazionali quindi sottintendiamo sempre multinazionali con polo nazionale
e per esemplificare usiamo i termini multinazionali americani, tedesche, ecc.;
così pure quando parliamo di dominio dell’imperialismo USA sull’area
occ. intendiamo dominio delle multinazionali americane (a conferma di questo
dominio è sufficiente un dato: nel 1974 tra le 100 multinazionali più
forti 80 erano americane)!
In questa fase quindi nell’area occ. la contraddizione intercapitalistica
principale non è più tra aree nazionali (come è stato fino
alla II guerra mondiale) ma tra grandi gruppi multinazionali. Con questo non
vogliamo negare l’esistenza anche di contraddizioni tra le varie “nazioni”
capitalistiche, ma pensiamo che queste contraddizioni siano sempre il riflesso
di contraddizioni ben più profonde tra gruppi multinazionali.
Il passaggio alla struttura multinazionale come fattore stabile e necessario,
ha determinato inoltre un notevole sviluppo delle forze produttive su scala
mondiale. Si è elevata la composizione organica media e si è accelerata,
di conseguenza, la velocità di caduta del saggio generale del profitto.
Tutto ciò ha aggravato ulteriormente le contraddizioni capitalistiche
ed avrebbe portato ancor più velocemente a crisi ed esplosioni violente
del tessuto economico, se non fossero intervenute una serie di controtendenze
a rallentarne lo sviluppo.
Si badi bene: per controtendenze intendiamo un insieme di fenomeni che, tentando
di opporsi all’esplosione delle contraddizioni, possono tutt’al
più frenarne lo sviluppo, ma non negarle. Possono, cioè ritardare
la crisi, ma non evitarla (tutto ciò è confermato dal fatto che
nonostante tutti gli sforzi dei vari “esperti” borghesi il sistema
è precipitato ugualmente in una crisi violentissima). Tra queste controtendenze
ne analizziamo due: la “società dei consumi” e lo “Stato-banca”,
perché da parte borghese se ne fa un gran parlare come di “toccasana”
che dovrebbero risolvere tutte le contraddizioni del capitalismo e da parte
riformista si tenta addirittura di contrabbandarle come grandi innovazioni che
possono portare, “se ben guidate”, al socialismo.
LA SOCIETA’ DEI CONSUMI
Già Marx individua come una delle cause che si oppone alla caduta del saggio di profitto, lo sviluppo della produzione di quelli che definisce beni di lusso.
“D’altro lato però sorgono nuove industrie, soprattutto per la produzione dei beni di lusso, le quali si fondano proprio su quella sovrappopolazione relativa che si trova sovente disoccupata in seguito alla preponderanza del capitale costante in altri rami di produzione, poggiano a loro volta sulla preponderanza di quegli elementi di lavoro vivo che solo gradualmente percorrono la stessa evoluzione degli altri rami di produzione. In entrambi i casi il capitale variabile assume una notevole importanza rispetto al capitale complessivo ed il salario rimane al di sotto della media, cosicché tanto il saggio quando la massa del plusvalore risultano eccezionalmente elevati in questi rami di produzione. E poiché il saggio generale del profitto è formato dal livellamento dei saggi di profitto nei particolari rami di produzione, anche in questo caso la medesima causa che provoca la tendenza alla caduta del saggio di profitto agisce da contrappeso a questa tendenza e ne paralizza l’effetto in grado maggiore o minore (Capitale, III (I) p. 290).
L’enorme sviluppo delle forze produttive nell’attuale
fase dei monopoli multinazionali ha reso sempre più acuta la contraddizione
tra aumento della concentrazione capitalistica e dimensioni ristrette della
sua base produttiva che ha portato, in tal modo, a tassi di sovrappopolazione
molto elevati. Sviluppando al massimo nei paesi capitalistici avanzati la produzione
dei beni di lusso (“società dei consumi”), utilizzando a
tal fine gli enorme sovrapprofitti realizzati mediante la struttura multinazionale,
si è cercato di aumentare il più possibile la base produttiva,
e si è ridotta (anche se solo parzialmente) la sovrappopolazione eccedente.
