Biblioteca Multimediale Marxista
Daniel L. Horowitz1 divide la storia del sindacato in fasi ben distinte l’una
dall’altra: nella prima, che va dall’unità d’Italia a
tutto il decennio 1880, si assiste alla diffusione delle società di mutuo
soccorso, alla penetrazione delle idee mazziniane e bakuniniane sui luoghi di
lavoro, nelle campagne e negli opifici, che ospitano le prime forme di organizzazione
sindacale; nella seconda fase nascono le camere del lavoro (cdl), luoghi di vera
e propria organizzazione operaia che si sviluppano a ridosso dei primi complessi
industriali significativi, segnatamente a Milano, Torino, Piacenza. Fino a questo
momento, tuttavia, l’organizzazione dei lavoratori resta frammentaria, dislocata
nelle città e nelle zone agricole a maggiore concentrazione di manodopera:
non esistono ancora le condizioni per una generale rappresentanza degli interessi
della classe lavoratrice, poiché troppo diverse sono le condizioni della
produzione in una economia essenzialmente agricola e artigianale.
Con la crescita
della presenza manifatturiera il movimento dei lavoratori comincia ad acquisire
progressivamente un respiro nazionale, segnato dalla nascita nel 1906 della Confederazione
Generale Del Lavoro (cgdl). Nel ricordo di Guglielmo Epifani e Vittorio Foa, l’evento
che innescò il processo federativo fu il primo sciopero generale proclamato
congiuntamente dalle Camere del Lavoro di Milano e di Monza nel 1904, per protestare
duramente contro gli eccidi e le repressioni delle manifestazioni operaie avvenute
nelle estreme periferie della penisola, tra i lavoratori più reietti, quelli
delle miniere di Buggerru in Sardegna e quelli dei latifondi siciliani, tra i
più arretrati del Paese:
Molte sono le ragioni che fanno di quello sciopero una pagina decisiva per la nascita e l’identità della Confederazione generale del lavoro. Intanto il suo contesto nazionale e generale: è la prima volta che uno sciopero riguarda tutti i lavoratori italiani, quelli del Nord e quelli del Sud, quelli dei campi e quelli delle fabbriche, le officine e le miniere. […] La repressione aveva colpito persone umili, fiaccate dalla fatica del lavoro, che si battevano per affermare un diritto di libertà: la propria libertà di costruire il sindacato, di organizzarsi, di restare uniti per avere più forza, di poter avanzare rivendicazioni e proposte per migliorare la propria condizione di lavoro, davvero in molti casi miserabile. In questo modo una rivendicazione di democrazia e di libertà diventava una mobilitazione per la democrazia e la libertà di tutti. A quel primo sciopero il governo avrebbe risposto con elezioni anticipate, il 6 e il 13 novembre 1904.2
Era sicuramente il segno dell’emergere, sul piano nazionale, di una classe sociale che domandava rappresentanza e democrazia, ma era anche – su un altro piano – il segno della maturazione di un corpo industriale nazionale che cominciava ad uniformare i modi del lavoro sul piano nazionale, secondo le prassi provenienti dall’esperienza degli opifici inglesi, francesi, tedeschi, belgi e olandesi.
La Camera del Lavoro di Torino nasce il 1° maggio 1891 ad opera dell’operaista
Osvaldo Gnocchi Viani che su iniziativa di alcuni esponenti del Partito operaio
e di alcune personalità della Lega democratica e sociale, dal disegnatore
meccanico Dante Racca al gasista Pier Giorgio Daghetto, dal commesso Paolo Alessi
al tipografo Vittorio Chenal, costituirono prima una “Confederazione operaia”
per istituire nella città una “Borsa del lavoro”, sull’esempio
della Bourse du travail parigina.
Ma è solo dal settembre 1891 che
la Camera del Lavoro apre i suoi uffici in via Basilica, allorché il Consiglio
della maggiore organizzazione della città, l’AGO (Associazione Generale
degli Operai), decide di aderirvi formalmente.3
La Camera del Lavoro nasce
apolitica dovendo trattare esclusivamente delle “loro questioni, attenendosi
assolutamente allo studio degli interessi economici di prestatori d’opera
e di tutto quanto rifletta al miglioramento morale e materiale della classe operaia
in generale [e] non si potrà assolutamente tenere nella sede alcuna riunione
avente carattere di partito politico e religioso, essendo la C.d.L. affatto estranea,
e tale dovendo rimanere, alle suddette questioni”4.
I compiti della
Camera del Lavoro si riducono praticamente all’Ufficio di collocamento,
alla vigilanza sull’applicazione della legge sui probiviri (a partire dal
1893) e a un’opera di conciliazione assai limitata, per altro, tra singoli
operai e imprenditori. L’istituzione appare così “innocente”
che il Comune conservatore di Torino e l’amministrazione provinciale le
stanziano, nel 1891, 5000 lire di sussidio annuo e le offrono un locale municipale,
in via della Zecca, accanto all’Ufficio di leva5.
Promotore dell’iniziativa
fu lo scrittore Edmondo De Amicis, allora consigliere comunale, che si stava avvicinando
al movimento socialista.
“Alle sue manifestazioni pubbliche erano presenti
le autorità, deputati liberali e notabili locali, e non mancavano professioni
di fedeltà allo Stato e alla Corona; i giornali della borghesia progressista,
come la “Gazzetta piemontese” (quella che si sarebbe poi chiamata
“La Stampa”), si dicevano certi che la Camera del Lavoro avrebbe avuto
una funzione positiva nel rappresentare i lavoratori evitando qualunque comportamento
irresponsabile”6.
Fu solo grazie al pragmatismo di alcuni organizzatori
democratici e socialisti, e alla loro capacità di sfruttare gli spazi che
il nuovo organismo offriva (l’articolo 2 dello Statuto indicava tra gli
scopi anche il negoziato in caso di conflitti di lavoro), che poco a poco –
e non senza forti contrasti – la Camera del Lavoro diventò il punto
di riferimento per alcune agitazioni operaie. Tant’è vero che nei
primi anni essa non aveva, in molti casi, nessun ruolo negli scioperi. Solo nel
1893-94, secondo la Questura torinese, essa poteva dirsi definitivamente conquistata
dai socialisti e orientata a un intervento fattivo e diretto nelle lotte. e anche
allora non era raro che singole leghe operaie promuovessero scioperi senza consultare
affatto la Camera del Lavoro, che interveniva poi a cose fatte, tentando solo
– il più delle volte – di operare una mediazione e una conciliazione
tra maestranze e imprenditori. Fu questo, per esempio, il caso di una famosa vertenza
che nel 1896 riguardò circa 200 operai della conceria Fiorio, al Martinetto,
la quale finì in realtà per provocare la cessazione del contributo
municipale e della concessione di locali pubblici alla Camera del Lavoro (che
si trasferisce, il 22 agosto 1897, nella sede dell’Associazione generale
degli operai, in corso Siccardi 12) accusata dalla maggioranza comunale (e dal
padronato) di organizzare una raccolta di fondi di solidarietà per gli
operai Fiorio e – più in generale – di non svolgere più
i compiti con cui era nata, in primo luogo il collocamento7.
A quella data
la Camera del Lavoro di Torino aveva poco più di 5.500 iscritti ed era
strutturata in 36 sezioni; la categoria di gran lunga più rappresentata
era proprio quella dei pellettieri (1.200 iscritti), seguita dai lavoranti del
libro e da altre minori. Il che confermava tra l’altro la difficoltà
che un organismo di quel genere aveva nel rappresentare i settori di punta della
classe operaia cittadina, come i tessili e i metallurgici.
