Biblioteca Multimediale Marxista
Ringraziamo il sito Archivio Internet dei Marxisti (MIA) per aver messo a disposizione dei nostri lettori il seguente testo:
Estratto dall'Anti-Dühring e preparato da Engels tra il gennaio e il marzo 1880. Pubblicato per la prima volta in francese ne La Revue socialiste nn. 3, 4 e 5 del 20 aprile e del 5 maggio 1880. Traduzione conforme a quella delle Edizioni in lingue estere di Mosca. Le note di Engels sono state contrassegnate con l'*. Con solo il numero le note di corredo non degli autori.
Prefazione alla prima edizione tedesca del 1882
Compongono il presente scritto tre capitoli del mio lavoro Il rovesciamento
della scienza del signor Eugen Dühring1, Lipsia,1878. Su richiesta del
mio amico Paul Lafargue2 io li avevo raccolti a suo tempo per una traduzione
in francese, dopo averli qua e là più o meno ampiamente sviluppati.
La traduzione francese, da me riveduta, apparve dapprima nella Revue socialiste,
e quindi in opuscolo a parte, sotto il titolo di Socialisme utopique et socialisme
scientifique, Parigi, 1880. Poco fa è apparsa a Ginevra una nuova versione,
in polacco, fatta sulla base della francese e recante il titolo: Socyjalizm
utopijny a naukowy, Imprimerie de l'Autore, Ginevra, 1882.
Il sorprendente successo della traduzione di Lafargue in paesi di lingua francese
e specialmente in Francia mi spinse a pormi il problema se per caso non dovesse
riuscire altrettanto utile un'analoga edizione separata di questi tre capitoli
in tedesco. Accadde allora che la redazione del Sozialdemokrat3 di Zurigo
mi avvertì che in seno al Partito socialdemocratico tedesco tutti reclamavano
l'edizione di nuovi opuscoli di propaganda, e mi chiese se ero disposto a
destinare a tal uopo quei tre capitoli. Naturalmente detti il mio consenso
e posi senz'altro a disposizione il mio lavoro.
Ma esso non era stato scritto in origine per la propaganda immediata fra il
popolo. Come poteva convenire a tale scopo un lavoro ispirato anzitutto a
puri intendimenti scientifici? Quali cambiamenti nella forma e nel contenuto
erano necessari?
Quanto alla forma, potevano destar preoccupazione soltanto le numerose parole
straniere. Ma già Lassalle4, nei suoi discorsi e nei suoi opuscoli
di propaganda, ne era tutt'altro che parco, e nessuno se ne è mai rammaricato,
per quanto io sappia. Da quel tempo i nostri operai si sono esercitati a leggere
più copiosamente e più metodicamente i giornali e si sono quindi
nella stessa misura più familiarizzati con le parole straniere. Perciò
mi sono limitato a eliminare dal mio scritto tutte le parole straniere inutili,
e quanto alle rimanenti, che mi è stato impossibile evitare, ho rinunziato
ad apporvi le cosiddette traduzioni esplicative. Infatti le parole straniere
inevitabili, segnatamente le espressioni scientifiche e tecniche, universalmente
accettate, non sarebbero inevitabili se fossero traducibili. La traduzione
ne falsa quindi il significato, e in luogo di chiarirlo, lo rende oscuro.
In tali casi riesce di gran lunga più proficuo un chiarimento orale.
Quanto al contenuto invece, credo di poter affermare che presenterà
poche difficoltà per gli operai tedeschi. Difficile è soltanto
la terza parte del mio lavoro, ma assai meno per gli operai, di cui essa compendia
le condizioni generali di esistenza, che per i borghesi "colti".
Nelle numerose aggiunte esplicative ho pensato meno agli operai che ai lettori
"colti", gente come l'onorevole deputato von Eynern5, il signor
consigliere segreto Heinrich von Sybel e altri Treitschke6, dominati dalla
irresistibile smania di tornar sempre a dar prova, nero sul bianco, della
loro atroce ignoranza, e quindi della loro colossale incomprensione del socialismo.
Se Don Chisciotte giostra contro i mulini a vento, questo è il suo
ufficio e il suo compito, ma a Sancio Pancia non possiamo concedere questo
diritto.
Siffatti lettori si meraviglieranno altresì d'imbattersi, in uno schizzo
dell'evoluzione storica del "socialismo, nella cosmogonia di Kant-Laplace,
nelle moderne scienze naturali, in Darwin, nonché nella filosofia classica
tedesca e in Hegel. Ma il socialismo scientifico è un prodotto essenzialmente
tedesco e poteva solo nascere in quella nazione la cui filosofia classica
aveva saputo tenere in vita la tradizione della dialettica cosciente: la Germania*1.
La concezione materialistica della storia e la sua specifica applicazione
alla moderna lotta di classe tra proletariato e borghesia erano infatti possibili
solo mediante la dialettica. E se i maestri di scuola della borghesia tedesca
hanno sommerso nella palude sconsolata dell'eclettismo la memoria dei grandi
filosofi tedeschi e della dialettica da essi affermata, tanto che siamo costretti
a invocare le scienze naturali moderne come testimoni del fatto che la dialettica
esiste nella realtà, - noi socialisti tedeschi siamo orgogliosi di
non discendere soltanto da Saint-Simon7, da Fourier8 e da Owen9, ma anche
da Kant10, da Fichte11 e da Hegel12.