Ma lo stesso sviluppo accelerato delle forze produttive ha fatto scendere molto
velocemente anche in questi rami il saggio di profitto. Il suo effetto di controtendenza
è andato quindi sempre più perdendo di forza e nel momento di
crisi si è trasformato anzi in un fattore di aggravamento della crisi
stessa (infatti le produzioni di “beni di lusso” sono state investite
dalla crisi per prime: basti pensare alla crisi dell’industria automobilistica).
Quindi la “società dei consumi” non è il prodotto
di un capitalismo riformato che tende al socialismo e per questo “innalza
il tenore di vita degli operai”, ma l’estremo tentativo di un capitalismo
sempre più agonizzante che cerca disperatamente di sfuggire alla morsa
delle sue contraddizioni.
LO STATO BANCA
La caduta accelerata del saggio di profitto rende inoltre sempre
più difficile per i grandi gruppi imperialistici reperire all’interno
del loro stesso processo di produzione il capitale necessario alle ristrutturazioni
tecnologiche. Essi quindi sono costretti a ricorrere in misura sempre maggiore
all’indebitamento (nel 68 per le 700 maggiori imprese italiane i debiti
ammontavano al 46% del loro bilancio complessivo, nel 74 sono passati al 55%).
Ma data la grande quantità di capitale finanziario occorrente, diventa
anche sempre più difficile rastrellare questi fondi all’interno
del mercato finanziario (la “ crisi della borsa” è infatti
un elemento endemico e strutturale dei paesi capitalistici più sviluppati)!
Si deve quindi ricorrere a prestiti statali. Lo Stato assume così in
campo economico la funzione di una grande banca al servizio dei gruppi imperialistici
multinazionali. Dal modo con cui lo Stato-banca rastrella a livello sociale
questi capitali necessari (che non sono altro che plusvalore sociale “assegnato”
alle multinazionali) nasce il processo inflazionistico permanente, caratteristico
dell’attuale sviluppo capitalistico.
Gli stessi economisti borghesi sono disposti a riconoscere che l’inflazione
è oggi inseparabile dallo sviluppo capitalistico. Quando però
si tratta di definire le cause o ricorrono a fumose teorie incomprensibili a
loro stessi, oppure si rifanno alla teoria classica di Ricardo.
Secondo essa l’aumento dei prezzi (cioè l’inflazione) sarebbe
determinata da un'eccedenza di banconote rispetto alla quantità delle
merci. Quindi causa dell’inflazione sarebbero le lotte salariali degli
operai che avrebbero fatto aumentare “sconsideratamente” la quantità
delle banconote rispetto alla quantità delle merci.
La tesi politica che si nasconde dietro una simile teoria è fin troppo
evidente: o gli operai lavorano di più aumentando la produzione e quindi
la quantità delle merci prodotte oppure si deve necessariamente aumentare
il prezzo delle merci stesse, per riequilibrare la loro quantità con
la quantità delle banconote.
Marx in “Per la critica dell’economia politica” e nel “Capitale
III (II)” dimostra ampiamente l’inconsistenza scientifica ditali
argomenti. Basti qui ricordare:
a) che la quantità di banconote in circolazione è sempre inferiore
alla quantità di merci (infatti una banconota, in quanto mezzo di circolazione,
fa sempre circolare una quantità di prodotti il cui valore complessivo
è sempre superiore a quello della banconota stessa).
b) che il valore del denaro è determinato dal rapporto tra quantità
di banconote e riserva aurea e non tra quantità di banconote e quantità
di merci.
Quindi può esservi un processo inflazionistico dovuto ad una diminuzione
di valore del denaro (che determina necessariamente un aumento del prezzo delle
merci). Questa diminuzione di valore del denaro è dovuta però
ad una diminuzione della riserva aurea (ad es. una certa quantità di
oro è stata inviata all’estero per pagare debiti internazionali,
e questo fatto compare costantemente nei momenti di crisi) oppure ad un aumento
della quantità di banconote circolanti rispetto alla riserva aurea che
è rimasta invariata. Ora insieme a questo fenomeno inflazionistico “classico”
si ha anche un processo inflazionistico “specifico” dovuto alla
struttura monopolistica dell’economia ed al relativo intervento dello
Stato. Il meccanismo è il seguente: i gruppi monopolistici per contrastare
la caduta del loro saggio di profitto, alzano i prezzi delle loro merci (possono
farlo proprio grazie alla struttura monopolistica che gli permette di stabilire
un controllo sui mercati) e data la centralità dei monopoli nel tessuto
economico complessivo un aumento di prezzo delle loro merci determina un processo
inflazionistico generale; lo Stato con la “politica dei redditi”
camuffata dietro paraventi che si chiamano di volta in volta “compatibilità”,
“salvaguardia dell’interesse nazionale”, ecc., e attuata con
il consenso più o meno esplicito dei sindacati e dei partiti “operai”,
tenta di fissare un limite massimo ai salari operai. Contemporaneamente, mediante
l’aumento della tassazione diretta e indiretta, che si traduce sempre
in un aumento dei prezzi al consumo, esso rastrella quel plusvalore sociale
che attraverso il “credito agevolato” convoglia verso i gruppi monopolistici
(lo Stato diventa cioè il regolatore del saggio generale del profitto).
