Ringraziamo il sito Filosofico.net per aver messo a disposizione dei nostri lettori il seguente testo
In rebus quibuscumque difficilioribus non expectandum, ut qui simul, et serat,
et metat,sed praeparatione opus est, ut per gradus maturescant
BACON, Serm. fidel, n. XLV
In tutte le cose più difficili non ci si deve aspettare
che qualcuno semini e raccolga contemporaneamente ma è necessario un
periodo di attesa
affinché esse a poco a poco giungano a maturazione
(1763)
Alcuni avanzi di leggi di un antico popolo conquistatore fatte compilare da
un principe che dodici secoli fa regnava in Costantinopoli, frammischiate poscia
co' riti longobardi, ed involte in farraginosi volumi di privati ed oscuri interpreti,
formano quella tradizione di opinioni che da una gran parte dell'Europa ha tuttavia
il nome di leggi; ed è cosa funesta quanto comune al dì d'oggi
che una opinione di Carpzovio, un uso antico accennato da Claro, un tormento
con iraconda compiacenza suggerito da Farinaccio sieno le leggi a cui con sicurezza
obbediscono coloro che tremando dovrebbono reggere le vite e le fortune degli
uomini. Queste leggi, che sono uno scolo de' secoli i piú barbari, sono
esaminate in questo libro per quella parte che risguarda il sistema criminale,
e i disordini di quelle si osa esporli a' direttori della pubblica felicità
con uno stile che allontana il volgo non illuminato ed impaziente. Quella ingenua
indagazione della verità, quella indipendenza delle opinioni volgari
con cui è scritta quest'opera è un effetto del dolce e illuminato
governo sotto cui vive l'autore. I grandi monarchi, i benefattori della umanità
che ci reggono, amano le verità esposte dall'oscuro filosofo con un non
fanatico vigore, detestato solamente da chi si avventa alla forza o alla industria,
respinto dalla ragione; e i disordini presenti da chi ben n'esamina tutte le
circostanze sono la satira e il rimprovero delle passate età, non già
di questo secolo e de' suoi legislatori.
Chiunque volesse onorarmi delle sue critiche cominci dunque dal ben comprendere
lo scopo a cui è diretta quest'opera, scopo che ben lontano di diminuire
la legittima autorità, servirebbe ad accrescerla se piú che la
forza può negli uomini la opinione, e se la dolcezza e l'umanità
la giustificano agli occhi di tutti. Le mal intese critiche pubblicate contro
questo libro si fondano su confuse nozioni, e mi obbligano d'interrompere per
un momento i miei ragionamenti agl'illuminati lettori, per chiudere una volta
per sempre ogni adito agli errori di un timido zelo o alle calunnie della maligna
invidia.
Tre sono le sorgenti delle quali derivano i principii morali e politici regolatori
degli uomini. La rivelazione, la legge naturale, le convenzioni fattizie della
società. Non vi è paragone tra la prima e le altre per rapporto
al principale di lei fine; ma si assomigliano in questo, che conducono tutte
tre alla felicità di questa vita mortale. Il considerare i rapporti dell'ultima
non è l'escludere i rapporti delle due prime; anzi siccome quelle, benché
divine ed immutabili, furono per colpa degli uomini dalle false religioni e
dalle arbitrarie nozioni di vizio e di virtú in mille modi nelle depravate
menti loro alterate, cosí sembra necessario di esaminare separatamente
da ogni altra considerazione ciò che nasca dalle pure convenzioni umane,
o espresse, o supposte per la necessità ed utilità comune, idea
in cui ogni setta ed ogni sistema di morale deve necessariamente convenire;
e sarà sempre lodevole intrappresa quella che sforza anche i piú
pervicaci ed increduli a conformarsi ai principii che spingon gli uomini a vivere
in società. Sonovi dunque tre distinte classi di virtú e di vizio,
religiosa, naturale e politica. Queste tre classi non devono mai essere in contradizione
fra di loro, ma non tutte le conseguenze e i doveri che risultano dall'una risultano
dalle altre. Non tutto ciò che esige la rivelazione lo esige la legge
naturale, né tutto ciò che esige questa lo esige la pura legge
sociale: ma egli è importantissimo di separare ciò che risulta
da questa convenzione, cioè dagli espressi o taciti patti degli uomini,
perché tale è il limite di quella forza che può legittimamente
esercitarsi tra uomo e uomo senza una speciale missione dell'Essere supremo.
Dunque l'idea della virtú politica può senza taccia chiamarsi
variabile; quella della virtú naturale sarebbe sempre limpida e manifesta
se l'imbecillità o le passioni degli uomini non la oscurassero; quella
della virtú religiosa è sempre una costante, perché rivelata
immediatamente da Dio e da lui conservata.