Friedrich Engels
Londra, 21 settembre 1882
Prefazione alla quarta edizione tedesca del 1891
La mia previsione che il contenuto del presente lavoro non avrebbe presentato
serie difficoltà per gli operai tedeschi è stata confermata.
Dal marzo 1883, data della prima edizione, sono state smerciate almeno tre
edizioni, 10.000 esemplari in tutto, e ciò sotto l'impero delle ormai
defunte leggi antisocialiste, il che fornisce un nuovo esempio dell'impotenza
delle misure poliziesche contro un movimento pari a quello del proletario
moderno.
Dopo la prima edizione sono ancora apparse diverse traduzioni in lingue straniere,
una italiana di Pasquale Martignetti: Il socialismo utopistico ed il socialismo
scientifico, Benevento, 1883; una in russo: Razvitie naucnavo sozialisma,
Ginevra, 1884; una in danese Socialismens Udvikling fra Utopi til Videnskab,
in Socialisk Bibliotek, I Bind Copenaghen, 1885; una in spagnolo: Socialismo
utòpico y socialismo cientìfico, Madrid, 1886; e una in olandese:
De Ontwikkeling van het Socialisme van Utopie tot Wetenschap, L'Aja, 1886.
Questa nuova edizione tedesca contiene alcune modificazioni di poca importanza.
Delle aggiunte più importanti sono state fatte solo in due punti: nel
primo capitolo su Saint-Simon, che scapitava alquanto rispetto a Fourier e
ad Owen, e alla fine del terzo circa la nuova forma di produzione dei "trust",
divenuta nel frattempo così importante.
Friedrich Engels
Londra, 12 maggio 1891
Prefazione all'edizione inglese del 1892
Questo opuscolo faceva parte originariamente di un'opera di maggior mole.
Verso il 1875 il dottor Eugen Dühring13, libero docente all'Università
di Berlino, annunciò improvvisamente e in modo alquanto rumoroso la
sua conversione al socialismo, e presentò al pubblico tedesco non soltanto
una teoria socialista completa, ma anche tutto un piano pratico di riorganizzazione
della società. Naturalmente si lanciò coi pugni stretti contro
i suoi predecessori e soprattutto contro Marx, che onorò di un'ondata
di attacchi furiosi.
Questo avveniva nel periodo in cui le due frazioni del Partito socialista
tedesco - gli eisenacchiani14 e i lassalliani15 - avevano appena realizzato
la loro fusione16, conseguendo in tal modo non soltanto un immenso aumento
delle loro forze, ma anche, ciò che è più importante,
la capacità di dirigere tutte queste forze contro il nemico comune.
Il Partito socialista era in Germania sulla via di diventare rapidamente una
grande forza. Ma, per diventare una grande forza, la prima condizione era
che l'unità appena realizzata non fosse compromessa; e il dottor Dühring
incominciò invece apertamente a raggruppare attorno a sé una
setta, il nocciolo di un futuro nuovo partito. Era dunque necessario raccogliere
il guanto che ci veniva gettato e intraprendere ad ogni costo la lotta, lo
volessimo o non lo volessimo.
La cosa non era straordinariamente difficile, ma evidentemente di lunga durata.
Noi altri tedeschi, come tutti sanno, possediamo una Gründlichkeit17
terribilmente pesante, profondamente radicale o radicalmente profonda, come
vi piacerà di chiamarla. Ogni volta che uno di noi espone qualche cosa
ch'egli pensa essere una nuova teoria, sente subito il bisogno di elaborarla
in un sistema che abbracci tutto l'universo. Egli deve dimostrare che i primi
princìpi della logica e le leggi fondamentali dell'universo non sono
esistiti per tutta l'eternità che all'unico scopo di condurre in ultima
analisi lo spirito umano a questa teoria ora scoperta, che corona tutto. Sotto
questo rapporto il dottor Dühring era all'altezza del genio nazionale.
Niente meno che un completo Sistema di filosofia, di filosofia dello spirito,
della morale, della natura e della storia, un completo Sistema dell'economia
politica e del socialismo, e infine una Critica storica dell'economia politica,
- tre grossi volumi in ottavo grevi come peso e come contenuto, tre corpi
d'armata d'argomenti mobilitati contro tutti i filosofi e gli economisti anteriori
in generale, e contro Marx in particolare; in realtà, un tentativo
di totale "sovvertimento della scienza": ecco con che cosa dovevo
misurarmi! Dovevo trattare di tutto: dalla concezione del tempo e dello spazio
al bimetallismo18, dall'eternità della materia e del movimento alla
caducità delle idee morali, dalla selezione naturale di Darwin19 all'educazione
della gioventù in una società futura. Ad ogni modo il sistema
universale del mio avversario mi offriva l'occasione di sviluppare, in polemica
contro di lui e in forma più sistematica di quanto non si fosse fatto
prima, le opinioni che Marx ed io avevamo su questa grande varietà
di soggetti. Fu questa la ragione principale che mi trascinò ad accingermi
a questo compito, d'altronde così ingrato.