Si crea così “coscientemente” un processo inflazionistico
“controllato” che erode i redditi di strati piccoli e medio borghesi
(i cosiddetti ceti parassitari) e che soprattutto determina una riduzione progressiva
del salario reale operaio (il che equivale ad estrazione di plusvalore da parte
questa volta del capitalista-Stato).
Che questo processo inflazionistico sia inevitabile lo ammettono, anche se a
denti stretti, gli stessi borghesi:
“E’ inevitabile che l’economia americana cresca più
lentamente che nel passato. Le città e gli stati, il mercato ipotecario,
i piccoli affari e i consumatori riceveranno tutti di meno di quanto vorrebbero,
perché la salute degli USA dipende essenzialmente dalla salute delle
grandi imprese e banche: i grandi creditori e i grandi debitori. Eppure sarà
una pillola amara da ingoiare per molti americani l’idea di disporre di
meno perché le grandi imprese possano disporre di più. E ciò
soprattutto perché è del tutto evidente che se le grandi banche
e le grandi imprese sono le vittime più appariscenti dei mali dell’inflazione,
ne sono anche in larga misura la causa” (da “Business Week”
del 12/10/74).
L’intervento dello Stato nell'economia quindi, ben lungi dal presentarsi
come “il portatore delle istanze di progresso e di rinnovamento di tutta
la società”, ne fa emergere sempre più chiaramente la sua
funzione di garante dello sviluppo capitalistico, la sua natura specifica di
strumento di classe.
Nella crisi attuale gli “strumenti inflazionistici” sono utilizzati
al massimo grado (infatti l’inflazione ha raggiunto tassi di aumento del
20%); sempre più frequentemente grandi gruppi monopolistici alzano, con
la preventiva autorizzazione dello Stato, il prezzo delle loro merci (vedi gli
ultimi “ritocchi di listino” Fiat-Montedison-Pirelli), la tassazione
diretta e indiretta è ogni giorno più pesante (“riforma
fiscale”, aumenti dei telefoni, dei trasporti, ecc.!), il credito agevolato
è sempre più selettivo (nel 1974 in Italia 9 grandi imprese da
sole si sono aggiudicate il 55% dei prestiti a lungo e medio termine ed il tasso
medio sui debiti onerosi, cioè gli interessi che si devono pagare sui
prestiti a breve termine, è stato per le migliaia di imprese di piccole
dimensioni del 19%, mentre per le 700 imprese di grandi dimensioni dell’11,4%;
inoltre rispetto al 73 per le piccole imprese è aumentato di ben l’8%,
da 11% a 19%, mentre per le grandi imprese solo del 3,7%, da 7,7% a 11,4%).
(Dalla relazione annuale di Mediobanca).
Gli economisti borghesi fanno infatti un gran affidamento sull’intervento
dello Stato per risolvere la crisi attuale. Felix G. Rohatyn, dello staff dirigente
di molte grandi multinazionali tra cui L’ITT, scrive sul “New York
Times” dell’1.12.74: “La RFC (è come il nostro IRI)
deve diventare parte integrante della nostra struttura economica, non solo fornitore
di crediti in ultima istanza ma uno strumento di salvataggio e di stimolazione.
Essa non dovrebbe investire permanentemente in una determinata singola impresa.
Dovrebbe rimanere un ente d'investimenti o sul piano della compartecipazione
o come creditore, fino a quando possa, nel pubblico interesse, disimpegnarsi
dall’impresa in cui investe e immettere i mezzi finanziari nei normali
canali di mercato o fino a quando i meccanismi di mercato siano in grado di
funzionare efficacemente.