Sarebbe dunque un errore l'attribuire a chi parla di convenzioni sociali e delle
conseguenze di esse principii contrari o alla legge naturale o alla rivelazione;
perché non parla di queste. Sarebbe un errore a chi, parlando di stato
di guerra prima dello stato di società, lo prendesse nel senso hobbesiano,
cioè di nessun dovere e di nessuna obbligazione anteriore, in vece di
prenderlo per un fatto nato dalla corruzione della natura umana e dalla mancanza
di una sanzione espressa. Sarebbe un errore l'imputare a delitto ad uno scrittore,
che considera le emanazioni del patto sociale, di non ammetterle prima del patto
istesso. La giustizia divina e la giustizia naturale sono per essenza loro immutabili
e costanti, perché la relazione fra due medesimi oggetti è sempre
la medesima; ma la giustizia umana, o sia politica, non essendo che una relazione
fra l'azione e lo stato vario della società, può variare a misura
che diventa necessaria o utile alla società quell'azione, né ben
si discerne se non da chi analizzi i complicati e mutabilissimi rapporti delle
civili combinazioni. Sí tosto che questi principii essenzialmente distinti
vengano confusi, non v'è piú speranza di ragionar bene nelle materie
pubbliche. Spetta a' teologi lo stabilire i confini del giusto e dell'ingiusto,
per ciò che riguarda l'intrinseca malizia o bontà dell'atto; lo
stabilire i rapporti del giusto e dell'ingiusto politico, cioè dell'utile
o del danno della società, spetta al pubblicista; né un oggetto
può mai pregiudicare all'altro, poiché ognun vede quanto la virtú
puramente politica debba cedere alla immutabile virtú emanata da Dio.
Chiunque, lo ripeto, volesse onorarmi delle sue critiche, non cominci dunque
dal supporre in me principii distruttori o della virtú o della religione,
mentre ho dimostrato tali non essere i miei principii, e in vece di farmi incredulo
o sedizioso procuri di ritrovarmi cattivo logico o inavveduto politico; non
tremi ad ogni proposizione che sostenga gl'interessi dell'umanità; mi
convinca o della inutilità o del danno politico che nascer ne potrebbe
dai miei principii, mi faccia vedere il vantaggio delle pratiche ricevute. Ho
dato un pubblico testimonio della mia religione e della sommissione al mio sovrano
colla risposta alle Note ed osservazioni; il rispondere ad ulteriori scritti
simili a quelle sarebbe superfluo; ma chiunque scriverà con quella decenza
che si conviene a uomini onesti e con quei lumi che mi dispensino dal provare
i primi principii, di qualunque carattere essi siano, troverà in me non
tanto un uomo che cerca di rispondere quanto un pacifico amatore della verità.
Gli uomini lasciano per lo piú in abbandono i piú importanti regolamenti
alla giornaliera prudenza o alla discrezione di quelli, l'interesse de' quali
è di opporsi alle piú provide leggi che per natura rendono universali
i vantaggi e resistono a quello sforzo per cui tendono a condensarsi in pochi,
riponendo da una parte il colmo della potenza e della felicità e dall'altra
tutta la debolezza e la miseria. Perciò se non dopo esser passati framezzo
mille errori nelle cose piú essenziali alla vita ed alla libertà,
dopo una stanchezza di soffrire i mali, giunti all'estremo, non s'inducono a
rimediare ai disordini che gli opprimono, e a riconoscere le piú palpabili
verità, le quali appunto sfuggono per la semplicità loro alle
menti volgari, non avvezze ad analizzare gli oggetti, ma a riceverne le impressioni
tutte di un pezzo, piú per tradizione che per esame.
Apriamo le istorie e vedremo che le leggi, che pur sono o dovrebbon esser patti
di uomini liberi, non sono state per lo piú che lo stromento delle passioni
di alcuni pochi, o nate da una fortuita e passeggiera necessità; non
già dettate da un freddo esaminatore della natura umana, che in un sol
punto concentrasse le azioni di una moltitudine di uomini, e le considerasse
in questo punto di vista: la massima felicità divisa nel maggior numero.
Felici sono quelle pochissime nazioni, che non aspettarono che il lento moto
delle combinazioni e vicissitudini umane facesse succedere all'estremità
de' mali un avviamento al bene, ma ne accelerarono i passaggi intermedi con
buone leggi; e merita la gratitudine degli uomini quel filosofo ch'ebbe il coraggio
dall'oscuro e disprezzato suo gabinetto di gettare nella moltitudine i primi
semi lungamente infruttuosi delle utili verità.
Si sono conosciute le vere relazioni fra il sovrano e i sudditi, e fralle diverse
nazioni; il commercio si è animato all'aspetto delle verità filosofiche
rese comuni colla stampa, e si è accesa fralle nazioni una tacita guerra
d'industria la piú umana e la piú degna di uomini ragionevoli.
Questi sono frutti che si debbono alla luce di questo secolo, ma pochissimi
hanno esaminata e combattuta la crudeltà delle pene e l'irregolarità
delle procedure criminali, parte di legislazione cosí principale e cosí
trascurata in quasi tutta l'Europa, pochissimi, rimontando ai principii generali,
annientarono gli errori accumulati di piú secoli, frenando almeno, con
quella sola forza che hanno le verità conosciute, il troppo libero corso
della mal diretta potenza, che ha dato fin ora un lungo ed autorizzato esempio
di fredda atrocità. E pure i gemiti dei deboli, sacrificati alla crudele
ignoranza ed alla ricca indolenza, i barbari tormenti con prodiga e inutile
severità moltiplicati per delitti o non provati o chimerici, la squallidezza
e gli orrori d'una prigione, aumentati dal piú crudele carnefice dei
miseri, l'incertezza, doveano scuotere quella sorta di magistrati che guidano
le opinioni delle menti umane.
L'immortale Presidente di Montesquieu ha rapidamente scorso su di questa materia.
L'indivisibile verità mi ha forzato a seguire le tracce luminose di questo
grand'uomo, ma gli uomini pensatori, pe' quali scrivo, sapranno distinguere
i miei passi dai suoi. Me fortunato, se potrò ottenere, com'esso, i segreti
ringraziamenti degli oscuri e pacifici seguaci della ragione, e se potrò
inspirare quel dolce fremito con cui le anime sensibili rispondono a chi sostiene
gl'interessi della umanità!