D’altra
parte, se si considera che nel 1898 (secondo un censimento del Comune) gli operai
torinesi erano oltre 80.000, 14.000 dei quali risultavano metallurgici e meccanici,
ci si rende conto di come la Camera del Lavoro fosse allora una realtà
che rappresentava solo una ristretta minoranza. E ciononostante essa costituiva
pur sempre la punta più avanzata del movimento operaio, quella che si confrontava
(seppur ancora contraddittoriamente) con i problemi della resistenza e degli scioperi,
mentre le società operaie liberali – che non erano poche –
continuavano a limitarsi al mutuo soccorso e il mondo cattolico rimaneva ancora
del tutto ai margini dell’associazionismo operaio (fin dagli anni Settanta
esistevano, a Torino e in altri centri piemontesi, delle “Unioni degli operai
cattolici”, amministrate da ecclesiastici, che avevano scopi essenzialmente
morali, mentre i primi, timidi tentativi di dar vita a una “democrazia cristiana”
venivano bloccati dall’ostilità delle gerarchie cattoliche)8.
“Il secolo si chiudeva dunque in una situazione di precarietà e di
incertezza, sotto i colpi continui della repressione; nel 1898 la commissione
esecutiva della Camera del Lavoro di Torino fu sciolta d’autorità,
insieme ad altri organismi come la Lega ferrovieri, dopo i gravi fatti milanesi
che avevano visto l’esercito sparare sulla folla, e si ricostituì
solo l’anno seguente, per iniziativa soprattutto del falegname Domenico
Ottone. Ma intanto una fase di nuovo sviluppo economico bussava alle porte; e
in pochi anni tutto sarebbe cambiato”9.
Tra ricostituzione e prime
sconfitte la Camera del Lavoro di Torino attraversa gli anni che lo separano dalla
guerra mondiale in una situazione sindacale vivacissima attraversando il periodo
giolittiano.
Nei mesi successivi alla guerra la Camera del Lavoro può
riprendere la sua azione di guida e di punto di incontro dell’intero movimento
sindacale locale. La prima significativa conquista operaia riguarda in particolare
le otto ore di lavoro e il riconoscimento delle commissioni interne, accordo sottoscritto
il 20 febbraio 1919. Si riorganizza, poi, nelle sue strutture rinnovando gli organi
dirigenti e la commissione esecutiva. “L’istituzione diventa il centro
di tutto il movimento operaio torinese; gli iscritti aumentano, le sezioni si
potenziano, a cominciare dal maggior organismo di categoria, la Fiom, mentre d’altra
parte la produzione industriale non viene interrotta, anzi è potenziata
e le maestranze ottengono miglioramenti salariali in quasi tutte le vertenze.
Dopo le spontanee sospensioni del lavoro dell’8 luglio 1919 per il caro-viveri
e la partecipazione allo sciopero di solidarietà con la Repubblica Sovietica
del 20-21 luglio, il fermento delle maestranze si addensa sull’industria
torinese nell’autunno inverno 1919-1920 e il proletariato vive un periodo
di intense lotte sindacali e politiche”10.
Questo nuovo protagonismo
dei lavoratori era uno dei fattori che più inquietava le classi dirigenti
e le spingeva a loro volta a organizzarsi per difendere i propri interessi e per
tentare di contrastare quello che a molti sembrava un vero e proprio disegno politico,
una strategia mirante all’instaurazione di un regime socialista e collettivista.
È in questo clima che nasce il movimento fascista, fondato nella primavera
del 1919 con un numero di adesioni assolutamente insignificante, presente all’inizio
solo in pochi grandi centri urbani, ma in grado poi di estendersi soprattutto
nei piccoli centri rurali e di rafforzarsi proprio esasperando – con toni
spesso rozzi e violenti – il tema della minaccia “bolscevica”
(il fascismo divenne un movimento di massa proprio organizzando, nelle campagne,
squadre armate contro le leghe contadine). Ed è in questo senso che si
può comprendere come una parte dei gruppi dirigenti locali, anche di sentimenti
schiettamente liberali, finì per simpatizzare e poi aderire a quel movimento,
che si rivelò abile nello sfruttare le paure e i sentimenti conservatori
dei ceti sociali più spaventati dalle lotte operaie e contadine, promettendo
di ristabilire ad ogni costo l’ordine infranto, sostituendosi ai governi
e alle amministrazioni pubbliche che invece – secondo la propaganda fascista
– si mostravano deboli e arrendevoli verso il sovversivismo di sinistra.
D’altra parte, la ‘grande paura’ (come fu definita all’epoca)
della borghesia e dei ceti medi sembrava giustificata dalla crescita impetuosa
del movimento operaio e socialista. Fin dai primi mesi seguenti alla fine della
guerra le organizzazioni dei lavoratori (sindacati operai e leghe bracciantili)
avevano moltiplicato gli iscritti; i circoli socialisti si erano diffusi un po’
in tutti i centri, grandi e piccoli, e al loro interno prevalevano le correnti
rivoluzionarie; i gruppi anarchici si distinguevano per la propaganda incendiaria.
Ma anche il movimento cattolico si rafforzava (soprattutto nelle campagne) e a
molti il ‘sindacalismo bianco’ sembrava non meno pericoloso di quello
rosso11.
Il movimento operaio, tuttavia, era alquanto più incerto e
diviso di quanto non apparisse ai suoi avversari “incapace sia di imboccare
la strada della collaborazione di governo con le forze di sinistra della borghesia,
sia di sfruttare in senso rivoluzionario la crisi del paese”12.
Il “biennio
rosso” culminò nell’agosto-settembre del 1920 con l’occupazione
delle fabbriche. Un episodio che, nato da una vertenza sindacale come tante altre,
assunse rapidamente un significato molto più ampio e influì in maniera
decisiva sugli sviluppi successivi della crisi italiana.
In gioco vi erano
gli equilibri di controllo delle fabbriche ed i ruoli delle commissioni interne
e dei Consigli di fabbrica su cui investivano i gruppi di sinistra del movimento
operaio, come quello torinese de “L’Ordine Nuovo”, per i quali
i Consigli rappresentavano un embrione di ciò che nella rivoluzione russa
erano stati i soviet: organismi non solo economici e contrattuali, ma rivoluzionari,
prefigurazioni del futuro potere comunista nelle fabbriche e nella società13.
Dopo lo “sciopero delle lancette” del 20 marzo e la firma dell’accordo
il 23 aprile in cui si firmò un accordo che esautorava i Consigli di fabbrica
e ridimensionava i poteri delle vecchie Commissioni Interne, i vertici sindacali
decisero, il 21 agosto, di mettere in atto il cosiddetto “ostruzionismo”,
cioè l’esecuzione volutamente rallentata delle operazioni lavorative
e la richiesta di osservare scrupolosamente tutte le norme per la sicurezza. “Le
maestranze fecero propria questa indicazione con una prontezza e una convinzione
che stupirono gli stessi organizzatori. E Torino divenne subito uno degli epicentri
di questo nuovo scontro”14. Si passò poi allo sciopero bianco e in
seguito alla decisione degli industriali torinesi di effettuare la serrata, gli
operai risposero occupando gli stabilimenti dando prova di saper gestire autonomamente
le fabbriche.
La conclusione della lotta (definita come “il capolavoro
di Giolitti”), positiva dal punto di vista sindacale ma spaventosamente
inadeguata se riferita alla tensione politica espressa, rappresenta un grave colpo
alle speranze create nel movimento operaio da un sindacalismo velleitario ed inconcludente.
Ma attraverso la disillusione cresce una diversa consapevolezza nel movimento
operaio che testimonia dei profondi mutamenti in esso avvenuti.
Allo sbandamento
che un tempo seguiva ogni sconfitta si sostituisce ora, nei militanti più
avvertiti, la richiesta di una revisione degli orientamenti politici e sindacali,
della linea strategica e dell’organizzazione.
Era però cambiato
completamente il clima. “E nella primavera del 1921 questo cambiamento fu
sancito dall’accordo che la Fiat riuscì a strappare ai sindacati
e con il quale venivano allontanati dalla fabbrica 2.600 operai, tra cui molti
degli attivisti responsabili dell’ondata di lotte dei due anni precedenti15.
