Biblioteca Multimediale Marxista
Fredrich Engels
Pubblicato nel Sozialdemokrat di Zurigo il 13 marzo 1884
Allo scoppio della rivoluzione di febbraio il «partito comunista» tedesco, come noi lo chiamavamo, era composto solo di un piccolo nucleo, della «Lega dei comunisti», organizzata come associazione se-greta di propaganda. La Lega era segreta solo perché allora in Germania non vi era libertà di associazione né libertà di riunione. Oltre alle associazioni operaie all’estero, dove si reclutavano i suoi membri, essa contava allora circa trenta comunità o sezioni nel paese stesso, e aveva inoltre membri isolati in parecchie località. Ma questa milizia di così scarsa importanza aveva in Marx un capo di prim’ordine, un capo a cui tutti si subordinavano di buon grado, e grazie a lui un programma di principio e tattico che ha ancor oggi pieno valore: il Manifesto comunista. Qui ci interessa soprattutto la parte tattica del programma. Essa diceva, in generale:
«I comunisti non costituiscono un partito particolare di fronte agli altri partiti operai. Essi non hanno interessi distinti dagli interessi del proletariato nel suo insieme. Non erigono principi particolari, sui quali vogliano modellare il mo-vimento proletario. I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari solamente per il fatto che da un lato, nelle varie lotte nazionali dei proletari, essi mettono in rilievo e fanno valere quegli interessi comuni dell’intiero pro-letariato che sono indipendenti dalla nazionalità; d’altro lato per il fatto che, nei vari stadi di sviluppo che la lotta tra proletariato e borghesia va attraversando, rappresentano sempre l’interesse del movimento complessivo. In pratica, dunque, i comunisti sono la parte più risoluta dei partiti operai di tutti i paesi, quella che sempre spinge avanti; dal punto di vista della teoria, essi hanno un vantaggio sulla restante massa del proletariato pel fatto che conosco-no le condizioni, l’andamento e i risultati generali del movimento proletario » .
E in particolare per il partito tedesco:
«In Germania il partito comunista lotta insieme con la borghesia, ogni qualvolta questa prende una posizione rivo-luzionaria contro la monarchia assoluta, contro la proprietà fondiaria feudale e contro la piccola borghesia reaziona-ria. Esso però non cessa nemmeno un istante di sviluppare fra gli operai una coscienza quanto più è possibile chiara dell’antagonismo e dell’inimicizia esistenti fra borghesia e proletariato, affinché gli operai tedeschi siano in grado di servirsi subito delle condizioni sociali e politiche che la borghesia deve introdurre insieme col suo dominio, come di altrettante armi contro la borghesia, e affinché dopo la caduta delle classi reazionarie in Germa-nia subito si inizi la lotta contro la borghesia stessa. Sulla Germania i comunisti rivolgono specialmente la loro attenzione, perché la Germania è alla vigilia della rivoluzione borghese, ecc. » (Manifesto, cap. IV).
Nessun programma tattico si è mai confermato giusto
tanto quanto questo. Presentato alla vigilia di una rivo-luzione, resistette
alla prova di questa rivoluzione; tutte le volte che da allora un partito
operaio ha deviato da questo programma, ha pagato cara ogni deviazione; e
oggi, dopo quasi quarant’anni, esso costituisce ancora il criterio direttivo
di tutti i partiti operai decisi e coscienti dell’Europa, da Madrid
sino a Pietroburgo.
Gli avvenimenti di febbraio a Parigi fecero precipitare la rivoluzione tedesca
imminente e ne modificarono con ciò il carattere. La borghesia tedesca,
invece di vincere per forza propria, vinse a rimorchio di una rivolu-zione
operaia francese. Prima ancora di aver abbattuto definitivamente i suoi vecchi
nemici - la monarchia assoluta, la grande proprietà fondiaria feudale,
la burocrazia, la piccola borghesia codarda - essa dovette far fronte ad un
nuovo nemico, il proletariato. Ma qui si manifestarono subito gli effetti
della situazione economi-ca della Germania, molto più arretrata di
quella della Francia e dell’Inghilterra, e quindi della situazione delle
classi altrettanto arretrata.
La borghesia tedesca, che incominciava appena a creare la sua grande industria,
non aveva né la forza, né il coraggio, né la necessità
incalzante di conquistarsi il dominio assoluto nello Stato; il proletariato,
altrettanto poco sviluppato, cresciuto in condizioni di completo asservimento
spirituale, non organizzato e nemmeno ancora capace di organizzazione autonoma,
avvertiva soltanto il profondo contrasto tra i suoi interessi e quelli del-la
borghesia. Perciò, quantunque fosse di fatto il nemico minaccioso della
borghesia, d’altro lato continuava a esserne l’appendice politica.