La RFC dovrebbe quindi di fatto divenire un fondo circolante che interviene
dove non esistono altre alternative e che si ritira quando il pubblico interesse
è stato servito e possono di nuovo operare le normali forze di mercato”.
Come sempre i borghesi vedono la crisi come “crisi finanziaria”
determinata dalla “sproporzionalità” degli investimenti e
s'illudono quindi che con investimenti addizionali attuati dallo Stato (il capitalista
sociale) si possa “riproporzionare” il sistema. Ma l’aspetto
finanziario è solo la forma immediata in cui si presenta la crisi, è
un suo effetto, per cui intervenendo a questo livello s'influisce su un aspetto
secondario non sulla causa della crisi (che è la sovrapproduzione di
capitale rispetto al basso saggio di profitto).
L’intervento dello Stato ha evitato infatti il grande crollo finanziario
tipo '29, ma ha prodotto in compenso il risultato:
a) che la crisi finanziaria, invece di presentarsi immediatamente concentrata
in tutta la sua esplosività, percorre strettamente sviluppata lo svolgersi
della crisi;
b) che la concentrazione capitalistica avviene in modo “pianificato”
ma non per questo meno violento e caotico che se fosse lasciata ai normali meccanismi
di mercato (sono sotto gli occhi di tutti i milioni di disoccupati, i fallimenti
sempre più frequenti di aziende piccole e grandi, ecc.);
Per questo siamo fermamente convinti che questi provvedimenti sortiranno l’effetto
contrario a quello sperato: cercando di diluire le contraddizioni senza poterle
risolvere, in realtà le concentrano in misura sempre maggiore facendole
diventare sempre più esplosive.
Le prime avvisaglie della crisi si ebbero alla fine degli anni ‘60 con
i forti contrasti tra le potenze capitalistiche occidentali nel campo finanziario
(la convertibilità del dollaro, la rivalutazione dell’oro, la ridefinizione
dei trattati di Bretton-Woods, ecc.).
La situazione andò poi aggravandosi progressivamente fino a precipitare
nel ‘73, anno in cui inizia il crollo contemporaneo della produzione industriale
in tutti i paesi capitalistici occidentali; dal 73 a metà del ‘75
si è avuto il seguente calo della produzione:
Stati Uniti - 16%
Germania occ. - 15%
Francia - 12%
Giappone - 31%
Gran Bretagna - 8%
Italia - 17%
(questi fatti da soli dimostrano nel modo più evidente
come la crisi attuale sia crisi di sovrapproduzione assoluta di capitale rispetto
alla intera area occidentale e cancellano di un sol colpo tutte le “idiozie
finanziarie” degli esperti borghesi).
All’imperialismo occidentale si pone quindi di nuovo il dramma ricorrente
della produzione capitalistica: ampliare la sua area per poter ampliare la sua
base produttiva.
Infatti rimanere ancora rinchiuso nell’area occidentale, significa per
il capitalismo accumulare contraddizioni sempre più laceranti: la concentrazione
crescerebbe in modo acceleratissimo, il saggio di profitto raggiungerebbe valori
bassissimi, la base produttiva sarebbe sempre più ristretta, la disoccupazione
aumenterebbe notevolmente. A brevissimi e apparenti momenti di ripresa seguirebbero
perciò fasi recessive sempre più gravi. Si avrebbe un processo
di crisi permanente e sempre più distruttivo. Gli economisti borghesi
che sperano in un rilancio della produzione in USA, Giappone, Germania Occ.,
che determini “per simpatia” una ripresa produttiva di tutta l’area
occidentale, non capiscono che la ripresa dei paesi capitalistici più
forti può avvenire solo a spese di quelli più deboli.
Questo “rilancio” aggraverebbe quindi ulteriormente le contraddizioni.
Si pone perciò all’imperialismo occidentale la necessità
improrogabile di allargare la sua area. Questo allargamento può avvenire
solo a spese dell’area socialimperialista e porterà perciò
inevitabilmente allo scontro diretto USA-URSS (Polo centrale di questo scontro
sarà l’Europa). Gli scontri parziali a cui stiamo assistendo (Medio
Oriente, Portogallo, ecc.) non sono che i prodromi dell’imminente scontro
generale.