La mia risposta, pubblicata dapprima in una serie di articoli sul Vorwärts
20 di Lipsia, organo centrale del Partito socialista, fu poi raccolta in un
volume col titolo: La scienza sovvertita dal signor Eugen Dühring. Una
seconda edizione apparve a Zurigo nel 1886.
Su richiesta del mio amico Paul Lafargue, attuale deputato di Lilla alla Camera
dei deputati francese, rimaneggiai tre capitoli di questo libro per farne
il contenuto di un opuscolo ch'egli tradusse in francese e pubblicò
nel 1880 col titolo Socialisme utopique et socialisme scientifique. Sulla
scorta del testo francese vennero preparate delle edizioni in polacco e in
spagnolo. Nel 1882 i nostri amici tedeschi pubblicarono l'opuscolo nella lingua
in cui era stato scritto originariamente. Indi apparvero, sulla base del testo
tedesco, le traduzioni italiana, russa, danese, olandese e rumena. Questa
edizione inglese porta quindi a dieci il numero delle lingue in cui questo
breve scritto è stato diffuso. Per quanto io so, nessun altro scritto
socialista, non escluso il nostro Manifesto comunista del 1848 o Il Capitale
di Marx, ha avuto tante traduzioni. In Germania l'opuscolo ha avuto quattro
edizioni, con una tiratura complessiva di circa 20.000 copie.
L'appendice La Marca21 fu scritta allo scopo di diffondere nel Partito socialista
tedesco alcune nozioni elementari circa la storia e lo sviluppo della proprietà
fondiaria in Germania. La cosa sembrava allora tanto più necessaria
in un momento in cui l'assimilazione da parte di questo partito degli operai
della città era oramai quasi completa, ed era necessario conquistare
gli operai agricoli e i contadini. Questa appendice è stata inclusa
nella traduzione, perché le forme primitive di agricoltura, comuni
a tutte le tribù teutoniche, e la storia della loro decadenza, sono
ancora meno conosciute in Inghilterra che in Germania. Ho lasciato il testo
nella sua forma originaria, senza fare allusione all'ipotesi avanzata recentemente
da Maksim Kovalevskij22, secondo la quale la ripartizione delle terre arate
e dei prati tra i membri della Marca venne preceduta dalla loro coltivazione
in comune da parte di un'ampia comunità familiare patriarcale, comprendente
diverse generazioni (può servire di esempio la Zadruga degli slavi
del Sud, tuttora esistente), e si produsse soltanto quando questa comunità
fu talmente cresciuta che non si adattava più a una lavorazione collettiva.
È probabile che Kovalevskij abbia pienamente ragione, ma il problema
è ancora sub judice. La terminologia economica usata in questo libro
nella misura in cui è nuova corrisponde a quella usata nell'edizione
inglese del Capitale di Marx. Indichiamo col termine di "produzione di
merci" quella fase economica in cui gli oggetti vengono prodotti non
solo per l'uso del produttore, ma anche per scambiarli, cioè come merci,
non come valori di uso. Questa fase si estende dagli inizi della produzione
per lo scambio fino ai giorni nostri. Essa raggiunge il suo pieno sviluppo
solo sotto la produzione capitalistica, cioè nelle condizioni in cui
il capitalista, il proprietario dei mezzi di produzione, occupa, per un salario,
degli operai che sono privi di ogni mezzo di produzione eccettuata la loro
propria forza-lavoro, e intasca la somma di cui il prezzo di vendita dei prodotti
eccede le sue spese. Dividiamo la storia della produzione industriale a partire
dal Medioevo in tre periodi.
1. Artigianato, piccoli capi artigiani con pochi garzoni e apprendisti. Ogni
operaio elabora il prodotto completamente;
2. Manifattura, in cui un gran numero di operai, riuniti in un grande opificio,
elaborano il prodotto secondo i princìpi della divisione del lavoro,
facendo ogni operaio solo una operazione parziale, cosicché il prodotto
è terminato solo dopo esser passato attraverso le mani di tutti;
3. Industria moderna, in cui il prodotto viene elaborato dalla macchina messa
in movimento da una forza, e il compito dell'operaio si riduce alla sorveglianza
e alla correzione dell'azione del meccanismo.
Mi rendo perfettamente conto che il contenuto di questo opuscolo urterà
una parte considerevole del pubblico inglese. Ma se noi continentali avessimo
accordato la minima attenzione ai pregiudizi della "rispettabilità"
britannica, cioè del filisteismo23 inglese, ci troveremmo in una posizione
assai peggiore di quella in cui già ci troviamo. Questo opuscolo difende
quello che noi chiamiamo il "materialismo storico", e la parola
materialismo ferisce gli orecchi della immensa maggioranza dei lettori inglesi.
"Agnosticismo"24 potrebbe ancora passare, ma materialismo è
assolutamente inammissibile!
Eppure la culla di tutto il materialismo moderno, a partire dal secolo XVIII,
fu l'Inghilterra e nessun altro paese.