L’indebolimento del socialismo piemontese, al quale l’ondata rivoluzionaria
aveva evidentemente alienato molte simpatie, si manifestò anche nelle successive
tornate elettorali, sia amministrative che politiche, con un calo sensibile dei
voti e un forte aumento dell’astensionismo. Mentre, per contro, crescevano
il peso e il ruolo politico del movimento fascista, sempre più aggressivo
e deciso a presentarsi all’opinione pubblica conservatrice come l’unico
sicuro baluardo contro il pericolo sovversivo. Iniziò allora lo stillicidio
di azioni punitive contro uomini e sedi del movimento operaio, messe in atto dalle
squadre fasciste spesso con la tollerante compiacenza delle autorità locali
di polizia; come la devastazione e l’incendio della Camera del Lavoro di
Torino, nella notte tra il 24 e il 25 aprile 1921, decisa per rappresaglia contro
l’omicidio di un fascista e avvenuta praticamente sotto gli occhi delle
guardie regie che sorvegliavano l’edificio16.
La sera della marcia su
Roma, ricorda Celestino Canteri17, un corteo di operai comunisti è sfilato
per le vie del centro (via XX Settembre, via P. Micca e via Cernaia) sciogliendosi
davanti alla Camera del lavoro in corso Siccardi. I fascisti reagiscono distruggendo
la sede del quotidiano del PCdI “L’Ordine Nuovo” in via Arcivescovado
e devastando i locali della birreria, del teatro, della biblioteca, dell’ambulatorio
medico della Camera del lavoro. Ma i comunisti non si piegano alla violenza. L’anniversario
della rivoluzione d’ottobre è celebrato il 4 novembre 1922 nella
casa del popolo di borgo Vittoria, con la partecipazione di oltre mille militanti.
Il 17 dicembre giungono a Torino gruppi ingenti di fascisti da altre città
del nord Italia. La stessa sera un giovane tranviere comunista, Francesco Prato,
mentre rincasa, in barriera Nizza, viene aggredito da un gruppo di fascisti. Prato
si difende rispondendo al fuoco e rimane ferito a una gamba; due “eroi”
fascisti, Lucio Bazzani e Giuseppe Dresda, sono feriti a morte.18
La macchina
della rappresaglia fascista scatta immediatamente.
Nella mattina del 18 dicembre
una cinquantina di fascisti irrompono nella Camera del lavoro presidiata dalle
guardie regie che cedono il passo agli squadristi. Il deputato socialista massimalista
Vincenzo Pagella, il segretario del sindacato dei metallurgici, Pietro Ferrero
e l’operaio Arturo Cozza sono picchiati a sangue.19
Mussolini, parlando
lo stesso 18 dicembre a Siena, afferma:
Gridatelo, gridatelo.
Lo Stato fascista è deciso a difendersi a tutti i costi con l’energia
più fredda e inesorabile. Sono il depositario della volontà della
migliore gioventù italiana. Ho doveri terribili da compiere e li compirò.
E l’eccidio comincia, dilagando in tutta la città.20
Alle 16 il procuratore del re e il capo dell’ufficio istruzione alla procura,
di ritorno dal sopralluogo a Nichelino dove è stato rinvenuto il cadavere
del segretario del sindacato ferrovieri, Carlo Berruti21, sono fermati in via
Nizza all’altezza del n.300. Nel retrobottega di una osteria trovano il
cadavere dell’esercente Leone Mazzola, 40 anni, ucciso da sconosciuti con
colpi d’arma da fuoco e da punta e taglio.22 Poco dopo tre fascisti armati
bussano all’uscio di casa dell’operaio Matteo Chiolerio in via Molinette
7 (oggi via Abbeg). Chiolerio sta cenando con la moglie e la figlia. La moglie
apre. Tre colpi di rivoltella fulminano Matteo ancora seduto al tavolo.
Matteo
aveva 27 anni, era un operaio comunista della azienda Tramvie municipali.23 Quasi
contemporaneamente un ragazzo di otto anni ritrova in borgo S. Paolo il corpo
inanimato di Giovanni Massaro abitante in via Nizza 279, ucciso con quattro colpi
di pistola.24
Verso le 20 il giovane compagno Erminio Andreoni, 24 anni, viene
prelevato mentre è a cena con la moglie e il figlio di 18 mesi. E’
portato nei pressi della cascina Ceresa (dove oggi sorge la maternità)
e ucciso con cinque colpi di pistola.25
Nella notte il compagno Matteo Tarizzo,
34 anni, viene trascinato fuori casa in via Canova 45 e ucciso a colpi di bastone
sulla testa.26 L’ultima vittima ufficiale della strage che si abbatte su
Torino - e che lascia morti e feriti ovunque - è il giovane compagno Evasio
Becchio, di 25 anni, fermato in via Nizza da una squadraccia la sera del 20 dicembre
e ucciso a colpi di rivoltella.27
Non si contano i feriti, le bastonature,
gli accoltellamenti, gli incendi di mobilio gettato nei cortili, le violenze più
bestiali, gli stupri, le minacce. Il circolo Carlo Marx, come tutti gli altri
di Torino, è devastato e incendiato.
Tre giorni dopo la strage di Torino,
in cui trovano la morte più di 50 persone, Mussolini firma il decreto di
amnistia che copre tutti i delitti commessi “per fine nazionale”.
Le istruttorie giudiziarie si concluderanno con un “non luogo a procedere”.28
E
qui si chiude, drammaticamente, il primo ciclo di vita della Camera del Lavoro
di Torino che ritroveremo dopo la lunga parentesi fascista.
“Dopo la lunga parentesi fascista, il sindacato libero che rinasce a Torino
nei primi giorni del maggio 1945 è l’espressione di tre diverse componenti:
una, più direttamente collegata al mondo del lavoro, è il Comitato
di agitazione, l’organismo di lotta sindacale e politica costruito nel periodo
clandestino a partire dall’inverno 1943-44; una seconda è la volontà
dei partiti di sostenere e promuovere un movimento sindacale che ritraduca nella
società l’unità costruita nella lotta antifascista; una terza,
infine, deriva dalla Cgil, la struttura organizzativa unitaria già operante
al sud e al centro e che tende a omologare a sé le strutture in via di
costituzione al nord. Queste tre componenti agiscono sul piano locale nella ridefinizione
di quella che sarà per un lungo tratto la struttura più importante,
la Camera del Lavoro”29.
Il Comitato di agitazione, “inventato”
dai comunisti in vista della preparazione dello sciopero generale del marzo ’43
e diffusosi nel corso dell’estate-autunno 1944. è presente in tutte
le officine con il compito della difesa della condizione operaia. Sono strutturati
per categoria e prefigurano un modello di sindacato verticale che dalla fabbrica
arriva alla rappresentanza della categoria e dà la sua massima prova nello
sciopero generale pienamente riuscito del 18 aprile 1945.
Il nuovo assetto
sindacale, però, confermerà una struttura orizzontale, la Camera
del Lavoro, che ricalca la struttura del Comitato Sindacale clandestino sopravvissuto
stentatamente durante la lotta clandestina anche in seguito alle linee di divisione
nate in merito alla funzione del sindacato e cioè se esso debba o no occuparsi
di questioni politiche sua pure di ordine generale30.