Questa è la prospettiva storica che il capitale monopolistico pone a
breve termine a se stesso e al movimento rivoluzionario. All’interno di
questa prospettiva la posizione del proletariato non può che presentarsi
come urto generale e decisivo con il dominio capitalistico e la sua direttiva
tattica non può che essere fissata da questa prospettiva storica: O GUERRA
DI CLASSE NELLA METROPOLI IMPERIALISTA O TERZA GUERRA IMPERIALISTA MONDIALE.
4. STRUTTURA DI CLASSE NELLA
FASE DEI MONOPOLI MULTINAZIONALI
“L’accumulazione del capitale si realizza in un
costante mutamento qualitativo della sua composizione, in un costante aumento
della sua parte costitutiva costante … questa diminuzione relativa della
parte costitutiva variabile, accelerata con l’aumento del capitale totale
e più rapida della sua propria crescita, si presenta invece dall’altro
lato come una crescita assoluta della popolazione operaia sempre più
rapida di quella del capitale variabile, dei mezzi cioè che le danno
lavoro.
L’accumulazione capitalistica piuttosto produce in continuazione, ed esattamente
in rapporto alla propria energia e alla propria entità, ( ... una popolazione
operaia relativa), o piuttosto (una sovrappopolazione operaia relativa), cioè
eccedente le esigenze medie di valorizzazione del capitale, quindi superflua
ossia supplementare” (Capitale I, p. 456-6 Ed. Newton-Compton).
Questa è la legge della popolazione specifica del modo
di produzione capitalistico.
L’alto livello di composizione organica dell'attuale fase dei monopoli
multinazionali determina tassi di sovrappopolazione relativa estremamente elevati
e nei paesi capitalistici più sviluppati ci troviamo addirittura in presenza
di una tendenza alla diminuzione assoluta della popolazione attiva e, all’interno
di essa, alla diminuzione degli operai. Alcuni dati.
ITALIA
1901-1921: la popolazione attiva pur aumentando in valore assoluto
scende dal 48% al 46,5% della popolazione totale con una diminuzione percentuale
di 1,5%
1921-1938: dal 46,5% al 42,8%, con una diminuzione percentuale di 3,7% (continua
però ad aumentare in valore assoluto)
1951-1971: dal 41,7% al 35,5% con una diminuzione percentuale del 6,2%
Come si vede il tasso di popolazione attiva è andato
diminuendo con velocità sempre crescente (quindi il tasso di sovrappopolazione
relativa è aumentato sempre più velocemente), arrivando a toccare
la punta più alta di 6,2% negli ultimi venti anni.
Nel periodo 1951-71 abbiamo per la prima volta una diminuzione assoluta della
popolazione attiva che passa da 19.800.000 nel 51, a 19.600.000 nel 61, a 19.500.000
nel 71.
Il numero degli operai (industria, edilizia, agricoltura) nel periodo 1961-71
(e proprio in questa fase si formano e si sviluppano in Italia i primi grossi
monopoli multinazionali, es. Montedison ecc.) diminuisce per la prima volta
in valore assoluto, passando da 8.400.000 a 7.200.000. Inoltre per la prima
volta il numero degli operai dell’industria resta costante in un decennio
di espansione economica (1961: 4.300.000 — 1971: 4.300.000) e questo significa
già di per sé una tendenza alla diminuzione. Infatti se analizziamo
più specificatamente i dati, vediamo che in Lombardia regione pilota
della economia nazionale, nel periodo 63-68 (fase di notevole espansione economica)
abbiamo una diminuzione assoluta degli operai dell’industria (-80.000
unità) (da uno studio di Sylos Labini pubblicato su Quaderni di sociologia
n. 4,1972).
USA
Fase d'espansione economica. La classe operaia della industria
tessile diminuisce del 33%; nei settori metallurgico, legno, distillerie, calzature
si ha una caduta dell'occupazione oscillante dal 10 al 25%.
(da “ Lavoro e occupazione in Usa” di Harry Bravermann, Monthley
Rewiew, Luglio 1975).
Per tentare di mantenere elevata la popolazione attiva assistiamo
nei paesi capitalistici più sviluppati ad un’espansione dei lavori
“improduttivi” (servizi, commercio, ecc.) e ciò può
essere fatto grazie a sovrapprofitti ma nonostante tali espedienti essa tende
costantemente a diminuire in valore assoluto.