"Il materialismo è il figlio naturale della Gran Bretagna. Già
il suo scolastico Duns Scoto25 si chiedeva se la materia non potesse pensare.
"Per compiere questo miracolo egli ricorse all'onnipotenza di Dio, cioè
costrinse la stessa teologia a predicare il materialismo. Egli era, inoltre,
nominalista. Il nominalismo26 si trova come un elemento centrale nei materialisti
inglesi; esso è in generale la prima espressione del materialismo.
"Il vero progenitore del materialismo inglese e di tutta la scienza sperimentale
moderna è Bacone27. La scienza della natura costituisce per lui la
vera scienza, e la fisica sensibile la parte principale della scienza della
natura. Anassagora28 con le sue omeomerie29 e Democrito30 con i suoi atomi
sono spesso le sue autorità. Secondo la sua dottrina, i sensi sono
infallibili e sono la fonte di tutte le conoscenze. La scienza è scienza
dell'esperienza e consiste nell'applicare un metodo razionale al dato sensibile.
Induzione, analisi, comparazione, osservazione, sperimentazione, sono le condizioni
principali di un metodo razionale. Fra le proprietà naturali della
materia, il movimento è la prima e la principale, non solo come movimento
meccanico e matematico, ma ancor più come impulso, spirito vitale,
tensione, come - per usare l'espressione di Jakob Böhme31 - tormento
[Qual *2] della materia. Le forme primitive di quest'ultima sono forze essenziali,
viventi, individualizzanti, inerenti a essa, producenti le distinzioni specifiche.
"In Bacone, in quanto suo primo creatore, il materialismo racchiude in
sé, in un modo ancora ingenuo, i germi di uno sviluppo onnilaterale.
La materia, nel suo splendore poeticamente sensibile, sorride a tutto l'uomo.
La dottrina - aforistica - brulica invece ancora di inconseguenze teologiche.
"Nel suo sviluppo ulteriore il materialismo diventa unilaterale. Hobbes32
è il sistematore del materialismo baconiano. La sensibilità
perde il suo fiore e diventa la sensibilità astratta del geometra.
Il movimento fisico viene sacrificato al movimento meccanico o matematico;
la geometria è proclamata la scienza principale. Il materialismo diventa
misantropo. Per poter vincere lo spirito misantropo, senza carne, sul suo
proprio terreno, il materialismo stesso è costretto a mortificare la
sua carne e a diventare asceta. Esso si presenta come un essere dell'intelletto,
ma sviluppa anche la consequenzialità spregiudicata dell'intelletto.
"Se la sensibilità fornisce agli uomini tutte le conoscenze, dimostra
Hobbes, partendo da Bacone, intuizione, pensiero, rappresentazione, ecc. non
sono altro che fantasmi del mondo corporeo più o meno spogliato della
sua forma sensibile. La scienza può solo dare un nome a questi fantasmi.
Un unico nome può essere applicato a più fantasmi. Possono darsi
poi nomi di nomi. Ma sarebbe una contraddizione far trovare da un lato a tutte
le idee la loro origine nel mondo sensibile, e affermare, da un altro lato,
che un termine è più che un termine, affermare che, oltre agli
enti rappresentati, sempre singoli, ci siano anche enti universali. Una sostanza
incorporea è piuttosto la medesima contraddizione che un corpo incorporeo.
Corpo, essere, sostanza, sono una sola e medesima idea reale. Non si può
separare il pensiero da una materia che pensa. Essa è il soggetto di
tutte le modificazioni. Il termine infinito è privo di senso se non
significa la capacità del nostro spirito di aggiungere senza fine cosa
a cosa. Poiché solo il materiale è percepibile, conoscibile,
non si conosce niente dell'esistenza di Dio. Solo la mia propria esistenza
è certa. Ogni passione umana è un movimento meccanico che finisce
o comincia. Gli oggetti degli impulsi sono il bene. L'uomo è subordinato
alle stesse leggi cui è subordinata la natura. Potere e libertà
sono identici.
"Hobbes aveva sistemato Bacone, ma non aveva fondato in modo più
preciso il suo principio fondamentale, l'origine delle conoscenze e delle
idee dal mondo sensibile. Locke33, nel suo saggio sull'origine dell'intelletto
umano, dà un fondamento al principio di Bacone e di Hobbes.
"Come Hobbes aveva eliminato i pregiudizi teistici del materialismo baconiano,
così Collins, Dodwell, Coward, Hartley, Priestly34, ecc. eliminano
l'ultimo limite teologico del sensismo lockiano. Il deismo35 non è,
almeno per i materialisti, niente di più di un modo comodo e noncurante
di disfarsi della religione"*3.
Così scriveva Marx a proposito dell'origine britannica del materialismo
moderno.
E se gli inglesi d'oggi non sono particolarmente entusiasti della giustizia
resa da Marx ai loro antenati, tanto peggio per loro! Ciò non toglie
niente al fatto innegabile che Bacone, Hobbes e Locke furono i padri di quella
brillante pleiade di materialisti francesi che, nonostante tutte le vittorie
per terra e per mare conseguite sui francesi dagli inglesi e dai tedeschi,
fecero del secolo XVIII un secolo francese per eccellenza; e ciò ancor
prima ch'esso fosse coronato dalla rivoluzione francese, della quale noi,
che non vi abbiamo partecipato, tentiamo ancor sempre di acclimatare i risultati
in Inghilterra come in Germania.