“Il primo Congresso
della Cgil unitaria, tenutosi a Napoli nel gennaio 1945, mette, infatti, fortemente
l’accento sul primato dell’organizzazione orizzontale richiamandosi
alla storia sindacale prefascista che trova ora una riconferma, sia pure con i
necessari adattamenti al contesto profondamente mutato. Questa scelta ha una chiara
valenza politica: il prevalere di una gestione centralizzata del sindacato attraverso,
appunto, le Camere del Lavoro. In un paese devastato dalla guerra, su cui pesano
grosse incognite, interne e internazionali, che condizionano la ripresa di una
convivenza civile, lo spostamento al centro delle decisioni può apparire
un passo obbligato per contenere ed attenuare le lacerazioni che attraversano
il corpo sociale e rendere più agevole il compito che il sindacato si è
assunto di favorire la ricostruzione. E se questo principio vale per il sistema
politico e istituzionale in via di faticosa ricomposizione, vale anche per il
sindacato […] anche in funzione di verifica costante dei rapporti unitari”31.
Nel glorioso palazzo di corso Galileo Ferraris, liberato dai partigiani, si insediano
ufficialmente il 30 aprile i componenti indicati dai partiti di massa come segretari
della Camera del Lavoro: sono Luigi Carmagnola per il Psiup, Vittorio Flecchia
per il Pci, Luigi Rapelli per la Dc, tutte figure prestigiose sul paino locale.
La legittimazione per “acclamazione” avviene il 1° Maggio, quando
l’enorme corteo di lavoratori, partigiani, cittadini, che celebra, dopo
23 anni, la festa del lavoro attraversa la città e si ferma davanti alla
sede storica della CdL. Alla folla parlano i tre vicesegretari e il sindaco di
Torino, Roveda. La figura di quest’ultimo riassume emblematicamente la svolta
che si sta operando nel movimento operaio: il comunista che è stato l’ultimo
segretario della CdL di Torino, è ora sindaco della città e chiama
i lavoratori alla collaborazione per la ricostruzione. La contrapposizione tra
Stato e movimento operaio è, o dovrebbe essere, superata. In realtà
i problemi da affrontare per la Camera del Lavoro sono molti e assai complessi;
alcuni legati alla necessità e alle contingenze del momento; altri di carattere
più strutturale, legati al tessuto economico sociale in cui la CdL di Torino
si trova ad operare. La predominanza del settore industriale, rafforzato dall’emergere
al suo interno di un blocco di imprese di grandi dimensioni, è ulteriormente
complicata dal ruolo egemone in esso svolto dalla Fiat.32
In questo periodo
la CdL diventa il luogo di riferimento per migliaia di lavoratori e delle loro
famiglie, “uno dei pochi punti su cui contare e trovare risposte nella difficile
ricerca di una “normalità”.
Malgrado la composizione piuttosto
complessa dell’organo dirigente della CdL e la sua nomina attraverso canali
partitici, in assenza di una verifica elettorale, che ci sarà solo con
il “Congresso” del marzo 1947, esso rivelerà una coesione notevole,
senza incrinature di rilievo almeno per il primo anno di attività.
“Questa coesione – sostiene Dellavalle – è il risultato
di almeno tre fattori. Il primo è la necessità di far fronte ad
una massa soffocante di problemi sia interni sia di rapporti esterni; tale necessità
non lascia molto molto margine ai conflitti di schieramento e di collocazione
politica, per cui il gruppo dirigente della CdL fornisce un’impressione
prevalente di attivismo pragmatico. Il secondo è una convinta accettazione
dell’unità sindacale come condizione per evitare le esiziali contrapposizioni
del prefascismo e per ridare una collocazione dignitosa al soggetto lavoro, dopo
i mutamenti e le trasformazioni del ventennio e i drammi della guerra. Quella
che prevale è una concezione del sindacato come strumento di difesa ed
emancipazione del lavoro, una concezione moderata e riformista, che cerca di interpretare
l’irrefrenabile bisogno del lavoratore “a qualunque opinione politica
appartenga… di continuare nell’elevazione delle proprie condizioni
sino a quando una vera giustizia sociale non venga attuata”33.
Nei
primi mesi dopo la Liberazione, la CdL visse una fase caotica. Liquidato il personale
politico delle strutture sindacali fasciste lo si sostituì con quadri di
estrazione politica spesso di scarsa preparazione sindacale. Sul piano del funzionamento
interno vennero rapidamente riorganizzati gli uffici che dovevano coprire le aree
operative della CdL. Si ricostituirono i sindacati di categoria, o sezioni sindacali,
attraverso un processo che vede la CdL come fattore di impulso e di controllo
della rinascita sindacale. I Comitati di agitazione provinciali di categoria vengono
convocati della Commissione esecutiva camerale nella sede della CdL il 3 maggio.
I gruppi dirigenti dei Comitati di agitazione danno vita ai Consigli direttivi
provvisori di categoria dei rispettivi sindacati34.
Si ricostituirono le Commissioni
Interne che, per la loro natura di rappresentare un reale elemento di democrazia
legittimata dalla consultazione della volontà dei lavoratori, entravano
spesso in contrasto con la CdL per delimitarne gli spazi contrattuali. I segni
esterni del protagonismo operaio che si riconosceva nell’operaismo delle
C.I., sono rintracciabili nelle mobilitazioni spontanee del mese di giugno-luglio
1945 per acquisire minime garanzie salariali, nell’iniziativa da parte degli
operai Fiat nell’autunno del 1945, che impongono il superamento degli accordi
di luglio, e ancora, in un clima mutato, la mobilitazione del luglio 1946, a ridosso
del referendum istituzionale e delle elezioni per la Costituente35.
Incanalare
queste tensioni entro schemi riconosciuti, accettati, per la definizione del “nuovo
paese” è lo sforzo che il sindacato, non da solo, certo, ma in modo
convinto, compie.
“Alla base di questa scelta c’è un’ipotesi
di fondo che solo parzialmente si realizzerà; quella cioè di uno
scambio politico tra sacrifici del momento e pieno riconoscimento della cittadinanza
per le forze sociali e politiche da sempre escluse”36.
La CdL di Torino
supera, a fine ’45, le 200.000 unità che diventano 250.000 nel 1946
e sfiorando i 300.000 nel 1947 e 1948. I metalmeccanici costituiscono quasi la
metà degli iscritti37. Ma scarsa rimane la frequentazione degli iscritti
delle sedi sindacali, attraversate da un dualismo che si evidenzia tra sindacato
istituzione e sindacato movimento, di cui sono segnali i comportamenti delle C.I.
e gli scoppi della protesta dal basso, a cui si rivelano sensibili alcuni sindacati
di categoria o parti di esso, in special modo la Fiom. È una dinamica,
sottolinea Dellavalle, che si presenterà più volte e particolarmente
accentuata nel corso della storia del sindacato torinese38. Ancora oggi la Fiom
continua a sostenere queste posizioni che molto spesso entrano in conflitto con
le segreterie generali. Illuminante, a tal proposito, è la scelta di schierarsi
con il movimento della Val di Susa contro il TAV, il treno ad alta velocità,
privilegiando il dialogo e la partecipazione dei cittadini allo scontro che ha
contrapposto le forze dell’ordine al movimento No TAV.
L’espulsione
delle sinistre dal governo, la stretta creditizia e le linee di politica economica
volute da Einaudi per bloccare l’inflazione, anche a costo di pesanti costi
sociali, costituiscono i segnali più espliciti della fine della politica
di unità che ha caratterizzato il dopoguerra. In questo quadro tuttavia
i comportamenti sindacali riscontrabili in un grande centro industriale come Torino
non fanno registrare, se non nel linguaggio e nelle forme della propaganda, un
mutamento sostanziale rispetto alla fase precedente. Il gruppo dirigente della
CdL, in particolare i comunisti, paiono preoccupati di evitare un inasprimento
dei rapporti sociali, pur in presenza di indicatori come quelli della disoccupazione
che segnalano un netto peggioramento della situazione39.
I mesi che precedono
le elezioni del 18 aprile 1948 vedono una sostanziale tregua dell’attività
sindacale, per evitare di rendere più incandescente un clima già
di per sé surriscaldato dai toni di una campagna elettorale condotta senza
esclusione di colpi. La maggioranza della CdL segue con attenzione lo svilupparsi
della campagna ed è ovviamente vicina alla posizione del Fronte, ma è
anche bene attenta a non offrire appigli alla minoranza democristiana, che non
perde occasione di lanciare accuse di subordinazione del sindacato alle mire del
partito comunista e di pregiudiziale opposizione alle scelte del governo per ragioni
politiche e non sindacali40.