Le leggi sono le condizioni, colle quali uomini indipendenti ed isolati si unirono in società, stanchi di vivere in un continuo stato di guerra e di godere una libertà resa inutile dall'incertezza di conservarla. Essi ne sacrificarono una parte per goderne il restante con sicurezza e tranquillità. La somma di tutte queste porzioni di libertà sacrificate al bene di ciascheduno forma la sovranità di una nazione, ed il sovrano è il legittimo depositario ed amministratore di quelle; ma non bastava il formare questo deposito, bisognava difenderlo dalle private usurpazioni di ciascun uomo in particolare, il quale cerca sempre di togliere dal deposito non solo la propria porzione, ma usurparsi ancora quella degli altri. Vi volevano de' motivi sensibili che bastassero a distogliere il dispotico animo di ciascun uomo dal risommergere nell'antico caos le leggi della società. Questi motivi sensibili sono le pene stabilite contro agl'infrattori delle leggi. Dico sensibili motivi, perché la sperienza ha fatto vedere che la moltitudine non adotta stabili principii di condotta, né si allontana da quel principio universale di dissoluzione, che nell'universo fisico e morale si osserva, se non con motivi che immediatamente percuotono i sensi e che di continuo si affacciano alla mente per contrabilanciare le forti impressioni delle passioni parziali che si oppongono al bene universale: né l'eloquenza, né le declamazioni, nemmeno le piú sublimi verità sono bastate a frenare per lungo tempo le passioni eccitate dalle vive percosse degli oggetti presenti.
Ogni pena che non derivi dall'assoluta necessità, dice
il Ogni pena che non derivi dall'assoluta necessità, dice il grande Montesquieu,
è tirannica; proposizione che si può rendere piú generale
cosí: ogni atto di autorità di uomo a uomo che non derivi dall'assoluta
necessità è tirannico. Ecco dunque sopra di che è fondato
il diritto del sovrano di punire i delitti: sulla necessità di difendere
il deposito della salute pubblica dalle usurpazioni particolari; e tanto piú
giuste sono le pene, quanto piú sacra ed inviolabile è la sicurezza,
e maggiore la libertà che il sovrano conserva ai sudditi. Consultiamo
il cuore umano e in esso troveremo i principii fondamentali del vero diritto
del sovrano di punire i delitti, poiché non è da sperarsi alcun
vantaggio durevole dalla politica morale se ella non sia fondata su i sentimenti
indelebili dell'uomo. Qualunque legge devii da questi incontrerà sempre
una resistenza contraria che vince alla fine, in quella maniera che una forza
benché minima, se sia continuamente applicata, vince qualunque violento
moto comunicato ad un corpo.
Nessun uomo ha fatto il dono gratuito di parte della propria libertà
in vista del ben pubblico; questa chimera non esiste che ne' romanzi; se fosse
possibile, ciascuno di noi vorrebbe che i patti che legano gli altri, non ci
legassero; ogni uomo si fa centro di tutte le combinazioni del globo.
La moltiplicazione del genere umano, piccola per se stessa, ma di troppo superiore
ai mezzi che la sterile ed abbandonata natura offriva per soddisfare ai bisogni
che sempre piú s'incrocicchiavano tra di loro, riuní i primi selvaggi.
Le prime unioni formarono necessariamente le altre per resistere alle prime,
e cosí lo stato di guerra trasportossi dall'individuo alle nazioni.
Fu dunque la necessità che costrinse gli uomini a cedere parte della
propria libertà: egli è adunque certo che ciascuno non ne vuol
mettere nel pubblico deposito che la minima porzion possibile, quella sola che
basti a indurre gli altri a difenderlo. L'aggregato di queste minime porzioni
possibili forma il diritto di punire; tutto il di piú è abuso
e non giustizia, è fatto, ma non già diritto. Osservate che la
parola diritto non è contradittoria alla parola forza, ma la prima è
piuttosto una modificazione della seconda, cioè la modificazione piú
utile al maggior numero. E per giustizia io non intendo altro che il vincolo
necessario per tenere uniti gl'interessi particolari, che senz'esso si scioglierebbono
nell'antico stato d'insociabilità; tutte le pene che oltrepassano la
necessità di conservare questo vincolo sono ingiuste di lor natura. Bisogna
guardarsi di non attaccare a questa parola giustizia l'idea di qualche cosa
di reale, come di una forza fisica, o di un essere esistente; ella è
una semplice maniera di concepire degli uomini, maniera che influisce infinitamente
sulla felicità di ciascuno; nemmeno intendo quell'altra sorta di giustizia
che è emanata da Dio e che ha i suoi immediati rapporti colle pene e
ricompense della vita avvenire.
La prima conseguenza di questi principii è che le sole
leggi possono decretar le pene su i delitti, e quest'autorità non può
risedere che presso il legislatore, che rappresenta tutta la società
unita per un contratto sociale; nessun magistrato (che è parte di società)
può con giustizia infligger pene contro ad un altro membro della società
medesima. Ma una pena accresciuta al di là dal limite fissato dalle leggi
è la pena giusta piú un'altra pena; dunque non può un magistrato,
sotto qualunque pretesto di zelo o di ben pubblico, accrescere la pena stabilita
ad un delinquente cittadino.