Non si può negarlo. Lo straniero colto, il quale verso la metà
del secolo eleggeva domicilio in Inghilterra, era colpito soprattutto da una
cosa, ed era - in qualunque modo egli la considerasse - la stupidità
e il bigottismo religiosi della classe media inglese "rispettabile".
A quell'epoca noi eravamo tutti materialisti, o almeno liberi pensatori molto
avanzati, ed era per noi inconcepibile che quasi tutte le persone istruite
in Inghilterra prestassero fede a ogni sorta di impossibili miracoli, e che
perfino dei geologi, come Buckland e Mantell36, deformassero i dati delle
loro scienze perché non fossero in contraddizione con le leggende della
creazione del mondo secondo Mosè; era per noi inconcepibile che per
trovare uomini che osassero servirsi della loro ragione in materia religiosa
bisognasse andare fra gli illetterati, fra la "folla sudicia", come
si usava chiamarla, fra gli operai e specialmente fra i socialisti seguaci
di Owen.
Ma in seguito l'Inghilterra si è "civilizzata". L'esposizione
del 185137 segnò la fine del suo esclusivismo insulare.
A poco a poco l'Inghilterra si è internazionalizzata nel mangiare e
nel bere, nei costumi, nelle idee, a un punto tale che io incomincio ad augurare
che certi costumi e abitudini inglesi vengano generalmente accolti sul Continente,
come altri costumi continentali sono stati accolti in Inghilterra. Una cosa
è sicura: la popolarizzazione dell'olio d'oliva per l'insalata (che
l'aristocrazia era sola a conoscere prima del 1851) è stata accompagnata
da una fatale diffusione dello scetticismo continentale in materia religiosa;
e si è giunti a un punto tale che l'agnosticismo, pur senza essere
ancora considerato così ammodo come la Chiesa di Stato d'Inghilterra,
si trova, per quanto riguarda la rispettabilità, quasi su uno stesso
piano con la setta dei battisti e incontestabilmente al di sopra dell'esercito
della salvezza38. E non posso fare a meno di pensare che per molti, che sinceramente
deplorano e condannano questo progresso dell'irreligiosità, sarà
una consolazione l'apprendere che queste idee di data recente non sono d'origine
straniera e non portano, come tanti altri oggetti di uso quotidiano, l'etichetta
Made in Germany, ma sono al contrario quanto v'ha di più tradizionalmente
inglese e che i loro autori di duecento anni fa andavano ben più lontano
dei loro discendenti di oggi.
Infatti, che cosa è l'agnosticismo se non un materialismo che si vergogna?
La concezione della natura dell'agnostico è interamente materialista.
L'intero mondo naturale è governato da leggi, ed esclude in modo assoluto
l'intervento di qualsiasi azione esterna. Ma - aggiunge l'agnostico con circospezione
- noi non siamo in grado di poter affermare o infirmare la esistenza di là
dell'universo conosciuto di un qualsiasi essere supremo. Questa riserva poteva
ancora avere la sua ragion d'essere all'epoca in cui Laplace39 rispondeva
fieramente a Napoleone, che gli chiedeva perché nella sua Meccanica
celeste non aveva fatto menzione del creatore: "Je n'avais pas besoin
de cette hypothèse"40. Ma oggi la nostra concezione evoluzionistica
dell'universo non lascia assolutamente più posto né per un creatore
né per un ordinatore; e ammettere un essere supremo che stia al di
fuori di tutto l'universo esistente sarebbe una contraddizione in termini
e inoltre, mi sembra, un'offesa gratuita ai sentimenti delle persone religiose.
Il nostro agnostico ammette pure che le nostre conoscenze sono fondate sui
dati che riceviamo attraverso i sensi; ma - si affretta ad aggiungere - come
possiamo sapere se i nostri sensi ci forniscono delle rappresentazioni fedeli
degli oggetti percepiti per mezzo di essi? E continua informandoci che quando
egli parla degli oggetti e delle loro proprietà non intende in realtà
questi oggetti e queste proprietà di cui non può saper niente
di sicuro, ma semplicemente le impressioni che essi hanno prodotto sui suoi
sensi. Non v'è dubbio che è difficile poter confutare solo con
degli argomenti una tale maniera di ragionare. Ma prima di argomentare gli
uomini hanno agito. "In principio era l'azione"41. E l'attività
umana aveva risolto la difficoltà molto tempo prima che l'ingegnosità
umana l'avesse inventata. The proof of the pudding is in the eating42. Nel
momento che facciamo uso di questi oggetti secondo le qualità che in
essi percepiamo, sottoponiamo a una prova infallibile l'esattezza o l'inesattezza
delle percezioni dei nostri sensi. Se queste percezioni erano false anche
il nostro giudizio circa l'uso dell'oggetto deve essere falso; di conseguenza
il nostro tentativo di usarlo deve fallire. Ma se riusciamo a raggiungere
il nostro scopo, se troviamo che l'oggetto corrisponde all'idea che ne abbiamo,
che esso serve allo scopo a cui lo abbiamo destinato, questa è la prova
positiva che entro questi limiti le nostre percezioni dell'oggetto e delle
sue qualità concordano con la realtà esistente fuori di noi.