Il voto del 18 aprile, così pesantemente
negativo per la sinistra unita sotto il simbolo del Fronte popolare, non comporta
conseguenze immediate all’interno del sindacato, ma i rapporti tra le varie
componenti sono destinati a deteriorarsi rapidamente poiché nei militanti
della sinistra il carico delle delusioni e delle frustrazioni si fa troppo pesante;
per converso è inevitabile che il successo del voto alimenti un atteggiamento
di rivalsa da parte di chi si è sentito fino a quel punto minoranza emarginata
e ininfluente. È soprattutto nelle fabbriche che questi meccanismi comprensibili,
ma non per questo meno distruttivi, si mettono in moto, là dove è
più forte la contraddizione che ha aperto il voto del 18 aprile. La fabbrica
che aveva pensato di poter conquistare la società si trova invece assediata
da un paese che si è rivelato più moderato di quanto si potesse
supporre41.
È in questo clima che si inserisce l’attentato a
Togliatti, la reazione spontanea nelle fabbriche e la conclusione dello sciopero
il 16 luglio secondo le indicazione della Cgil nazionale. L’attentato a
Togliatti segnerà la conclusione dell’esperienza unitaria del dopoguerra.
A Torino la rottura risulterà particolarmente dolorosa perché, malgrado
le tensioni […] il gruppo dirigente torinese della corrente sindacale cristiana
è – rispetto alla situazione nazionale – tra quelli meno favorevoli
a liquidare l’esperienza unitaria. Ma il meccanismo messo in moto dalla
presa di posizione della corrente in sede Cgil nazionale non consente deroghe.
Ai dirigenti della corrente sindacale cristiana la Commissione esecutiva della
CdL torinese chiede di respingere in forma scritta il contenuto della mozione
del Consiglio nazionale delle Acli del 22 luglio che “dichiara infranta
definitivamente l’unità sindacale”. Nella risposta i sindacalisti
della corrente cristiana cercano di sottrarsi alla scelta evidenziando il carattere
non deliberativo della mozione e non riconoscendo la competenza della Commissione
esecutiva della CdL di Torino in materia. Ma tutto è inutile e l’espulsione
viene ratificata42.
Nello stesso giorno le Commissioni Interne della Fiat
espulsero per indegnità Arrighi e gli altri organizzatori democristiani,
oppostisi allo sciopero.
“La rottura sindacale era consumata. Ma se
a qualcuno, nella base comunista, quella poteva sembrare la fine di un equivoco
e la premessa per un’azione più incisiva, la realtà dimostrò
invece molto in fretta che il dopoguerra si stava chiudendo con una sostanziale
sconfitta dei lavoratori. Tutto, dalla situazione economica al quadro politico
e istituzionale, giocava ormai contro la possibilità che il movimento operaio
torinese potesse strappare risultati significativi, sulla base dei rapporti di
forza così sfavorevoli. Le imprese chiedevano mano libera per ristrutturare
gli impianti e inserirsi nella ripresa economica internazionale; il governo contrattava
con gli americani gli aiuti del piano Marshall; il sindacato era sempre più
diviso in componenti ideologiche e politiche contrapposte”43. Intorno al
piano Marshall e alle posizioni dei sindacati internazionali, cominciò
ad incrinarsi anche la compattezza della Federazione Sindacale Mondiale, di cui
si dirà dopo.
Quanto poteva ancora durare – si chiede Scavino
– la tenace e orgogliosa capacità di mobilitazione di massa della
classe operaia, priva di ogni prospettiva sociale e politica? Seguirono, infatti,
anni molto duri, segnati da una trasformazione radicale non solo degli assetti
produttivi, che portarono anche alla chiusura di molte aziende, ma anche degli
stili di vita, dei consumi, delle mentalità. A Torino la situazione si
è inasprita.
Nel corso del 1949, Scelba, Ministro degli Interni, utilizza
le forze dell’ordine in maniera repressiva per contrastare le manifestazioni
di piazza e gli scioperi. “Sono molti i lavoratori, soprattutto braccianti,
che vengono uccisi tra il 1949 e il 1950; enorme impressione suscita il 10 gennaio
1950 l’uccisione di 6 operai a Modena.
Ogni eccidio provoca una reazione
di sciopero e di intense manifestazioni di solidarietà sia sul paino nazionale
che su quello locale, così come un tentativo di intimidazione contro dei
cittadini da parte di alcuni attivisti del Msi scatena il 17 marzo 1950 una reazione
durissima dei lavoratori: lo sciopero generale si estende spontaneamente, la sede
del Msi in via Garibaldi viene assaltata e distrutta”44.
Un altro fronte
si apre alla Fiat con l’acuirsi della repressione nelle fabbriche, dove
un numero crescente di militanti viene licenziato o trasferito o messo in condizioni
di non nuocere. È un clima generale che non differisce molto da altre realtà.
“Ciò che rende diversa Torino è che in questa città
la contesa aspra, dura e crescente assume quasi un valore simbolico perché
si esprime con una purezza di contorni non rintracciabile altrove grazie al conflitto
che oppone la maggiore impresa privata all’organizzazione operaia più
strutturata e più forte. Dietro ai due contendenti, quasi un gioco di rinvii
concentrici, stanno altre forze, altri soggetti, più o meno partecipi,
ma tutti coinvolti. Da un lato la classe operaia Fiat, la Fiom, la CdL, la Cgil
e dietro anche il partito comunista, i socialisti e la sinistra con il loro radicamento
nella società e la grande capacità di mobilitazione; dall’altra
la Fiat, e più defilata l’Unione industriale, la Confindustria e
ancora il governo, tutti resi attenti dalla enorme forza di pressione che la Fiat
può esercitare”.45
“A esaltare la centralità della
Fiat nella vicenda sindacale torinese e nazionale era intervenuto anche un cambio
di guardia nella direzione della Camera del Lavoro. È lo stesso Di Vittorio
a investire della responsabilità di segretario generale, con una procedura
insolita, Egidio Sulotto, nominato segretario della Fiom torinese da poco più
di un anno, dopo essere stato allontanato da Valletta dal coordinamento dei Consigli
di gestione della Fiat. Viene scelta la persona che nel sindacato conosce meglio
i meccanismi di funzionamento della grande azienda e che indubbiamente sa imprimere
all’attività sindacale un impulso e uno stile efficaci. Evidentemente
il sindacato nazionale investe molto nella città della Fiat perché
ha avvertito che qui si gioca una partita di rilievo. Questa attenzione […]
sarà di scarso aiuto al gruppo dirigente torinese poiché lo costringerà,
nello sforzo di rispondere ad aspettative alte, a un eccesso di ideologia nelle
proprie scelte, rendendolo meno sensibile e meno pronto a reagire ai segnali che
la realtà gli invia e più disponibile a confermare schemi interpretativi
già elaborati che non a produrne di nuovi”46.
Gli anni ’50, segnati dalla discriminazione sindacale e dalla repressione
delle avanguardie in fabbrica, si caratterizzano come gli “anni duri”
che vedono il sindacato relegato in una funzione marginale, del tutto esterna
ai luoghi di lavoro.
Il passaggio dagli entusiasmi e dalla mobilitazione massiccia
del dopoguerra a questa sostanziale sconfitta delle organizzazioni dei lavoratori,
lacerate da divisioni ideologiche e private di vera forza contrattuale, è
senza dubbio impressionante. Ma non può essere attribuito solo alla violenza
della lotta politica dopo la rottura tra i partiti antifascisti e alle tentazioni
autoritarie delle classi dirigenti che pure vi furono (tanto che il puro e semplice
esercizio dell’azione sindacale nei luoghi di lavoro, durante questi anni,
fu sottoposto a limiti inauditi).