La seconda conseguenza è che se ogni membro particolare è legato
alla società, questa è parimente legata con ogni membro particolare
per un contratto che di sua natura obbliga le due parti. Questa obbligazione,
che discende dal trono fino alla capanna, che lega egualmente e il piú
grande e il piú miserabile fra gli uomini, non altro significa se non
che è interesse di tutti che i patti utili al maggior numero siano osservati.
La violazione anche di un solo, comincia ad autorizzare l'anarchia. Il sovrano,
che rappresenta la società medesima, non può formare che leggi
generali che obblighino tutti i membri, ma non già giudicare che uno
abbia violato il contratto sociale, poiché allora la nazione si dividerebbe
in due parti, una rappresentata dal sovrano, che asserisce la violazione del
contratto, e l'altra dall'accusato, che la nega. Egli è dunque necessario
che un terzo giudichi della verità del fatto. Ecco la necessità
di un magistrato, le di cui sentenze sieno inappellabili e consistano in mere
assersioni o negative di fatti particolari.
La terza conseguenza è che quando si provasse che l'atrocità delle
pene, se non immediatamente opposta al ben pubblico ed al fine medesimo d'impedire
i delitti, fosse solamente inutile, anche in questo caso essa sarebbe non solo
contraria a quelle virtú benefiche che sono l'effetto d'una ragione illuminata
che preferisce il comandare ad uomini felici piú che a una greggia di
schiavi, nella quale si faccia una perpetua circolazione di timida crudeltà,
ma lo sarebbe alla giustizia ed alla natura del contratto sociale medesimo.
Quarta conseguenza. Nemmeno l'autorità d'interpetrare
le leggi penali può risedere presso i giudici criminali per la stessa
ragione che non sono legislatori. I giudici non hanno ricevuto le leggi dagli
antichi nostri padri come una tradizione domestica ed un testamento che non
lasciasse ai posteri che la cura d'ubbidire, ma le ricevono dalla vivente società,
o dal sovrano rappresentatore di essa, come legittimo depositario dell'attuale
risultato della volontà di tutti; le ricevono non come obbligazioni d'un
antico giuramento, nullo, perché legava volontà non esistenti,
iniquo, perché riduceva gli uomini dallo stato di società allo
stato di mandra, ma come effetti di un tacito o espresso giuramento, che le
volontà riunite dei viventi sudditi hanno fatto al sovrano, come vincoli
necessari per frenare e reggere l'intestino fermento degl'interessi particolari.
Quest'è la fisica e reale autorità delle leggi. Chi sarà
dunque il legittimo interpetre della legge? Il sovrano, cioè il depositario
delle attuali volontà di tutti, o il giudice, il di cui ufficio è
solo l'esaminare se il tal uomo abbia fatto o no un'azione contraria alle leggi?
In ogni delitto si deve fare dal giudice un sillogismo perfetto: la maggiore
dev'essere la legge generale, la minore l'azione conforme o no alla legge, la
conseguenza la libertà o la pena. Quando il giudice sia costretto, o
voglia fare anche soli due sillogismi, si apre la porta all'incertezza.
Non v'è cosa piú pericolosa di quell'assioma comune che bisogna
consultare lo spirito della legge. Questo è un argine rotto al torrente
delle opinioni. Questa verità, che sembra un paradosso alle menti volgari,
piú percosse da un piccol disordine presente che dalle funeste ma rimote
conseguenze che nascono da un falso principio radicato in una nazione, mi sembra
dimostrata. Le nostre cognizioni e tutte le nostre idee hanno una reciproca
connessione; quanto piú sono complicate, tanto piú numerose sono
le strade che ad esse arrivano e partono. Ciascun uomo ha il suo punto di vista,
ciascun uomo in differenti tempi ne ha un diverso. Lo spirito della legge sarebbe
dunque il risultato di una buona o cattiva logica di un giudice, di una facile
o malsana digestione, dipenderebbe dalla violenza delle sue passioni, dalla
debolezza di chi soffre, dalle relazioni del giudice coll'offeso e da tutte
quelle minime forze che cangiano le apparenze di ogni oggetto nell'animo fluttuante
dell'uomo. Quindi veggiamo la sorte di un cittadino cambiarsi spesse volte nel
passaggio che fa a diversi tribunali, e le vite de' miserabili essere la vittima
dei falsi raziocini o dell'attuale fermento degli umori d'un giudice, che prende
per legittima interpetrazione il vago risultato di tutta quella confusa serie
di nozioni che gli muove la mente. Quindi veggiamo gli stessi delitti dallo
stesso tribunale puniti diversamente in diversi tempi, per aver consultato non
la costante e fissa voce della legge, ma l'errante instabilità delle
interpetrazioni. Un disordine che nasce dalla rigorosa osservanza della lettera
di una legge penale non è da mettersi in confronto coi disordini che
nascono dalla interpetrazione. Un tal momentaneo inconveniente spinge a fare
la facile e necessaria correzione alle parole della legge, che sono la cagione
dell'incertezza, ma impedisce la fatale licenza di ragionare, da cui nascono
le arbitrarie e venali controversie. Quando un codice fisso di leggi, che si
debbono osservare alla lettera, non lascia al giudice altra incombenza che di
esaminare le azioni de' cittadini, e giudicarle conformi o difformi alla legge
scritta, quando la norma del giusto e dell'ingiusto, che deve dirigere le azioni
sí del cittadino ignorante come del cittadino filosofo, non è
un affare di controversia, ma di fatto, allora i sudditi non sono soggetti alle
piccole tirannie di molti, tanto piú crudeli quanto è minore la
distanza fra chi soffre e chi fa soffrire, piú fatali che quelle di un
solo, perché il dispotismo di molti non è correggibile che dal
dispotismo di un solo e la crudeltà di un dispotico è proporzionata
non alla forza, ma agli ostacoli. Cosí acquistano i cittadini quella
sicurezza di loro stessi che è giusta perché è lo scopo
per cui gli uomini stanno in società, che è utile perché
gli mette nel caso di esattamente calcolare gl'inconvenienti di un misfatto.