Rispetto alla popolazione quindi, lo sviluppo capitalistico nella fase dei monopoli
multinazionali è caratterizzato dalla tendenza alla diminuzione assoluta
della popolazione attiva, ed in particolare del numero degli operai e dal progressivo,
aumento di quella parte della popolazione definitivamente esclusa dal processo
produttivo (gli emarginati).
Ciò comporta modificazioni tendenzialmente stabili del tessuto di classe.
Classe operaia
Se per la classe operaia si manifesta la tendenza alla diminuzione assoluta, si deve però tenere ben presente che questa diminuzione è accompagnata da una concentrazione e un livellamento sempre crescenti della classe operaia stessa quindi da una crescita di forza e combattività.
Esercito di riserva
“Alla produzione capitalistica non è assolutamente sufficiente la quantità di forza lavorativa che mette a disposizione il naturale aumento della popolazione. Per godere di un libero gioco le è indispensabile tendenza alla diminuzione assoluta, si deve però tenere ben presente che questa diminuzione è un esercito industriale di riserva indipendente da questo limite naturale” (Capitale I, p. 469, ed. N.C.).
L’esercito di riserva assolve cioè la funzione
di serbatoio regolatore della forza-lavoro rispetto alle esigenze di sviluppo
del capitale (nei momenti di crisi si espande, nei momenti di boom viene riassorbito
dallo sviluppo della produzione).
Nella sua forma “classica” si presenta come sovrappopolazione fluttuante,
latente, stagnante.
La sovrappopolazione stagnante è formata dagli operai con occupazione
“irregolare”, occupati in piccole industrie, nel lavoro a domicilio,
ecc. La sovrappopolazione latente è formata da quegli operai agricoli
che, essendo espulsi dallo sviluppo capitalistico dell'agricoltura (caratteristica
dell'agricoltura capitalistica è infatti la diminuzione assoluta degli
operai impiegati nel procedere dell'accumulazione), attendono di passare nel
proletariato industriale.
La sovrappopolazione fluttuante è formata da quegli operai che, licenziati
da grandi industrie per l’elevata composizione organica ivi raggiunta
attendono di essere riassunti da altre industrie in espansione.
Nella sua forma “classica” l’esercito di riserva si presenta
quindi come collocazione temporanea dell’operaio espulso dalla produzione,
in attesa di esservi reinserito alla prossima fase espansiva.
Ora invece l’espulsione dell’operaio dalla produzione assume carattere
di stabilità, la “disoccupazione tecnologica” è diventata
cioè un elemento stabile dello sviluppo monopolistico multinazionale
(in USA il tasso di disoccupazione del 6% che caratterizzò gli anni di
recessione 1949-50 è divenuto il tasso di disoccupazione stabile nel
periodo di prosperità della fine anni ‘60).
Tutto ciò ha modificato la forma dell’esercito di riserva.
Anche la “scuola di massa” assolve oggi la funzione di serbatoio
regolatore della forza-lavoro rispetto alle esigenze di sviluppo del capitale.
Essa, grazie alla sua struttura “frazionata” (media inferiore —
superiore, università), può nei momenti di espansione economica
gettare sul mercato del lavoro la quantità richiesta di forza-lavoro
qualificata e nelle fasi di recessione, assorbirla al proprio interno. (Nei
momenti di crisi economica abbiamo infatti aumenti notevoli del tasso di scolarità).
Secondo quest'ipotesi anche gli studenti fanno parte del nucleo centrale dell’esercito
di riserva nella fase dei monopoli multinazionali.
Quest'ipotesi inoltre fornisce una base strutturale per spiegare le lotte studentesche
di questi anni.
GLI EMARGINATI
Sono un prodotto della società capitalistica nella sua
attuale fase di sviluppo e il loro numero è in continuo aumento. Sono
utilizzati dalla società capitalistica, in quanto società dei
consumi, come consumatori. Sono però consumatori senza salario. Da questa
contraddizione nasce il forte incremento della “criminalità”,
che caratterizza attualmente i paesi capitalistici avanzati.
Una parte degli emarginati riflette a livello immediato la coscienza borghese
(consumistica): estremo individualismo, aspirazione ad un sempre maggior “consumo”.