L’arretramento dei sindacati fu anche
la conseguenza di scelte politiche e di errori di strategia, in particolare dei
partiti di sinistra, forse inevitabili nel quadro complessivo dell’epoca
ma certo gravidi di conseguenze negative per le organizzazioni dei lavoratori.47
Un terreno fondamentale sul quale, nell’industria, i sindacati persero questo
confronto fu quello del rapporto tra salari e produttività, in cui quest’ultima
assunse un ruolo centrale nella struttura stessa delle retribuzioni lasciando,
quindi, larga parte della contrattazione alle singole aziende in cui i “nuovi”
sindacati nati dalla scissione assumevano un perso notevole grazie alla loro natura
aziendalistica, apolitica (così dicevano) e contrattualistica.
“Gli
anni ’50 furono così caratterizzati da un crollo dell’incisività
sindacale nelle fabbriche e da una piena e incontrollata capacità di manovra
delle aziende. La Cgil, sottoposta ad una feroce repressione, perse molti consensi
tra i lavoratori (nel 1955, alle elezioni per le C.I. alla Fiat, fu sorpassata
dalla Cisl, e l’anno seguente vi fu il trauma legato ai fatti d’Ungheria,
strumentalizzati dalle forze moderate per condurre contro le sinistre un’ulteriore
campagna di discriminazione), mentre gli altri sindacati, tentando di sviluppare
una contrattazione a tutto campo con le aziende, finivano in realtà per
essere confinati in un ruolo del tutto subalterno: vittime dei rapporti di forza
sfavorevoli, laddove un padrone più retrivo e chiuso ad ogni forma di contrattazione
(ed era il caso di tantissime piccole e medie aziende), oppure coinvolti senza
reali margini di autonomia in quelle operazioni di paternalismo aziendale che
caratterizzavano invece alcune grandi aziende”48.
Dalla fine del ’53
la più grande azienda torinese non partecipa più alle lotte; bisognerà
aspettare quasi 10 anni perché la classe operaia Fiat scenda di nuovo in
campo.49
“Quello che è entrato in crisi – sottolinea Claudio
Dellavalle, analizzando la sconfitta del progetto di produttivismo alternativo
che la Cgil e la sinistra hanno elaborato nel corso degli anni ’50 –
è un modello di relazioni sindacali, una concezione stessa di come fare
sindacato; non è facile né individuare le ragioni della crisi, né
elaborare una risposta che possa definire un nuovo modello. Le spiegazioni non
mancano, anzi, abbonderanno, ma il bandolo della matassa potrà essere trovato
solo qualche anno dopo, quando si aprirà un nuovo ciclo e la Cgil ne raccoglierà
la spinta e gli elementi di innovazione”50. Quando maturerà “la
trasformazione decisiva nella coscienza della classe e si porranno le basi della
modificazione della sua composizione organica. Ma essa darà i suoi esiti,
in un nuovo equilibrio tra operai specializzati, qualificati e comuni, dapprima
nel ripiegamento e nella sconfitta di un’avanguardia, e poi – in questa
nuova classificazione delle forze – nella ripresa dell’inizio degli
anni Sessanta, sino all’autunno caldo. Gli operai specializzati e qualificati
assolveranno allora un altro ruolo, quello degli organizzatori e dei mediatori
nel cambiamento, finché sarà loro possibile, nell’emergere
e nel prevalere degli operai comuni”51.
1 Cfr. D. L. Horowitz, Storia del movimento sindacale in Italia, Il Mulino, Bologna 1972.
2 G. Epifani e V. Foa, Cent’anni dopo. Il sindacato dopo il sindacato, Einaudi, Torino 2006, p. 4.
3 Cfr. Paolo Spriano, Storia di Torino operaia e socialista – da De Amicis a Gramsci -, Einaudi, To, 1972, III edizione, pp. 23-24.
4 Ivi, p. 24
5 Ibidem
6 Marco Scavino, “Se otto ore vi sembran poche…” – Lotte operaie e contadine in Piemonte dall’Unità a oggi, Editrice Il Punto, Torino, settembre 2001, p. 32.
7 Ivi, p. 33
8 vi, pp.33-34.
9 Ivi, p. 34
10 Mario Grandinetti, Dalle origini al fascismo, in A. Ballone, C. Dellavalle e M. Grandinetti, Il tempo della lotta e dell’organizzazione – Linee di storia della Camera del Lavoro di Torino, Feltrinelli Editore, Milano, prima edizione “Fuori collana”, aprile 1992, p. 68. Il volume è stato pubblicato in occasione del centenario della Camera del Lavoro di Torino (1891-1991).
11 Marco Scavino, “Se otto ore…”, op. cit., pp. 64-65.
12 Ivi, p. 66
13 Ivi, p. 67
14 Ivi, p. 68.
15 Ivi, pp.73-74.
16 Ivi, pp.74-75
17 Cfr. Celestino Canteri, Memorie del nostro ‘900 – Circoli comunisti, lotte e vita nella Torino capitale operaia, a cura di Donato Antoniello, Jaca Book, Milano, 2004, p.68
18
Su questo episodio e sulle stragi fasciste compiute a Torino, rinvio all’ottimo
lavoro – introvabile, ormai -di Giancarlo Carcano, Strage a Torino –
Una storia italiana dal 1922 al 1971, Ed. LA PIETRA, Milano 1973, che inizia:
“Torino, 18-19-20 dicembre 1922: ‘dopo uno scontro in barriera di
Nizza tra un gruppo di fascisti e un comunista, gli squadristi uccidono per rappresaglia
11 persone, e infliggono ad altri 30 inermi cittadini lesioni più o meno
gravi. Ma i morti, dichiarano i fascisti, sono più numerosi di quelli accertati.
Il 21 dicembre, in un’intervista apparsa sulla Stampa, il console della
Milizia Pietro Brandimarte afferma: “Abbiamo voluto dare un esempio, perché
i comunisti comprendano che non impunemente si attenta alla vita dei fascisti”.
p.5
17 dicembre 1922 a Torino, una sera cupa, con sfoghi di nebbia, freddo
a zero gradi. La domenica finiva come le altre, con operette all’Alfieri
e al Balbo, Talli-Borelli-Ruggieri al Carignano, un Benelli al Chiarella, poi
marionette, poi Casaleggio, un dramma, riviste. Alla mattina i fascisti avevano
consegnato il nuovo gagliardetto alla squadra “Francesco Baracca”,
comandante “l’artista e pilota Carlo Tamberlani”. L’intera
legione di Torino, console Brandimarte, l’aiutante Macellari, il direttorio
Monferrino-Voltolina-Scarampi, tutti all’Alfieri. Madrina della “fiamma”
la signora Alda Borelli, molto commossa. Tutto questo si apprende dalla “Gazzetta
del Popolo” del 18 dicembre. Da Parma erano venute squadre comandate dal
seniore Caramatti, “balde squadre” scrive il cronista. Dopo i discorsi
(Brandimarte, Gobbi, Bardanzellu) gli squadristi erano sfilati per via Pietro
Micca, via Roma, corso Vittorio, cantando “Giovinezza”. Si erano fermati
in corso Cairoli, davanti alla sede del Fascio. Erano in molti, con rinforzi giunti
dall’Emilia e altri ancora. Tanti erano i fascisti venuti a Torino quel
giorno e ora si trovavano insieme, eccitati e frenetici. Tutto ciò solo
per caso?
