Biblioteca Multimediale Marxista
O.N. 30 Novembre 1921
Mentre pubblicava il manifesto del partito fascista redatto dalla direzione
adunata a Milano, il quotidiano fascista recava anche un articolo inteso come
una serie di altri, a difendersi dalla concorde accusa di mancanza di programma,
di ideologia, di dottrina, mossa da molte parti al movimento fascista. Il leader
fascista risponde un pò indispettito a questo coro di rimproveri: volete
un programma da noi? Non vi pare che io sia giunto a fissarlo nel discorso di
Roma? Ed egli trova una parata non priva di valore polemico; hanno forse dei
programmi degni di questo nome molti dei movimenti politici che denunziano la
delusione nella aspettativa di quello fascista? Vi sono a questo punto da fissare
due verità: una che i partiti borghesi e piccolo borghesi appunto perché
non hanno programma ne attendevano uno dal fascismo; e l'altra è che
la mancanza di programma nel movimento fascista non è una accusa che
gli si possa fare, ma deve essere, solo un importante elemento per intendere
e definire la natura. Il direttore del quotidiano fascista, che non sarà
però l'organo ufficiale quotidiano del partito fascista, vuole poi assurgere
al di sopra dei suoi contraddittori mostrando che il fascismo non ha tavole
programmatiche e canoni dottrinali. è perché esso si riallaccia
al modernissimo indirizzo del pensiero filosofico, alle teorie della relatività
che avrebbero fatto "tabula rasa" dello storicismo costruttore di
schemi per i quali debbono passare gli avvenimenti, per affermare il valore
dell'assoluto attivismo (ed ecco dunque subito, accidenti alla filosofia, qualche
cosa che non è relativa, ma assoluta, cioè l'attivismo benché
figlio primogenito del relativismo!). Si potrebbe scherzare non poco sulla scoperta
del duce fascista: da molti anni egli non ha fatto che del relativismo per intuizione!
Domandando quale cialtrone della vita politica non possa fregiarsi della stessa
divisa e della etichetta "relativista pratico". Ma è meglio
rilevare che questa applicazione alla politica del relativismo, dello scetticismo,
dell'attivismo non è niente affatto nuova, ma è un assai sfruttato
impiego ideologico la cui interpretazione oggettiva, andata a cercare, a costo
di passare per "demodés" nelle nostre tavole di materialismo
storico, risiede nella necessità di difesa della classe dominante che
nella sua decadenza, non sapendo più tracciarsi una via - che è
non solo uno schema della storia ma anche un insieme di formule di azione -
e per scongiurare la visione della vita che altre forze sociali si prefiggono
nella loro aggressività rivoluzionaria, ricorre alla snervata filosofia
dello scetticismo universale, indice sicuro di epoche di decadenza. Mettiamo
da parte subito la dottrina fisica della relatività di Einstein, delle
cui applicazioni dell'ultima moda intellettuale nei salotti in cui si discute
di filosofia, noi non sappiamo nulla, e forse poco anche Einstein che simpatizza
per il movimento proletario rivoluzionario. La sua applicazione alla politica
e alla storia di questo nostro pianeta non potrebbe avere effetti molto sensibili,
quando si pensi che essa corregge la valutazione del tempo in ragione della
velocità della luce e la cronologia delle faccende terrestri non ne verrebbe
alterata, se si pensa il tempo in cui un raggio luminoso può percorrere
le massime distanze misurabili sul pianeta, che è meno di un ventesimo
di secondo. Che ci può importare sapere se Mussolini fa del relativismo
per intuizione da dieci anni più un ventesimo di secondo. Ma le applicazioni
del relativismo e dell'attivismo filosofico alla politica ed alla prassi sociale
sono cosa vecchia, dicevamo, e sono sintomo di impotenza funzionale, semplicemente.
Una sola applicazione logica di tali dottrine alla vita sociale si può
ravvisare nella strafottenza soggettiva e individuale dei singoli; se cadono
i programmi di riforma e di rivoluzione della macchina sociale, cadono con essi
le grandi organizzazioni di collettività sociali sopravvive l'azione
degli individui e quella tutt'al più di limitati gruppi indipendenti
e dotati del massimo di iniziativa. Logicamente erano scettiche e relativiste
le due notissime revisioni del Marxismo rivoluzionario: il riformismo e il sindacalismo.