Un’altra parte riflette la coscienza rivoluzionaria, cioè l’abolizione
della loro condizione d'emarginati, da cui l’abolizione della società
fondata sul lavoro salariato. In questo quadro va vista la funzione del “carcere”.
Il carcere ha innanzitutto la funzione generale di strumento terroristico nei
confronti dei proletari per tenerli legati alla produzione, oltre che con la
fame, anche con la paura.
Rispetto agli emarginati ha la funzione di serbatoio di raccolta.
In carcere poi si è avuta storicamente la presa di coscienza rivoluzionaria
di una parte degli emarginati. Questo per i seguenti motivi:
1. costretti a vivere in comunità, si può superare la mentalità
individualista;
2. scontrandosi con la repressione più brutale (botte, celle d’isolamento,
trasferimenti in carceri più punitivi, manicomi) si comincia a prendere
coscienza della propria condizione e quindi della necessità di organizzarsi
per lottare.
Di qui può sorgere la presa di coscienza nei confronti di tutta la società.
Già Marx ha individuato nella diminuzione assoluta degli operai una delle
contraddizioni più laceranti del capitalismo, giunto ad un elevato grado
di sviluppo.
“Uno sviluppo delle forze produttive che avesse come risultato di diminuire il numero assoluto degli operai, che permettesse in sostanza a tutta la nazione di compiere la produzione complessiva in un periodo minore di tempo, provocherebbe una rivoluzione perché ridurrebbe alla miseria la maggior parte della popolazione ” (Capitale III (I) p. 321 Ed. Riuniti).
E’ dunque l’alto sviluppo delle forze produttive
nella fase dei monopoli multinazionali che pone gli studenti e gli emarginati
al fianco della classe operaia nella lotta per il comunismo.
Ciò significa che la classe operaia resta comunque il nucleo centrale
e dirigente nella rivoluzione comunista e sarebbe un gravissimo errore pensare
che gli studenti e gli emarginati possano sostituirsi ad essa con una loro teoria
al di fuori del programma comunista (per questo ogni teoria della “rivoluzione
degli studenti” o della “rivoluzione degli emarginati” si
presenta come farsa controrivoluzionaria).
Ai compagni che affrontano per la prima volta la teoria economico-politica marxista
consigliamo come lettura preliminare il seguente testo: “GUIDA ALLA LETTURA
DEL CAPITALE”, Collettivo di storici C. Marx, Berlino Ovest, MUSOLINI
Editore. Collana: Teoria e storia di classe. Lire 1.500.
* * * *
Note
1. L'ipotesi fatta che il plusvalore assoluto e relativo
ad un certo punto del processo non possano più estendersi è validissima.
Per il prolungamento del plusvalore assoluto esistono certamente limiti fisici
(il fatto che la giornata lavorativa non può superare un certo numero
di ore senza distruggere la forza lavoro) e d’altra parte l’introduzione
di tre turni di otto ore rende praticamente impossibile un ulteriore prolungamento
del tempo di plusvalore assoluto (3 x 8 = 24 ore). Per il prolungamento del
plusvalore relativo sappiamo che esso dipende dal crescere della composizione
organica del capitale, ma abbiamo visto che nel momento di crisi la composizione
organica non può aumentare, per cui anche il plusvalore relativo non
può essere esteso.
Inoltre i momenti di crisi sono sempre preceduti da fasi di forte espansione
economica, che determinano una tendenza al rialzo dei salari (vedi gli aumenti
salariali ottenuti dalla classe operaia italiana negli anni 1960-68) per cui
anche questo fatto impedisce ulteriormente la possibilità di aumentare
il plusvalore relativo.
2. La fase del dominio generale ed esclusivo è quella in cui il capitalismo
ha esteso il suo modo di produzione su tutta l’area mondiale. Ora cioè
non esistono praticamente più aree economiche autonome rispetto al sistema
capitalistico.
Ciò non significa che non sopravvivano più forme e strati sociali
precapitalistici, ma ora queste forme e questi strati sono tutti interni allo
sviluppo capitalistico stesso e quindi regolati dalle sue leggi economiche (il
“sottosviluppo” è funzionale allo “sviluppo”).
3. Per comprendere la base economica e la funzione dell’imperialismo è
utile una periodizzazione storica dello sviluppo capitalistico.
1860-1873: Apogeo della libera concorrenza.