Spaventata non da ciò che il proletariato tedesco era, ma da ciò
che minaccia-va di diventare e da ciò che già era il proletariato
francese, la borghesia non vide la sua salvezza altro che in un compromesso
qualsiasi, fosse pure il più abietto, con la monarchia e con la nobiltà;
non conoscendo ancora la sua funzione storica, il proletariato nella sua grande
massa dovette incominciare coll’addossarsi la fun-zione dell’estrema
ala sinistra, dell’ala avanzata della borghesia. Gli operai tedeschi
avevano prima di tutto da conquistarsi quei diritti che erano loro indispensabili
per creare la loro organizzazione autonoma come parti-to di classe: libertà
di stampa, di associazione e di riunione, diritti che la borghesia avrebbe
dovuto conquistare nell’interesse del suo proprio dominio, ma che essa
stessa ora, nella sua paura, contestava agli operai. Le poche centinaia di
membri isolati della Lega scomparvero nella enorme massa che venne di colpo
gettata nel mo-vimento. Il proletariato tedesco apparve quindi sulla scena
politica in un primo tempo come partito democra-tico estremo.
Così, quando fondammo in Germania un grande giornale, ci si presentò
da sé la nostra bandiera. Essa non poteva essere altro che la bandiera
della democrazia, ma di una democrazia che dappertutto, nei singoli casi,
dava rilievo a quel carattere proletario specifico che ancora non poteva iscrivere
una volta per sempre sulla propria bandiera. Se non avessimo voluto questo,
se non avessimo voluto riprendere il movimento al punto in cui lo trovammo,
che era il più avanzato, effettivamente proletario, e spingerlo avanti,
non ci sa-rebbe rimasto altro che sdottorare sul comunismo in un piccolo foglio
di provincia e fondare, invece di un grande partito di azione politica, una
piccola setta. Ma per fare i predicatori del deserto non eravamo più
adatti; avevamo studiato troppo bene gli utopisti. Non per questo avevamo
abbozzato il nostro pro-gramma.
Quando arrivammo a Colonia, dei democratici, in parte anche dei comunisti,
avevano fatto preparativi per la pubblicazione di un grande giornale . Gli
si voleva dare un carattere tipicamente locale, di Colonia, e si voleva confinare
noi a Berlino. Ma in ventiquattrore, grazie principalmente a Marx, eravamo
pa-droni del terreno; e il giornale fu nostro a condizione che prendessimo
nella redazione Heinrich Biir-gers. Questi scrisse un articolo (nel n.2),
e non ne scrisse mai un altro.
Noi dovevamo appunto andare a Colonia, e non a Berlino. Prima di tutto Colonia
era il centro della provincia renana, la quale aveva conosciuto la Rivoluzione
francese, si era garantita, attraverso il Codi-ce Napoleone, concezioni giuridiche
moderne, aveva creato la grande industria di gran lunga più importante,
e sotto ogni aspetto era allora la parte più progredita della Germania.
Conoscevamo la Berlino di quel tempo troppo bene per osservazione diretta,
con la sua borghesia appena nascente, la sua piccola borghesia arrogante a
parole ma di fatto vile, strisciante, i suoi operai ancora comple-tamente
privi di evoluzione, la sua marmaglia di burocrati, di nobili e di cortigiani
al completo e tutto il suo carattere di semplice «residenza».
Gli elementi decisivi però erano i seguenti: a Berlino regnava il miserabile
diritto prussiano e i processi politici andavano davanti ai giudici di professione;
sul Reno vigeva il Codice Napoleone, che non conosce processi contro la stampa
perché presuppone la censura, e quando si commettevano non delitti
politici, ma semplici trasgressioni, si andava davanti ai giurati; a Berlino,
dopo la rivoluzione, il giovane Schlöffel venne condannato a un anno
per un’inezia, mentre sul Reno noi avevamo assoluta libertà di
stampa, e la utilizzammo sino all’ultima goccia.
Così incominciammo il 1° giugno 1848, con un capitale azionario
molto limitato, di cui solo una piccola par-te era stata versata, mentre gli
azionisti stessi erano più che malsicuri. La metà di essi ci
abbandonò subito dopo il primo numero, e alla fine del mese non ne
avevamo più neanche uno .
La costituzione della redazione si riduceva alla dittatura di Marx.