Egli è vero altresí che acquisteranno uno spirito d'indipendenza,
ma non già scuotitore delle leggi e ricalcitrante a' supremi magistrati,
bensí a quelli che hanno osato chiamare col sacro nome di virtú
la debolezza di cedere alle loro interessate o capricciose opinioni. Questi
principii spiaceranno a coloro che si sono fatto un diritto di trasmettere agl'inferiori
i colpi della tirannia che hanno ricevuto dai superiori. Dovrei tutto temere,
se lo spirito di tirannia fosse componibile collo spirito di lettura.
Se l'interpetrazione delle leggi è un male, egli è
evidente esserne un altro l'oscurità che strascina seco necessariamente
l'interpetrazione, e lo sarà grandissimo se le leggi sieno scritte in
una lingua straniera al popolo, che lo ponga nella dipendenza di alcuni pochi,
non potendo giudicar da se stesso qual sarebbe l'esito della sua libertà,
o dei suoi membri, in una lingua che formi di un libro solenne e pubblico un
quasi privato e domestico. Che dovremo pensare degli uomini, riflettendo esser
questo l'inveterato costume di buona parte della colta ed illuminata Europa!
Quanto maggiore sarà il numero di quelli che intenderanno e avranno fralle
mani il sacro codice delle leggi, tanto men frequenti saranno i delitti, perché
non v'ha dubbio che l'ignoranza e l'incertezza delle pene aiutino l'eloquenza
delle passioni.
Una conseguenza di quest'ultime riflessioni è che senza la scrittura
una società non prenderà mai una forma fissa di governo, in cui
la forza sia un effetto del tutto e non delle parti e in cui le leggi, inalterabili
se non dalla volontà generale, non si corrompano passando per la folla
degl'interessi privati. L'esperienza e la ragione ci hanno fatto vedere che
la probabilità e la certezza delle tradizioni umane si sminuiscono a
misura che si allontanano dalla sorgente. Che se non esiste uno stabile monumento
del patto sociale, come resisteranno le leggi alla forza inevitabile del tempo
e delle passioni?
Da ciò veggiamo quanto sia utile la stampa, che rende il pubblico, e
non alcuni pochi, depositario delle sante leggi, e quanto abbia dissipato quello
spirito tenebroso di cabala e d'intrigo che sparisce in faccia ai lumi ed alle
scienze apparentemente disprezzate e realmente temute dai seguaci di lui. Questa
è la cagione, per cui veggiamo sminuita in Europa l'atrocità de'
delitti che facevano gemere gli antichi nostri padri, i quali diventavano a
vicenda tiranni e schiavi. Chi conosce la storia di due o tre secoli fa, e la
nostra, potrà vedere come dal seno del lusso e della mollezza nacquero
le piú dolci virtú, l'umanità, la beneficenza, la tolleranza
degli errori umani. Vedrà quali furono gli effetti di quella che chiamasi
a torto antica semplicità e buona fede: l'umanità gemente sotto
l'implacabile superstizione, l'avarizia, l'ambizione di pochi tinger di sangue
umano gli scrigni dell'oro e i troni dei re, gli occulti tradimenti, le pubbliche
stragi, ogni nobile tiranno della plebe, i ministri della verità evangelica
lordando di sangue le mani che ogni giorno toccavano il Dio di mansuetudine,
non sono l'opera di questo secolo illuminato, che alcuni chiamano corrotto.
Non solamente è interesse comune che non si commettano
delitti, ma che siano piú rari a proporzione del male che arrecano alla
società. Dunque piú forti debbono essere gli ostacoli che risospingono
gli uomini dai delitti a misura che sono contrari al ben pubblico, ed a misura
delle spinte che gli portano ai delitti. Dunque vi deve essere una proporzione
fra i delitti e le pene.
È impossibile di prevenire tutti i disordini nell'universal combattimento
delle passioni umane. Essi crescono in ragione composta della popolazione e
dell'incrocicchiamento degl'interessi particolari che non è possibile
dirigere geometricamente alla pubblica utilità. All'esattezza matematica
bisogna sostituire nell'aritmetica politica il calcolo delle probabilità.
Si getti uno sguardo sulle storie e si vedranno crescere i disordini coi confini
degl'imperi, e, scemando nell'istessa proporzione il sentimento nazionale, la
spinta verso i delitti cresce in ragione dell'interesse che ciascuno prende
ai disordini medesimi: perciò la necessità di aggravare le pene
si va per questo motivo sempre piú aumentando.
Quella forza simile alla gravità, che ci spinge al nostro ben essere,
non si trattiene che a misura degli ostacoli che gli sono opposti. Gli effetti
di questa forza sono la confusa serie delle azioni umane: se queste si urtano
scambievolmente e si offendono, le pene, che io chiamerei ostacoli politici,
ne impediscono il cattivo effetto senza distruggere la causa impellente, che
è la sensibilità medesima inseparabile dall'uomo, e il legislatore
fa come l'abile architetto di cui l'officio è di opporsi alle direzioni
rovinose della gravità e di far conspirare quelle che contribuiscono
alla forza dell'edificio.