In questo periodo si ha il dominio del capitale inglese
sull’area mondiale. E’ l’età d’oro del capitalismo
in cui il sistema funziona “spontaneamente”, grazie alle normali
forze di mercato.
L'esportazione di capitale è essenzialmente esportazione di capitale
merce. Iniziano le prime conquiste coloniali Il capitalismo si va diffondendo
in Europa e in America del Nord.
1873-1900: Fase del colonialismo.
Massimo sviluppo delle guerre coloniali: i paesi capitalistici
più forti si vanno spartendo il mondo.
Possedimenti coloniali delle potenze capitalistiche europee.
Anno 1876 1900
in Africa 10,8% 90,4%
in Polinesia 56,8% 98,9%
in Asia 51,5% 56,6%
In Europa si ha un ricorso generale al protezionismo, che permette ai vari paesi
capitalistici di consolidare e sviluppare i rispettivi capitali nazionali.
Nei paesi capitalistici più avanzati si costituiscono i primi cartelli
(accordi tra varie industrie per la spartizione del mercato interno e la fissazione
dei prezzi, le industrie mantengono però la loro reciproca autonomia),
che rappresentano però ancora l’eccezione.
“Sul mercato interno la concorrenza retrocede di fronte ai cartelli mentre
sui mercati esteri essa trova una barriera nei dazi protezionistici di cui si
circondano tutti i grandi paesi industriali, eccettuata l’Inghilterra.
Ma questi dazi rappresentano in realtà soltanto degli armamenti per la
definitiva campagna industriale universale che dovrà decidere della supremazia
sul mercato mondiale”. (da una nota di Engels al Capitale III (Il) pag.
112).
1900-1914: Inizia la fase imperialista.
I cartelli sono ora la base di tutta la vita economica.
Cominciano a formarsi i monopoli (non più semplici accordi tra industrie
se parate, ma grandi industrie unificate che controllano il mercato interno
e stabiliscono i prezzi). Compaiono anche i primi Trust multinazionali.
“La famosa AEG domina da 175 a 200 società (col sistema delle partecipazioni)”.
Soltanto all’estero essa ha 34 rappresentanze fra cui 12 società
per azioni in oltre 10 Stati.
S'intende che l’AEG rappresenta una grande impresa combinata, comprende
non meno di 16 società di produzione dei più moderni prodotti
finiti, a cominciare dai cavi e dagli isolatori fino alle automobili e agli
aeroplani”. (da “L'Imperialismo” di Lenin).
“Caratteristica dell’Imperialismo in questa fase è l’esportazione
di capitale sotto forma di capitale finanziario, cioè capitale monetario
che i paesi capitalistici più forti prestano ad alti tassi d‘interesse
ai paesi capitalistici più deboli, per essere trasformato in capitale
industriale.
I paesi capitalistici più forti incamerano giganteschi sovrapprofitti
col “taglio delle cedole” e il capitale bancario assume un peso
preponderante. Si completa la spartizione dell’intera superficie terrestre
tra i paesi capitalistici e inizia la ripartizione del mondo tra i Trust multinazionali.
Alle guerre coloniali subentra necessariamente la guerra interimperialista per
una nuova spartizione del mondo (prima guerra mondiale 1915-18).
1918-1940: L’esito della prima guerra mondiale non ha risolto il problema
del dominio sull’area mondiale. La Germania esce dalla guerra indebolita
ma non distrutta. La rivoluzione proletaria vittoriosa in Russia e sempre più
incalzante negli altri paesi capitalistici pone nuovi e più gravi problemi
alle varie borghesie per alcune nazioni si ha un ritorno a forze protezionistiche
variamente mascherate (es. le “Teorie autarchiche” in Italia), per
permettere una rapida ricostruzione dopo le distruzioni della guerra. Il Monopolio
è ora la base delle varie economie “ricostruite”.
1945-19 75: La seconda guerra mondiale stabilisce il dominio dell’imperialismo
USA sull’area capitalistica occidentale, Il monopolio multiproduttivo
multinazionale (cioè grandi trust, con aziende in vari paesi, investimenti
in diversi settori produttivi, che si spartiscono il mercato mondiale) è
ora l’elemento dominante. La ripartizione dell’area capitalistica
occidentale non è più fra nazioni ma fra multinazionali.