Un grande quotidiano, che deve essere pronto a un’ora determinata, non
può mantenere con nessun altro regime una posizione conseguente. Nel
nostro caso però la dittatura di Marx, oltre a tutto, era una cosa
ovvia, fuori discussione, riconosciuta volentieri da noi tutti. E furono in
primo luogo la lucidità della sua vi-sione e il suo atteggiamento sicuro
a fare del nostro foglio il più famoso giornale tedesco degli anni
della ri-voluzione.
Il programma politico della Neue Rheinische Zeitung consisteva in due punti
principali: repubblica tede-sca una, indivisibile, democratica, e guerra contro
la Russia, anche al fine di reintegrare la Polonia.
La democrazia piccolo-borghese si divideva allora in due frazioni: quella
della Germania settentrionale, che si sarebbe adattata a un imperatore prussiano
democratico, e quella della Germania del sud, allora quasi del tutto specificamente
badense, che voleva fare della Germania una repubblica federativa di tipo
svizzero. Dovevamo combatterle entrambe. L’interesse del proletariato
era contrario tanto alla prussianizzazione della Germania, quanto alla perpetuazione
del sistema degli staterelli. Quell’interesse esigeva che si giungesse
finalmente alla unificazione della Germania in una sola nazione, la quale
soltanto poteva costituire il terreno di lotta, libero da ogni meschino ostacolo
tradizionale, su cui il proletariato e la borghesia dovevano misurare le loro
forze; ma proibiva, con altrettanta forza, che si instaurasse un primato prussiano:
lo Stato prussiano, con tutta la sua organizzazione, la sua tra-dizione e
la sua dinastia era proprio l’unico serio nemico interno che la rivoluzione
avesse da ab-battere in Germania, e inoltre la Prussia poteva unificare la
Germania solo lacerandola, escludendone l’Austria tedesca. Dissolvimento
dello Stato prussiano, crollo dello Stato austriaco, unificazione effet-tiva
della Germania come repubblica: non potevamo avere un diverso programma rivoluzionario
imme-diato. Ed esso si poteva realizzare con la guerra alla Russia, e solo
con la guerra alla Russia. Su questo punto ritornerò più oltre.
Per il resto il tono del giornale non era affatto solenne, accigliato o entusiastico.
Avevamo tutti avver-sari spregevoli e li trattavamo tutti, senza eccezione,
con estremo disprezzo. La monarchia cospiratrice, la camarilla, la nobiltà,
la Kreuzzeitung , la «reazione» intiera, che suscitava nel filisteo
uno sdegno morale, era trattata da noi soltanto con scherno e derisione. Ma
non trattavamo meglio i nuovi dèi venuti su dalla rivoluzione: i ministri
di marzo, le assemblee di Francoforte e di Berlino, e tanto i destri quanto
i sinistri. Il primo numero del giornale si apriva con un articolo in cui
ci si faceva beffe della nullità del Parlamento di Francoforte, della
inutilità dei suoi discorsi prolissi, della super-fluità delle
sue decisioni codarde.
Questo articolo ci costò la metà degli azionisti. Il Parlamento
di Francoforte non era nemmeno un cir-colo di discussioni; non vi si discuteva
quasi per niente, ma per lo più vi si recitavano dissertazioni accademiche
preparate in precedenza e vi si prendevano decisioni che avrebbero dovuto
riempire di entusiasmo i filistei tedeschi, ma delle quali, altrimenti, nessun
altro s’occupava.
L’Assemblea di Berlino aveva già un’importanza maggiore;
essa si trovava di fronte a un potere reale, non discuteva né prendeva
decisioni a vuoto, non si manteneva nelle nuvole come quella di Francoforte.
Perciò le si prestava anche maggiore attenzione. Ma gli stessi dèi
delle sinistre di questa assemblea, Schulze-Delitzsch, Berends, Elsner, Stein
, ecc., venivano presi a partito con altrettanta asprezza quanto quelli di
Francoforte; la loro indecisione, la loro timidezza, la loro pedanteria, venivano
smascherate senza pietà, e si dimostrava loro come a passo a passo
e di compromesso in compromesso essi giun-gevano a tradire la rivoluzione.
Ciò naturalmente faceva inorridire i piccoli borghesi democratici,
che si erano appena allora fabbricati questi dèi per loro uso personale.
Quest’orrore era per noi una prova che avevamo colpito nel segno.