Quando invece il nostro tentativo non riesce, non ci mettiamo molto, d'abitudine,
a scoprire le cause del nostro insuccesso; troviamo che la percezione che
ha servito di base al nostro tentativo, o era per se stessa incompleta o superficiale,
o era collegata in modo non giustificato dalla realtà coi dati di altre
percezioni43. Nella misura in cui avremo preso cura di educare e di utilizzare
correttamente i nostri sensi, e di mantenere la nostra azione nei limiti prescritti
da percezioni correttamente ottenute e correttamente utilizzate, troveremo
che il successo delle nostre azioni dimostra che le nostre percezioni sono
conformi alla natura oggettiva degli oggetti percepiti. Finora non abbiamo
un solo esempio che le nostre percezioni sensorie, scientificamente controllate,
determinino nel nostro cervello delle idee sul mondo esterno le quali siano,
per loro natura, in contrasto con la realtà, o che vi sia una incompatibilità
immanente fra il mondo esterno e le percezioni sensorie che noi ne abbiamo.
Ma ecco farsi avanti l'agnostico neokantiano, il quale ora ci dice: - Noi
possiamo, sì, percepire correttamente le proprietà di un oggetto,
ma nessun procedimento sensorio o mentale ci permette di conoscere la cosa
in sé. Questa cosa in sé è al di là della nostra
conoscenza. - A ciò Hegel già da molto tempo ha risposto. Se
conoscete tutte le qualità di una cosa, conoscete anche la cosa in
sé; non resta altro che il fatto che la cosa stessa esiste all'infuori
di voi, e quando i vostri sensi vi hanno appreso questo fatto, avete colto
l'ultimo resto della cosa in sé, della celebre inconoscibile cosa in
sé di Kant. Oggi possiamo soltanto aggiungere che al tempo di Kant
la nostra conoscenza degli oggetti naturali era così frammentaria,
che si era in diritto di supporre44 una misteriosa cosa in sé. Ma da
allora queste cose inafferrabili sono state le une dopo le altre afferrate,
analizzate e, ciò che più conta, riprodotte dal progresso gigantesco
della scienza45. E non possiamo considerare inconoscibile ciò che noi
stessi possiamo produrre. Mentre le sostanze organiche erano, per la chimica
della prima metà del secolo, delle cose misteriose, oggi impariamo
a fabbricarle le une dopo le altre dai loro elementi chimici, senza l'ausilio
di processi organici. La chimica moderna dichiara che non appena la costituzione
chimica di un corpo qualsiasi è conosciuta, questo corpo può
venire fabbricato dai suoi elementi. Siamo ancora lontani dal conoscere esattamente
la costituzione delle sostanze organiche più elevate, dei cosiddetti
corpi albuminoidi; ma non v'è alcuna ragione di pensare che non giungeremo
a questa conoscenza, dopo secoli di ricerche, se sarà necessario, e
che armati di questa conoscenza, non riusciremo a produrre l'albumina artificiale.
Quando saremo arrivati a questo punto, avremo in pari tempo prodotto la vita
organica, perché la vita, dalle sue forme più semplici alle
più complesse, non è altro che il modo di essere normale dei
corpi albuminoidi.
Ad ogni modo il nostro agnostico, dopo aver fatto queste riserve mentali di
pura forma, parla e agisce come il più convinto materialista, poiché
tale in fondo egli è. Anch'egli dirà che, dato lo stato delle
nostre conoscenze, la materia e il movimento - l'energia, come si dice ora
- non possono essere né creati né distrutti, ma non abbiamo
nessuna prova ch'essi non siano stati creati in un momento qualunque che ignoriamo.
Ma se tentate di ritorcere contro di lui questa concessione in un caso particolare
qualsiasi, egli vi farà senz'altro tacere. Se pure ammette la possibilità
dello spiritualismo in abstracto, non ne vuol sentir parlare in concreto.
Egli vi dirà che per quanto noi conosciamo e possiamo conoscere, non
esiste un creatore o un ordinatore dell'universo; che, per ciò che
ci riguarda, la materia e l'energia non possono essere né create né
distrutte; che per noi il pensiero è una forma dell'energia, una funzione
del cervello; che tutto ciò che noi sappiamo è che il mondo
materiale è governato da leggi immutabili, e così di seguito.
Dunque, in quanto egli è uomo di scienza, in quanto egli sa qualche
cosa, egli è materialista; al di là della sua scienza, nelle
sfere dove egli non sa niente, egli traduce la sua ignoranza in greco e la
chiama agnosticismo.