Data la necessità della riunione degli uomini, dati i patti, che necessariamente
risultano dalla opposizione medesima degl'interessi privati, trovasi una scala
di disordini, dei quali il primo grado consiste in quelli che distruggono immediatamente
la società, e l'ultimo nella minima ingiustizia possibile fatta ai privati
membri di essa. Tra questi estremi sono comprese tutte le azioni opposte al
ben pubblico, che chiamansi delitti, e tutte vanno, per gradi insensibili, decrescendo
dal piú sublime al piú infimo. Se la geometria fosse adattabile
alle infinite ed oscure combinazioni delle azioni umane, vi dovrebbe essere
una scala corrispondente di pene, che discendesse dalla piú forte alla
piú debole: ma basterà al saggio legislatore di segnarne i punti
principali, senza turbar l'ordine, non decretando ai delitti del primo grado
le pene dell'ultimo. Se vi fosse una scala esatta ed universale delle pene e
dei delitti, avremmo una probabile e comune misura dei gradi di tirannia e di
libertà, del fondo di umanità o di malizia delle diverse nazioni.
Qualunque azione non compresa tra i due sovraccennati limiti non può
essere chiamata delitto, o punita come tale, se non da coloro che vi trovano
il loro interesse nel cosí chiamarla. La incertezza di questi limiti
ha prodotta nelle nazioni una morale che contradice alla legislazione; piú
attuali legislazioni che si escludono scambievolmente; una moltitudine di leggi
che espongono il piú saggio alle pene piú rigorose, e però
resi vaghi e fluttuanti i nomi di vizio e di virtú, e però nata
l'incertezza della propria esistenza, che produce il letargo ed il sonno fatale
nei corpi politici. Chiunque leggerà con occhio filosofico i codici delle
nazioni e i loro annali, troverà quasi sempre i nomi di vizio e di virtú,
di buon cittadino o di reo cangiarsi colle rivoluzioni dei secoli, non in ragione
delle mutazioni che accadono nelle circostanze dei paesi, e per conseguenza
sempre conformi all'interesse comune, ma in ragione delle passioni e degli errori
che successivamente agitarono i differenti legislatori. Vedrà bene spesso
che le passioni di un secolo sono la base della morale dei secoli futuri, che
le passioni forti, figlie del fanatismo e dell'entusiasmo, indebolite e rose,
dirò cosí, dal tempo, che riduce tutti i fenomeni fisici e morali
all'equilibrio, diventano a poco a poco la prudenza del secolo e lo strumento
utile in mano del forte e dell'accorto. In questo modo nacquero le oscurissime
nozioni di onore e di virtú, e tali sono perché si cambiano colle
rivoluzioni del tempo che fa sopravvivere i nomi alle cose, si cambiano coi
fiumi e colle montagne che sono bene spesso i confini, non solo della fisica,
ma della morale geografia.
Se il piacere e il dolore sono i motori degli esseri sensibili, se tra i motivi
che spingono gli uomini anche alle piú sublimi operazioni, furono destinati
dall'invisibile legislatore il premio e la pena, dalla inesatta distribuzione
di queste ne nascerà quella tanto meno osservata contradizione, quanto
piú comune, che le pene puniscano i delitti che hanno fatto nascere.
Se una pena uguale è destinata a due delitti che disugualmente offendono
la società, gli uomini non troveranno un piú forte ostacolo per
commettere il maggior delitto, se con esso vi trovino unito un maggior vantaggio.
Le precedenti riflessioni mi danno il diritto di asserire che
l'unica e vera misura dei delitti è il danno fatto alla nazione, e però
errarono coloro che credettero vera misura dei delitti l'intenzione di chi gli
commette. Questa dipende dalla impressione attuale degli oggetti e dalla precedente
disposizione della mente: esse variano in tutti gli uomini e in ciascun uomo,
colla velocissima successione delle idee, delle passioni e delle circostanze.
Sarebbe dunque necessario formare non solo un codice particolare per ciascun
cittadino, ma una nuova legge ad ogni delitto. Qualche volta gli uomini colla
migliore intenzione fanno il maggior male alla società; e alcune altre
volte colla piú cattiva volontà ne fanno il maggior bene.
Altri misurano i delitti piú dalla dignità della persona offesa
che dalla loro importanza riguardo al ben pubblico. Se questa fosse la vera
misura dei delitti, una irriverenza all'Essere degli esseri dovrebbe piú
atrocemente punirsi che l'assassinio d'un monarca, la superiorità della
natura essendo un infinito compenso alla differenza dell'offesa.
Finalmente alcuni pensarono che la gravezza del peccato entrasse nella misura
dei delitti. La fallacia di questa opinione risalterà agli occhi d'un
indifferente esaminatore dei veri rapporti tra uomini e uomini, e tra uomini
e Dio. I primi sono rapporti di uguaglianza. La sola necessità ha fatto
nascere dall'urto delle passioni e dalle opposizioni degl'interessi l'idea della
utilità comune, che è la base della giustizia umana; i secondi
sono rapporti di dipendenza da un Essere perfetto e creatore, che si è
riserbato a sé solo il diritto di essere legislatore e giudice nel medesimo
tempo, perché egli solo può esserlo senza inconveniente. Se ha
stabilito pene eterne a chi disobbedisce alla sua onnipotenza, qual sarà
l'insetto che oserà supplire alla divina giustizia, che vorrà
vendicare l'Essere che basta a se stesso, che non può ricevere dagli
oggetti impressione alcuna di piacere o di dolore, e che solo tra tutti gli
esseri agisce senza reazione? La gravezza del peccato dipende dalla imperscrutabile
malizia del cuore. Questa da esseri finiti non può senza rivelazione
sapersi. Come dunque da questa si prenderà norma per punire i delitti?