Così pure ci opponemmo all’illusione, zelantemente diffusa dalla
piccola borghesia, secondo cui la rivolu-zione si sarebbe conchiusa con le
giornate di marzo, e non vi sarebbe stato più che da raccoglierne e
riporne i frutti. Per noi, febbraio e marzo avrebbero potuto avere l’importanza
di una vera rivoluzione soltanto se fossero stati non la conclusione, ma al
contrario, il punto di partenza di un lungo movi-mento rivoluzionario, nel
corso del quale, come nella grande Rivoluzione francese, il popolo si fosse
svi-luppato attraverso le sue proprie lotte, i partiti si fossero sempre più
nettamente differenziati, sino a coincidere completamente con le grandi classi:
borghesia, piccola borghesia e proletariato; e nel corso del quale il proletariato
avesse conquistato l’una dopo l’altra le posizioni singole in
una serie di giornate campali. Per questo ci opponevamo anche alla piccola
borghesia democratica dappertutto dove essa vole-va obliterare il suo antagonismo
di classe col proletariato, usando la sua frase preferita: «Ma noi vo-gliamo
tutti la stessa cosa; tutte le differenze derivano da puri e semplici malintesi».
Ma quanto meno permettevamo alla piccola borghesia di fraintendere la nostra
democrazia proletaria, tanto più essa diven-tava docile e arrendevole
nei nostri riguardi. Quanto più nettamente e decisamente si prende
posizione contro la piccola borghesia, tanto più prontamente essa si
accuccia, tanto più grandi sono le concessioni che essa fa al partito
operaio. L’abbiamo veduto.
Infine, mettemmo in luce il cretinismo parlamentare (secondo l’espressione
di Marx) delle diverse cosid-dette Assemblee nazionali. Questi signori si
erano lasciati scivolare di mano tutti i mezzi del potere, in parte anzi li
avevano volontariamente restituiti ai governi. Accanto ai governi reazionari
di fresco rafforzati, stavano, tanto a Berlino quanto a Francoforte, assemblee
impotenti, che ciononostante s’immaginavano che le loro impotenti deliberazioni
avrebbero smosso il mondo dai suoi cardini. Fino all’estrema sinistra
dominava questa cretina autoillusione. Noi gridavamo loro che la loro vittoria
parlamentare avrebbe coinciso con la loro sconfitta effettiva. E così
accadde tanto a Berlino quanto a Francoforte. Quando la «sinistra»
ottenne la maggioranza, il governo disperse tutta l’Assemblea; e poté
farlo perché l’Assemblea s’era giocata il suo credito tra
il popolo.
Quando più tardi lessi il libro del Bougeart su Marat , trovai che
sotto molti aspetti non avevamo fatto altro che imitare senza saperlo il grande
esempio del vero ami du peuple (non di quello falsifica-to dai monarchici),
e che tutta la canea e tutte le falsificazioni storiche, grazie alle quali
per quasi cento anni non si è conosciuto che un Marat completamente
deformato, hanno questa sola causa, che Marat strappò spietatamente
la maschera a Lafayette, Bailly e altri idoli del momento e li mise a nudo
come perfetti traditori della rivoluzione, e che anche egli, come noi, voleva
che la rivoluzione non fosse considerata conchiusa, ma fosse dichiarata in
permanenza.
Dichiarammo apertamente che la corrente che noi rappresentavamo avrebbe potuto
entrare nella lot-ta per il raggiungimento dei fini veri del nostro partito
solo quando si fosse trovato al potere il più avanzato dei partiti
ufficiali allora esistenti in Germania: allora noi avremmo formato, contro
di es-so, l’opposizione.
Gli avvenimenti però si incaricarono di far sì che, accanto
allo scherno degli avversari tedeschi, ci fosse anche la passione ardente.
La insurrezione degli operai di Parigi nel giugno 1848 ci trovò al
nostro posto. Dal primo colpo di fucile prendemmo posizione senza riserva
per gli insorti. Dopo la disfatta Marx celebrò gli sconfitti in uno
dei suoi articoli più potenti.
Allora ci abbandonarono anche gli ultimi azionisti. Ma avemmo la soddisfazione
di essere il solo foglio in Germania e quasi in tutta l’Europa ad aver
tenuto alta la bandiera del proletariato calpestato, nel momento in cui borghesi
e piccoli borghesi di tutti i paesi calcavano sui vinti con la sozzura delle
loro calunnie.
La politica estera era semplice: sostenere la causa di ogni popolo rivoluzionario,
fare appello alla guerra generale dell’Europa rivoluzionaria contro
la gran riserva della reazione europea, la Russia. A partire dal 24 febbraio
fu chiaro per noi che la rivoluzione aveva un solo nemico veramente formidabile,
la Russia, e che questo nemico sarebbe stato costretto a entrare nella lotta
quanto più il movimento avesse assunto dimensioni europee. Gli avvenimenti
di Vienna, di Milano, di Berlino non avevano potuto non ritardare l’attacco
russo, ma il suo sopraggiungere finale era diventato tanto più certo,
quanto più la rivoluzione si veniva avvicinando alla Russia. Ma se
si riusciva a condurre la Germania alla guerra contro la Russia, era finita
anche con gli Asburgo e con gli Hohenzollern, e la rivoluzione a-vrebbe vinto
su tutta la linea.