Bernstein disse molto prima di Mussolini che il fine è nulla e la prassi,
il movimento, è tutto; e nello stesso tempo in cui si tentava di togliere
al proletariato la visione di una meta finale gli si toglieva la concezione
unitaria della classe lottante con unità di indirizzo e si riduceva il
socialismo alla prassi dei gruppi in moto per azioni contingenti con illimitata
larghezza di metodi: il "mobilismo" che oggi invoca il duce fascista.
non diverso atteggiamento ideologico dava origine al sindacalismo. La critica
sembra considerare come un sistema mille volte demolito e seppellito nei vecchiumi
quello che alla classe proletaria parla della unità del suo movimento
nello spazio e nel tempo, ma questa critica che ogni giorno si presenta come
cosa nuova è che stanca rimasticatura piccolo borghese, essa somiglia
all'elegante scetticismo religioso degli ultimi aristocratici che prima della
grande rivoluzione non avevano più la forza di lottare per la causa della
conservazione della propria classe: nell'un caso e nell'altro siamo in presenza
di sintomi della fine. Il fascismo però secondo la vera natura del suo
movimento, non ha alcun diritto di richiamarsi al relativismo, anzi si potrebbe
dire che esso rappresenta gli ultimi sforzi che compie la classe dominante attuale
per fissare delle linee sicure di difesa e proclamare contro gli attacchi rivoluzionari
il suo diritto alla vita; uno storicismo negativo, ma uno storicismo. Il fascismo
ha una unità di organizzazione indiscutibilmente salda, è la organizzazione
delle forze che difenderanno disperatamente, nell'azione, posizioni che sono
già state teorizzate da tempo, come già dicevamo in un nostro
articolo, perché esso si presenta non come apportatore di un nuovo programma,
ma come l'organizzatore che lotta per u programma da tempo esistente: quello
del liberalismo borghese tradizionale. Non deve nè può l'apparente
agnosticismo dinanzi allo Stato borghese dal manifesto del partito fascista.
La illazione da esso che anche la nozione dei Stato non è per il pensiero
e il metodo fascista una "categoria fissa" non è che un giuoco
di parole senza senso. Il fascismo pone in rapporto lo Stato e la sua funzione,
ad una nuova, categoria ricca di un assolutismo non meno dogmatico di tutti
gli altri: la "nazione". Questa parola acquistata l'iniziale maiuscola
tolta da quella "Stato". La Nazione, in realtà, non è
che una espressione equivalente a quella borghese e democratica di sovranità
popolare, che si tradurrebbe nello Stato. Il fascismo non ha fatto che ereditare
le nozioni del liberalismo, e il ricorso all'imperativo categorico nazionale
non è che una manifestazione del solito inganno che dovrebbe celare la
coincidenza tra Stato e classe capitalista dominante. Una critica anche superficiale
dimostra che la Nazione del manifesto fascista, mentre è indiscutibilmente
una "categoria" ed ha nella ideologia un valore tanto assoluto che
nella pratica il bestemmiatore di essa è votato al sacrifizio espiatore
della... bastonatura, questa Nazione non è altro che la borghesia e il
suo regime da difendere; è l'anti-categoria della rivoluzione proletaria.
Molti movimenti piccolo borghesi che prendono atteggiamenti pseudo rivoluzionari
- e che convergono oggi, per quanto possa parere paradossale, verso il fascismo
- si adornano di quella espressione equivoca. Perché sarebbe Nazione
la milizia volontaria fascista, e non la massa disorganizzata o organizzata
di altre minoranze che di quella milizia volontaria è il naturale nemica,
non si potrebbe mai intendere se nel giudizio critico del concetto di Nazione
non si traducessero gli stessi elementi che ci conducono a stabilire che lo
Stato borghese, mentre parla a nome di tutti, è una organizzazione di
minoranza e per l'azione di una minoranza: la borghesia. La esistenza dinanzi
alla organizzazione statale, della potente organizzazione della milizia volontaria
fascista, non denota una indipendenza di movimento, ma segna uno sdoppiamento
di funzioni che corrisponde alla esigenza della difensiva di classe antirivoluzionaria
della borghesia. Lo Stato deve serbarsi il diritto di affermarsi espressione
democratica degli interessi di tutti, ed è perciò che quella milizia
di classe sorge al di fuori di esso; questa a sua volta osa tanto poco essere
coerente alle filosofie di cui vorrebbe ammantarsi, che invece di presentarsi
come la espressione di una elite, riduce il suo programma ad un impreciso "nominalismo"
che ha anche la proprietà di essere, tradizionalmente e volgarmente,
democratico, la Nazione. Il relativismo domina negli strati borghesi smidollati
e rassegnati alla sconfitta che registrano nella loro disorganizzazione il fallimento
del pensiero e della forza borghese. Ma la organizzazione che affascia le ultime
risorse di lotta della borghesia in un supremo e unitario inquadramento di battaglia
segna la raccolta di tutte le forze del passato ancora capaci di coordinarsi,
non su un programma da offrire alla storia di domani ( che questo programma
una corrente borghese non può trovare, e nemmeno il fascismo), ma sulla
istintiva decisione di combattere contro le realizzazioni offensive del programma
rivoluzionario. Se questo fosse stato battuto nel campo della critica teoretica
dalle nuove seducenti tesi che brillano negli articoli del leader fascista,
e se non fosse sentito come un periodo e quindi come una realizzazione di domani,
il duce potrebbe licenziare gli squadristi e sciogliere, in nome della filosofia
relativista e attivista, l'immobilismo della disciplina in cui sempre più
proclama il doverli tenere avvinti.
30 Novembre 1921