La domenica dunque si spegneva e quella sera Prato Francesco, tranviere,
anni 23, di Valmacca (Alessandria), militante comunista, attivamente operante
a Torino, detestato dai fascisti, sparò, uccidendone due e ferendone un
terzo. Lui stesso rimase ferito (p.38). La morte dei due fascisti anticipò
la “lezione” che i fascisti dovevano dare a Torino. La sparatoria,
disse Robotti a Prato due giorni dopo, prima di partire per la Svizzera e successivamente
per l’Unione Sovietica, fu un pretesto. In mancanza di te, avrebbero trovato
altro. (p.49)
Le tracce dell’ex tranviere comunista Francesco Prato
si perdono in Unione Sovietica nel 1934. Da allora, più nulla si è
saputo di lui. (p.52)
19 Ore 11.30: una cinquantina di fascisti della Coorte “Randaccio”, le squadre “Toti”, “Battisti” e “Pini”, con l’ex “disperato” Mariotti al comando, irrompono nella Camera del Lavoro, in corso Galileo Ferraris. Fatica non ne fanno. Teoricamente non dovrebbero poter entrare, ma i cronisti benevoli dicono che questi “arditi” si muovono con celerità. Le guardie regie di servizio, colpite da tanto dinamismo, lasciano il passo, liberano l’ingresso. I fascisti entrano, l’edificio pare deserto. Porte aperte e rinchiuse, non c’è nessuno. Una porta non si apre, ma cede con qualche spallata. Dentro la stanza tre persone, tra cui il deputato socialista Pagella. Da “La Stampa” del 19 dicembre: “Quello che sia avvenuto in quel momento non possiamo affermare con precisione, essendo diverse le versioni. Il fatto è che poco dopo dal portone della Camera del Lavoro uscivano due ambulanze”. Portano all’ospedale Pagella e il ferroviere Arturo Cozza, 47 anni, feriti alla testa. Ufficialmente Cozza ne avrà per 40 giorni. Pagella, più fortunato, se la caverà in dieci. Ma nella stanza c’era anche Pietro Ferrero, segretario dei metallurgici. Prende la sua parte di pugni, poi lo lasciano andare, stranamente. Giovanni Roveda, segretario della Camera del lavoro, fa appena in tempo a salvarsi: “Il commissario della zona, Azzari, mi disse di allontanarmi al più presto”. I fascisti telefonano in questura con tono di conquistatori: “La Camera del lavoro è in mano nostra, medichiamo i contusi”. Ivi, pp.56-57.
20 La
strage comincia all’indomani dello scontro con Prato. Le lunghe ore di violenza
dalla mezzanotte del 17 a mezzogiorno del 18 passano senza morti. Gli omicidi
si scatenano dopo dodici ore. Perché? Eppure i fascisti hanno avuto nelle
mani Pietro Ferrero e altri nemici. Aspettavano ordini? Roma sapeva della mobilitazione.
I dispacci partivano dalla prefettura con tempestività. Chi diede ordine
di lasciare via libera ai fascisti di Torino?
Dalla “Gazzetta del Popolo”:
“Nel pomeriggio 400 fascisti, la maggior parte armati, operarono un’incursione
nel circolo comunista ‘Carlo Marx’, in barriera di Nizza, riuscendo
a occuparlo. Quasi contemporaneamente gli squadristi si insediavano nel Circolo
dei ferrovieri. Molte case furono visitate e perquisite dai fascisti. I comunisti
più noti subirono personali perquisizioni ed alcuni che vollero opporre
resistenza furono bastonati e feriti”. Dalla relazione Tabusso alla comissione
d’inchiesta: “E’ anche vero che mentre costoro… stavano
concentrandosi, il primo morto lo si aveva ad opera di altri fascisti sconosciuti
che erano riusciti a rapire in automobile il Berruti e a passarlo per le armi”.
Ivi, p.58
21 Corso Re Umberto 48, angolo Via Valeggio. Il
vecchio edificio non esiste più. Un caseggiato moderno di nove piani sostituisce
il pesante palazzo di un tempo. All’epoca di questi fatti si percorreva
l’androne e, in fondo al cortile, a destra, dietro a una porta a vetri,
c’era un ufficio delle Ferrovie, per il controllo dei prodotti. È
il 18 dicembre 1922. Qualche impiegato, qualche fattorino. Nell’ufficio
lavorano Carlo Berruti (40 anni, consigliere comunale comunista, segretario del
Sindacato ferrovieri), Angelo Quintagliè (senza partito, uomo d’ordine)
e il socialista Fanti. Incerta l’ora, tra mezzogiorno e le due. La nebbia
s’è un poco alzata, la giornata s’è schiarità,
il freddo è forte. Negli uffici si lavora con la luce accesa. Il solito
tran-tran, fruscio di carte e timbri nel sottofondo, rapide consultazioni.
Rumore
di passi nel cortile. Dieci fascisti irrompono negli uffici. Sono della “Toti”.
Chi li comanda?
Dal processo contro Brandimarte, Firenze 1950. Teste Aroldo
Semolini, collega del Berruti: “Tutti dicevano che li comandava Brandimarte,
non ne ho la prova provata. Quando i fascisti spinsero fuori Berruti e Fanti chiese
che cosa volessero da loro, mi dissero di preparare pure la corona di fiori”.
Fanno
salire il Berruti in macchina con il Fanti. Segue un’altra macchina, zeppa
di fascisti. Vanno in corso Vittorio, raggiungono corso Cairoli. L’annuncio,
come un grido di vittoria: “Catturati!”. I prigionieri sostano nell’auto,
tenuti attentamente d’occhio. Passa un po’ di tempo… Giunge
un fascista giovanissimo, elegante. Sale sull’auto dove sta Berruti. Con
un cenno indica la periferia. Sentenza di morte? Berruti scambia qualche parola
con Fanti e con un ex compagno passato dall’altra parte. L’auto si
ferma. Fanti è lasciato libero. L’auto riparte. Arriva in campagna,
nei pressi di Nichelino. Pietro Comollo, allora diciottenne, era insieme ad alcuni
colleghi vicino al prato dove si era fermata la macchina: “… Un’auto
scoperta. Faceva freddo ma era scoperta… credo che i fascisti non ci videro.
Avevo paura, un momento di paura l’ho avuto. Restai come una statua. Credo
che anche i miei amici restarono immobili per la paura. I fascisti erano tre o
quattro. Scesero spingendo avanti uno. Sull’auto c’era un uomo seduto.
Non so chi. Dunque spinsero avanti uno, lo fecero andare per un sentiero e lui
camminò tranquillo senza voltarsi. E gli spararono, tre o quattro colpi
nella schiena. Noi restammo senza fiato. Se ci avessero veduti eravamo come dei
piccioni, uno scherzo per uomini armati. Non ci videro. Lui cadde giù.
Ricordo che cadde lentamente. In fretta quelli salirono sull’auto e sparirono
a gran velocità… Dopo un poco ci siamo avvicinati. Alcuni amici dissero
che c’era Mariotti su quella macchina, con quei delinquenti, ma io non saprei.
Forse c’era anche il traditore Porro. Ci avvicinammo al morto, non lo riconoscemmo
subito. Nella borsa c’erano le cartelle del Partito comunista intestate
a Carlo Berruti. Non avremmo saputo riconoscerlo con certezza, qualche dubbio
si poteva avere, ma le carte parlavano chiaro. Poi è venuta della gente
e anche i carabinieri, mi ricordo sempre che c’era un maresciallo a cavallo.