Potrebbono in questo caso gli uomini punire quando Iddio perdona, e perdonare
quando Iddio punisce. Se gli uomini possono essere in contradizione coll'Onnipossente
nell'offenderlo, possono anche esserlo col punire.
Abbiamo veduto qual sia la vera misura dei delitti, cioè
il danno della società. Questa è una di quelle palpabili verità
che, quantunque non abbian bisogno né di quadranti, né di telescopi
per essere scoperte, ma sieno alla portata di ciascun mediocre intelletto, pure
per una maravigliosa combinazione di circostanze non sono con decisa sicurezza
conosciute che da alcuni pochi pensatori, uomini d'ogni nazione e d'ogni secolo.
Ma le opinioni asiatiche, ma le passioni vestite d'autorità e di potere
hanno, la maggior parte delle volte per insensibili spinte, alcune poche per
violente impressioni sulla timida credulità degli uomini, dissipate le
semplici nozioni, che forse formavano la prima filosofia delle nascenti società
ed a cui la luce di questo secolo sembra che ci riconduca, con quella maggior
fermezza però che può essere somministrata da un esame geometrico,
da mille funeste sperienze e dagli ostacoli medesimi. Or l'ordine ci condurrebbe
ad esaminare e distinguere tutte le differenti sorte di delitti e la maniera
di punirgli, se la variabile natura di essi per le diverse circostanze dei secoli
e dei luoghi non ci obbligasse ad un dettaglio immenso e noioso. Mi basterà
indicare i principii piú generali e gli errori piú funesti e comuni
per disingannare sí quelli che per un mal inteso amore di libertà
vorrebbono introdurre l'anarchia, come coloro che amerebbero ridurre gli uomini
ad una claustrale regolarità.
Alcuni delitti distruggono immediatamente la società, o chi la rappresenta;
alcuni offendono la privata sicurezza di un cittadino nella vita, nei beni,
o nell'onore; alcuni altri sono azioni contrarie a ciò che ciascuno è
obbligato dalle leggi di fare, o non fare, in vista del ben pubblico. I primi,
che sono i massimi delitti, perché piú dannosi, son quelli che
chiamansi di lesa maestà. La sola tirannia e l'ignoranza, che confondono
i vocaboli e le idee piú chiare, possono dar questo nome, e per conseguenza
la massima pena, a' delitti di differente natura, e rendere cosí gli
uomini, come in mille altre occasioni, vittime di una parola. Ogni delitto,
benché privato, offende la società, ma ogni delitto non ne tenta
la immediata distruzione. Le azioni morali, come le fisiche, hanno la loro sfera
limitata di attività e sono diversamente circonscritte, come tutti i
movimenti di natura, dal tempo e dallo spazio; e però la sola cavillosa
interpetrazione, che è per l'ordinario la filosofia della schiavitù,
può confondere ciò che dall'eterna verità fu con immutabili
rapporti distinto.
Dopo questi seguono i delitti contrari alla sicurezza di ciascun particolare.
Essendo questo il fine primario di ogni legittima associazione, non può
non assegnarsi alla violazione del dritto di sicurezza acquistato da ogni cittadino
alcuna delle pene piú considerabili stabilita dalle leggi.
L'opinione che ciaschedun cittadino deve avere di poter fare tutto ciò
che non è contrario alle leggi senza temerne altro inconveniente che
quello che può nascere dall'azione medesima, questo è il dogma
politico che dovrebb'essere dai popoli creduto e dai supremi magistrati colla
incorrotta custodia delle leggi predicato; sacro dogma, senza di cui non vi
può essere legittima società, giusta ricompensa del sacrificio
fatto dagli uomini di quell'azione universale su tutte le cose che è
comune ad ogni essere sensibile, e limitata soltanto dalle proprie forze. Questo
forma le libere anime e vigorose e le menti rischiaratrici, rende gli uomini
virtuosi, ma di quella virtú che sa resistere al timore, e non di quella
pieghevole prudenza, degna solo di chi può soffrire un'esistenza precaria
ed incerta. Gli attentati dunque contro la sicurezza e libertà dei cittadini
sono uno de' maggiori delitti, e sotto questa classe cadono non solo gli assassinii
e i furti degli uomini plebei, ma quelli ancora dei grandi e dei magistrati,
l'influenza dei quali agisce ad una maggior distanza e con maggior vigore, distruggendo
nei sudditi le idee di giustizia e di dovere, e sostituendo quella del diritto
del piú forte, pericoloso del pari in chi lo esercita e in chi lo soffre.