Questa politica permea ogni numero del giornale, sino al momento dell’intervento
effettivo dei russi in Ungheria, che confermò pienamente la nostra
previsione e decise della sconfitta della rivoluzione.
Quando nella primavera del 1849 s’avvicinava la lotta decisiva, il linguaggio
del giornale si fece ad ogni numero più violento e appassionato. Nel
Miliardo della Stesia (otto articoli) Wilhelm Wolff richia-mava alla memoria
dei contadini della Slesia come essi nel riscatto dei gravami feudali fossero
stati truffati dai proprietari fondiari, con l’aiuto del governo, tanto
per il denaro che per la proprietà del-la terra, ed esigeva un miliardo
di talleri di indennizzo.
In pari tempo nell’aprile venne pubblicato, in una serie di editoriali,
lo scritto di Marx sul lavoro salariato ed il capitale, come chiara indicazione
dello scopo sociale della nostra politica.
Ogni numero, ogni edizione straordinaria, attirava l’attenzione sulla
grande battaglia in preparazione, sull’acuirsi dei contrasti in Francia,
Italia, Germania e Ungheria. In special modo i numeri straordina-ri di aprile
e di maggio furono altrettanti appelli al popolo a tenersi pronto per ingaggiar
battaglia.
«Nel resto del Reich» ci si meravigliava che noi facessimo tutto
questo così indisturbati in una fortezza prussiana di prima classe,
con una guarnigione di 8.000 uomini e di fronte al corpo di guardia principa-le;
ma grazie agli otto fucili a baionetta e alle 250 cartucce che vi erano nella
sala della redazione, e ai berretti rossi giacobini dei tipografi, anche la
nostra sede era per gli ufficiali una fortezza che non si poteva prendere
con un semplice colpo di mano.
Infine, il 18 maggio 1849 venne il colpo.
L’insurrezione di Dresda e di Elberfeld era sconfitta, quella di Iserlohn
accerchiata, la provincia re-nana e la Vestfalia erano irte di baionette destinate
a marciare - dopo lo schiacciamento completo della Renania prussiana - contro
il Palatinato e il Baden. Allora finalmente il governo osò attaccarci.
Metà dei redattori era sotto azione giudiziaria, gli altri potevano
essere espulsi come non prussiani. Contro ciò non vi era nulla da fare,
sino a che dietro al governo stava un intiero corpo d’armata. Fummo
co-stretti a consegnare la nostra fortezza; ma ci ritirammo con armi e bagagli,
con la fanfara in testa e con la bandiera spiegata dell’ultimo numero
rosso, in cui mettevamo in guardia gli operai di Colonia contro colpi di mano
disperati e gridavamo loro:
«I redattori della Neue Rheinische Zeitung, nel prendere congedo, vi ringraziano per la simpatia mostrata loro. La loro ultima parola sarà sempre e dappertutto: emancipazione della classe operaia!».
Così fini la Neue Rbeinische Zeitung, poco prima di
compiere il primo anno. Aveva iniziato le sue pubblicazioni quasi senza mezzi
finanziari - i pochi che le erano stati garantiti svanirono presto, come abbiamo
detto - e già in settembre era arrivata a una tiratura di 5.000 copie.
Quando venne proclamato a Colonia lo stato d’assedio venne sospesa;
a metà ottobre dovette ricominciare da capo. Ma nel maggio 1849, quando
venne soppressa, era di nuovo salita a 6.000 abbonati, mentre la Kólnische
Zeitung , secondo la sua propria confessione, non ne aveva allora più
di 9.000. Nessun giornale tedesco, né prima né dopo, ha mai
posseduto tanta forza e tanta influenza, ha mai saputo elettrizzare le masse
proletarie quanto la Neue Rheinische Zeitung.
E lo dovette prima di tutto a Marx.
Dopo il colpo della soppressione, la redazione andò dispersa. Marx
si recò a Parigi, dove si preparava l’avvenimento decisivo, che
si produsse il 13 giugno 1849. Wilhelm Wolf f occupò il suo seggio
nel Parlamento di Francoforte, nel momento in cui l’Assemblea doveva
scegliere tra lo schiacciamento dall’alto o l’adesione alla rivoluzione.
Io mi recai nel Palatinato e divenni aiutante nel corpo dei vo-lontari di
Willich.