Berruti restò un bel po’ steso per terra”. (Ivi, p59-60)
22 … Nel retrobottega, la camera da letto. C’è sangue dappertutto. Per terra crivellato di proiettili e con l’addome squarciato da una pugnalata, il cadavere di Leone Mazzola. Non è difficile ricostruire i fatti. I fascisti erano piombati poco prima nell’osteria: “Su le mani. Generalità!”. Perquisiscono i presenti. Un certo Ernesto Ventura, trovato in possesso di una tessera del Partito socialista, fu ferito con un colpo di rivoltella. Sembra che Mazzola abbia protestato contro l’invasione della sua osteria. Fu condotto nell’attigua camera da letto, che venne perquisita. Essendogli stata rinvenuta una scheda elettorale coll’emblema della falce e del martello venne freddato. Il suo esercizio fu devastato. Mazzola Leone – aggiunge Gasti Giunta al processo – non era iscritto ad alcun partito, era di buona condotta e forniva notizie ed informazioni riservate alla polizia sul movimento dei comunisti. E la vedova Mazzola, sempre al processo, dice: “Un debitore di mio marito che non intendeva pagargli il debito lo aveva indicato con una lettera anonima come acceso comunista. Mio marito era iscritto all’Unione liberale monarchica ‘Umberto I’”. Ivi, pp.61-62
23 Matteo Chiolerio è appena rincasato. È pronta la cena e si siede per mangiare. “Ci mettemmo a tavola con la bimba”, dice la vedova deponendo il 12 gennaio 1923, “ aveva due anni e mezzo. Udimmo bussare alla porta. Matteo si alzò e andò ad aprire. C’erano i fascisti. Gli spararono così, senza dire niente, senza un motivo. Gli spararono con la rivoltella e lui cadde morente. Sono una povera donna che ancora non ha potuto riaversi dalla sciagura. Ricordo che, mentre i fascisti se ne andavano, la bambina piangeva spaventata. Mentre se ne andavano ero disperata e urlavo, sono corsa sulle scale. Quelli mi minacciano ed io urlai: ‘uccidete anche me!’. Quelli tornarono indietro per schernirmi e, uno alla volta, toccandolo dicevano: ‘Dorme, dorme’. Ivi, p.65
24 18 dicembre, ore 17.30, via San Paolo 142. Non molto distante c’è la cascina Maletto. Gli agenti del commissariato di zona trovano il corpo di un uomo. Quattro colpi di pistola al capo. “Lo sconosciuto non venne in alcun modo identificato, scrivono i quotidiani il giorno dopo. Il morto è in realtà Giovanni Massaro, 34 anni, via Nizza 279, ex manovale ferroviario. Ha indosso una comune tuta da operaio. Ricoverato già due volte al manicomio, malato di nervi, in quei giorni era senza occupazione e aspettava la liquidazione delle Ferrovie. I fascisti lo hanno buttato su un autocarro, lo hanno portato là, lo hanno ucciso. Perché? Ivi, p.64
25 La deposizione della vedova Andreoni, al processo dell’agosto 1950 a Firenze, contrasta con la versione di Canteri. “…i fascisti lo cercano fin dalla prima sera, ma non lo trovano in casa e se ne vanno. La moglie, impaurita, si rifugia con il bambino presso una vicina. È passata da poco la mezzanotte quando si accinge a rientrare. Avvicinandosi a casa sente gridare, vede il marito trascinato via dai fascisti. Lei vuole fermarli, urla, ma i fascisti tirano nel buio Erminio e scompaiono. Si portano nei pressi della Cascina Ceresa e, nell’ombra, uccidono l’operaio a colpi di pistola. Abbandonano il cadavere di Androni in un campo. Accanto un cartello: “Tu sei uno di quelli che pagano per il nostro Dresda”. I fascisti tornano in via Alassio 25, gettano in strada la donna e il suo bambino, bruciano e distruggono le poche suppellettili trovate nell’abitazione”. “Da quel giorno”, dice la vedova, “vissi, per molti anni, della elemosina dei vicini”. Ivi, pp.87-88
26 Matteo Tarizzo, 34 anni, già operaio della Fiat. Ha una piccola officina in via Madama Cristina 123. Comunista, non svolge molta attività a Torino, ma è ben conosciuto a Favria, nel Canavese. Matteo cena dal fratello e trascorre con lui la serata. Verso la mezzanotte rincasa in via Canova 35, si mette a letto, si addormenta. Qualche ora dopo arrivano i fascisti, abbattono l’uscio. Matteo se li vede attorno al letto: “Vestiti!”. È pronto in fretta. Giù lo aspettano altre camicie nere. Lo portano in nezzo ai prati. Al mattino viene trovato morto, con il cranio spaccato da un colpo di clava. Intorno al suo cadavere sono sparse le copie dell’ “Ordine Nuovo” che teneva in casa. Ivi, p.88
27 Evasio Becchio, anni 25, operaio, ed Ernesto Arnaud, muratore. Sono seduti in un’osteria di via Nizza e parlano tra di loro, quando irrompono gli squadristi. Poche chiacchiere. Prelevano i due, li portano fuori, li fanno salire su un camion. In corso Bramante, stop. Gli squadristi buttano giù dal camion Becchio. Manca poco alle 18. Aria gelida. Nel buio, qualche lampadina elettrica: “Vai avanti, Becchio”. L’operaio sa già quello che sta per accadergli. I fascisti sono in ordine sparso, con fucili e pistole. Becchio indietreggia, rinculando. La scarica lo abbatte: ucciso sul colpo. “A te, Arnaud”. Il muratore non si rende conto. “Dove vado? Ditemi!”. Seguono altre scariche. Arnaud grida, steso per terra. Gli piantano una coltellata all’addome. Tuttavia non morirà. Becchio è l’ultima vittima della strage, di cui si sappia con certezza. Ma quanti altri i morti e i feriti di quelle giornate? Ivi, p.97
28 Canteri, mella sua memoria, inserisce una considerazione intitolata:”Ieri e Oggi. Novembre ‘71, muore in una clinica torinese Piero Brandimarte - il comandante delle squadracce fasciste della strage di Torino del ‘22 - al quale i governi democristiani della Repubblica italiana avevano riconosciuto la pensione di generale. Al suo funerale prestano gli onori militari 27 bersaglieri al comando di un ufficiale. Tre parlamentari della sinistra presentano interrogazioni alla Camera e al Senato, i sindacati elevano una vibrata protesta. Il Governo tace”. Cfr. C. Canteri, Memorie del nostro ‘900, op. cit. p.
29 Claudio Dellavalle, La rifondazione e i duri anni cinquanta, in A. Ballone-C. Della valle-M. Grandinetti, Il tempo della lotta e dell’organizzazione – Linee di storia della Camera del Lavoro di Torino, Feltrinelli, Milano, Aprle 1992, p. 91.
30 Per il tipo di approccio politico alla questione si rinvia a Claudio Dellavalle, La rifondazione…,op. cit. p. 93 e segg.
31 Ivi, p. 95.
32 Ivi, pp.95/96
33 Ivi, p. 98 in cui Dellavalle richiama la Relazione morale del 1° maggio 1945-30 giugno1946, preparata e stampata dalla Commissione esecutiva della CdL di Torino, p. 5
34 Ivi, p. 101
35 Ivi, p. 103
36 Ivi, p. 104
37 Cfr. la tabella riportata a p. 107 da Claudio Della valle, op. cit.
38 Claudio Dellavalle, La rifondazione e i duri anni cinquanta, in A. Ballone-C. Dellavalle-M. Grandinetti, Il tempo della lotta e dell’organizzazione – Linee di storia della Camera del Lavoro di Torino, Feltrinelli, Milano, Aprle 1992, pp. 109-110.
39 Ivi, p. 113
40 Ivi, p. 114
41 Ivi, p. 115
42 Ivi, pp. 116-117
43 Marco Scavino, “Se otto ore…”, op. cit., p. 118
44 C. Dellavalle, La rifondazione e i duri anni cinquanta, op. cit., pp. 128-129
45 Ivi, p. 129
46 Ivi, p. 130
47 Marco Scavino, “Se otto ore…”, op. cit., p. 120
48 Ivi, pp. 124-125
49 C. Dellavalle, La rifondazione e i duri anni cinquanta, op. cit., p. 141
50 Ivi, p. 142
51
A. Accornero, U. Lucas, G. Sapelli (a cura di), Storia fotografica del lavoro
in Italia 1900/1980, De Donato, Bari, 1981, p. 181.