In ogni caso, una cosa mi sembra chiara; anche se io fossi un agnostico non
potrei chiamare la concezione della storia abbozzata in questo opuscolo "agnosticismo
storico". Le persone religiose riderebbero di me, e gli agnostici mi
domanderebbero sdegnati se li voglio canzonare. Spero dunque che anche la
"rispettabilità" britannica, che in tedesco si chiama filisteismo,
non si scandalizzerà se io mi servo in inglese, come lo faccio in molte
altre lingue, del termine "materialismo storico" per indicare quella
concezione dello sviluppo della storia che cerca le cause prime e la forza
motrice decisiva di tutti gli avvenimenti storici importanti nello sviluppo
economico della società, nella trasformazione dei modi di produzione
e di scambio, nella divisione della società in classi che ne deriva
e nella lotta di queste classi tra di loro.
E mi si accorderà forse tanto più facilmente questo permesso,
se mostrerò che il materialismo storico può essere di qualche
utilità anche per la rispettabilità del filisteo britannico.
Ho già detto che circa quaranta o cinquanta anni fa lo straniero colto
che si stabiliva in Inghilterra era disgustato di ciò che aveva ragione
di considerare come il bigottismo religioso e la stupidità della classe
media inglese "rispettabile". Dimostrerò ora che la rispettabile
classe media dell'Inghilterra di quell'epoca non era così stupida come
sembrava allo straniero intelligente. Le sue tendenze religiose si possono
spiegare.
Quando l'Europa uscì dal Medioevo, la borghesia cittadina in via di
sviluppo era in essa l'elemento rivoluzionario. La posizione che essa si era
conquistata in seno all'organizzazione feudale era già divenuta troppo
angusta per la sua forza di espansione. Il libero sviluppo della borghesia
non era più compatibile con il mantenimento del sistema feudale; il
sistema feudale doveva crollare.
Ma il grande centro internazionale del feudalismo era la chiesa cattolica
romana. Essa riuniva tutto l'Occidente feudale europeo, malgrado tutte le
sue guerre intestine, in un grande sistema politico che era in contrasto sia
con i greci scismatici che con il mondo mussulmano. Essa circondava le istituzioni
feudali dell'aureola di una consacrazione divina. Essa aveva modellato la
sua gerarchia su quella della feudalità, e infine era essa stessa diventata
il più potente di tutti i signori feudali, perché almeno un
terzo di tutti i possedimenti fondiari del mondo cattolico le apparteneva.
Prima di poter attaccare il feudalesimo profano separatamente in ogni paese,
bisognava abbattere questa sua organizzazione centrale, sacra.
Parallelamente allo sviluppo della borghesia si produsse però il grande
risveglio della scienza. L'astronomia, la meccanica, la fisica, l'anatomia,
la fisiologia vennero di nuovo coltivate. Per lo sviluppo della sua produzione,
la borghesia aveva bisogno di una scienza che indagasse le proprietà
fisiche degli oggetti naturali e il modo di agire delle forze della natura.
Ma la scienza non era stata fino ad allora che l'umile serva della chiesa,
cui non era permesso di oltrepassare i limiti posti dalla fede, in una parola,
era stata tutto eccetto che scienza. La scienza insorse allora contro la chiesa;
la borghesia aveva bisogno della scienza e si unì al movimento di rivolta.
Ho toccato in questo modo solo due dei punti nei quali la borghesia in sviluppo
doveva entrare in collisione con la religione stabilita; ciò è
però sufficiente per dimostrare, in primo luogo, che la borghesia era
la classe più direttamente interessata alla lotta contro la potenza
della chiesa cattolica e, in secondo luogo, che in quell'epoca ogni lotta
contro il feudalesimo doveva assumere un aspetto religioso e doveva in prima
linea essere diretta contro la chiesa. Ma se furono le università e
i mercanti delle città a lanciare per primi il grido di guerra, esso
non poteva mancare, e infatti non mancò di trovare un'eco fra le masse
popolari delle campagne, fra i contadini, che dappertutto conducevano contro
i signori feudali, tanto spirituali che temporali, una lotta ostinata, e precisamente
una lotta per l'esistenza.
La lunga lotta della borghesia europea contro il feudalesimo culminò
in tre grandi battaglie decisive.
La prima fu quella che noi chiamiamo la Riforma protestante in Germania. Al
grido di guerra di Lutero contro la chiesa risposero due insurrezioni politiche:
prima l'insurrezione della piccola nobiltà diretta da Franz von Sickingen
nel 1523, e poi la grande Guerra dei contadini del 1525. Entrambe furono sconfitte,
soprattutto a causa della indecisione dei borghesi urbani, quantunque essi
fossero i maggiori interessati, indecisione di cui non possiamo qui ricercare
le cause. Da quel momento la lotta degenerò in un conflitto fra i principi
locali e il potere centrale imperiale, ed ebbe come conseguenza la scomparsa
della Germania, per il corso di due secoli, dal novero delle nazioni europee
politicamente attive. Dalla Riforma luterana sorse però una nuova religione,
e precisamente una religione adatta alle esigenze della monarchia assoluta.
Non appena i contadini tedeschi del Nord-est si furono convertiti al luteranesimo,
furono respinti dallo stato di uomini liberi allo stato di servi.
Ma dove Lutero fallì, Calvino riportò la vittoria. La sua dottrina
rispondeva alle esigenze della parte più ardita della borghesia dell'epoca.