V'è una contradizione rimarcabile fralle leggi civili, gelose custodi
piú d'ogni altra cosa del corpo e dei beni di ciascun cittadino, e le
leggi di ciò che chiamasi onore, che vi preferisce l'opinione. Questa
parola onore è una di quelle che ha servito di base a lunghi e brillanti
ragionamenti, senza attaccarvi veruna idea fissa e stabile. Misera condizione
delle menti umane che le lontanissime e meno importanti idee delle rivoluzioni
dei corpi celesti sieno con piú distinta cognizione presenti che le vicine
ed importantissime nozioni morali, fluttuanti sempre e confuse secondo che i
venti delle passioni le sospingono e l'ignoranza guidata le riceve e le trasmette!
Ma sparirà l'apparente paradosso se si consideri che come gli oggetti
troppo vicini agli occhi si confondono, cosí la troppa vicinanza delle
idee morali fa che facilmente si rimescolino le moltissime idee semplici che
le compongono, e ne confondano le linee di separazione necessarie allo spirito
geometrico che vuol misurare i fenomeni della umana sensibilità. E scemerà
del tutto la maraviglia nell'indifferente indagatore delle cose umane, che sospetterà
non esservi per avventura bisogno di tanto apparato di morale, né di
tanti legami per render gli uomini felici e sicuri.
Quest'onore dunque è una di quelle idee complesse che sono un aggregato
non solo d'idee semplici, ma d'idee parimente complicate, che nel vario affacciarsi
alla mente ora ammettono ed ora escludono alcuni de' diversi elementi che le
compongono; né conservano che alcune poche idee comuni, come piú
quantità complesse algebraiche ammettono un comune divisore. Per trovar
questo comune divisore nelle varie idee che gli uomini si formano dell'onore
è necessario gettar rapidamente un colpo d'occhio sulla formazione delle
società. Le prime leggi e i primi magistrati nacquero dalla necessità
di riparare ai disordini del fisico dispotismo di ciascun uomo; questo fu il
fine institutore della società, e questo fine primario si è sempre
conservato, realmente o in apparenza, alla testa di tutti i codici, anche distruttori;
ma l'avvicinamento degli uomini e il progresso delle loro cognizioni hanno fatto
nascere una infinita serie di azioni e di bisogni vicendevoli gli uni verso
gli altri, sempre superiori alla providenza delle leggi ed inferiori all'attuale
potere di ciascuno. Da quest'epoca cominciò il dispotismo della opinione,
che era l'unico mezzo di ottenere dagli altri quei beni, e di allontanarne quei
mali, ai quali le leggi non erano sufficienti a provvedere. E l'opinione è
quella che tormenta il saggio ed il volgare, che ha messo in credito l'apparenza
della virtú al di sopra della virtú stessa, che fa diventar missionario
anche lo scellerato, perché vi trova il proprio interesse. Quindi i suffragi
degli uomini divennero non solo utili, ma necessari, per non cadere al disotto
del comune livello. Quindi se l'ambizioso gli conquista come utili, se il vano
va mendicandoli come testimoni del proprio merito, si vede l'uomo d'onore esigerli
come necessari. Quest'onore è una condizione che moltissimi uomini mettono
alla propria esistenza. Nato dopo la formazione della società, non poté
esser messo nel comune deposito, anzi è un instantaneo ritorno nello
stato naturale e una sottrazione momentanea della propria persona da quelle
leggi che in quel caso non difendono bastantemente un cittadino.
Quindi e nell'estrema libertà politica e nella estrema dipendenza spariscono
le idee dell'onore, o si confondono perfettamente con altre: perché nella
prima il dispotismo delle leggi rende inutile la ricerca degli altrui suffragi;
nella seconda, perché il dispotismo degli uomini, annullando l'esistenza
civile, gli riduce ad una precaria e momentanea personalità. L'onore
è dunque uno dei principii fondamentali di quelle monarchie che sono
un dispotismo sminuito, e in esse sono quello che negli stati dispotici le rivoluzioni,
un momento di ritorno nello stato di natura, ed un ricordo al padrone dell'antica
uguaglianza.
Da questa necessità degli altrui suffragi nacquero i
duelli privati, ch'ebbero appunto la loro origine nell'anarchia delle leggi.
Si pretendono sconosciuti all'antichità, forse perché gli antichi
non si radunavano sospettosamente armati nei tempii, nei teatri e cogli amici;
forse perché il duello era uno spettacolo ordinario e comune che i gladiatori
schiavi ed avviliti davano al popolo, e gli uomini liberi sdegnavano d'esser
creduti e chiamati gladiatori coi privati combattimenti. Invano gli editti di
morte contro chiunque accetta un duello hanno cercato estirpare questo costume,
che ha il suo fondamento in ciò che alcuni uomini temono piú che
la morte, poiché privandolo degli altrui suffragi, l'uomo d'onore si
prevede esposto o a divenire un essere meramente solitario, stato insoffribile
ad un uomo socievole, ovvero a divenire il bersaglio degl'insulti e dell'infamia,
che colla ripetuta loro azione prevalgono al pericolo della pena. Per qual motivo
il minuto popolo non duella per lo piú come i grandi? Non solo perché
è disarmato, ma perché la necessità degli altrui suffragi
è meno comune nella plebe che in coloro che, essendo piú elevati,
si guardano con maggior sospetto e gelosia.
Non è inutile il ripetere ciò che altri hanno scritto, cioè
che il miglior metodo di prevenire questo delitto è di punire l'aggressore,
cioè chi ha dato occasione al duello, dichiarando innocente chi senza
sua colpa è stato costretto a difendere ciò che le leggi attuali
non assicurano, cioè l'opinione, ed ha dovuto mostrare a' suoi concittadini
ch'egli teme le sole leggi e non gli uomini.