La sua dottrina della predestinazione era l'espressione religiosa del fatto
che nel mondo commerciale della concorrenza il successo o il fallimento non
derivano dall'attività o dall'abilità dell'uomo, ma da circostanze
indipendenti da lui. "Non si tratta dunque della volontà o dell'azione
del singolo, ma della grazia" di superiori, ma sconosciute, forze economiche.
E questo era particolarmente vero in un'epoca di rivoluzione economica, quando
tutti gli antichi centri e le strade del commercio venivano sostituiti da
altri, quando l'America e le Indie si aprivano al mondo, e anche i più
sacri articoli della fede economica - i valori dell'oro e dell'argento - cominciavano
a vacillare e a crollare. Inoltre la costituzione della chiesa di Calvino
era assolutamente democratica e repubblicana; e allorché il regno di
dio si faceva repubblicano, come potevano i regni di questo mondo restare
sotto il dominio di monarchi, di vescovi e di signori feudali? Mentre il luteranesimo
tedesco diventava docile strumento nelle mani di principotti tedeschi, il
calvinismo fondava una repubblica in Olanda e forti partiti repubblicani in
Inghilterra e particolarmente in Scozia.
Il secondo grande sollevamento della borghesia trovò nel calvinismo
la sua dottrina di lotta bell'e pronta. Questo sollevamento si produsse in
Inghilterra. La borghesia delle città si lanciò per la prima
nel movimento; i contadini medi (yeomanry) dei distretti rurali lo fecero
trionfare. È abbastanza curioso il fatto che in tutte le tre grandi
rivoluzioni della borghesia i contadini forniscono l'esercito per la lotta,
mentre sono la classe che dopo la vittoria viene immancabilmente rovinata
dalle conseguenze economiche della vittoria stessa. Un secolo dopo Cromwell46,
la yeomanry inglese era quasi scomparsa. Eppure fu solo per la partecipazione
di questa yeomanry e dell'elemento plebeo delle città che la lotta
venne combattuta fino alla vittoria e Carlo I fatto salire sul patibolo47.
Affinché potessero venire assicurate almeno quelle conquiste della
borghesia che erano mature e pronte ad essere mietute, era necessario che
la rivoluzione oltrepassasse di molto il suo scopo, esattamente come in Francia
nel 1793 e in Germania nel 1848. Sembra che questa sia una delle leggi della
evoluzione della società borghese.
A questo eccesso di attività rivoluzionaria succedette in Inghilterra
la inevitabile reazione, la quale a sua volta oltrepassò di molto lo
scopo48. Dopo una serie di oscillazioni il nuovo centro di gravità
finì per essere raggiunto e diventò il punto di partenza della
evoluzione ulteriore. Il grande periodo della storia inglese, che i filistei
chiamano la "grande ribellione", e le lotte che la seguirono, ebbero
la loro conclusione in un avvenimento relativamente meschino del 1689 che
gli storici liberali decorano col titolo di "gloriosa rivoluzione"49.
Il nuovo punto di partenza fu un compromesso fra la borghesia ascendente e
gli antichi grandi proprietari feudali. Questi ultimi, quantunque si chiamassero
come oggi aristocrazia, erano già da tempo sulla via di diventare ciò
che diventò Luigi Filippo50 in Francia solo molto tempo dopo: i primi
borghesi della nazione. Fortunatamente per l'Inghilterra i vecchi signori
feudali si erano massacrati reciprocamente durante le guerre delle due rose51.
I loro successori, quantunque generalmente rampolli delle stesse vecchie famiglie,
discendevano da linee collaterali così lontane che costituivano un
corpo completamente nuovo, con abitudini e tendenze ben più borghesi
che feudali. Essi conoscevano perfettamente il valore del denaro e incominciarono
immediatamente ad aumentare le loro rendite fondiarie, espellendo centinaia
di piccoli fittavoli e sostituendoli con delle pecore. Enrico VIII, dissipando
in donazione e prodigalità le terre della chiesa, creò una legione
di nuovi grandi proprietari fondiari borghesi. Allo stesso risultato portarono
le ininterrotte confische di grandi domini, che si cedevano poi a piccoli
o grandi nuovi venuti, continuate dopo di lui sino alla fine del secolo XVII.
Per conseguenza, a partire da Enrico VII, l'"aristocrazia" inglese
non pensò affatto a ostacolare lo sviluppo della produzione industriale,
ma cercò anzi di trarne un beneficio. Allo stesso modo non è
mai mancata una parte dei proprietari fondiari disposta, per ragioni economiche
e politiche, a collaborare coi capi della borghesia industriale e finanziaria.
Il compromesso del 1689 si realizzò dunque facilmente. Le spolia opima
politiche - gli uffici, le sinecure, i grossi stipendi - furono lasciate alle
grandi famiglie nobiliari, a condizione che esse prestassero sufficiente attenzione
agli interessi economici della borghesia finanziaria, industriale e mercantile.
E questi interessi economici erano già allora sufficientemente potenti
per determinare la politica generale della nazione. Vi potevano essere disaccordi
su questioni singole, ma l'oligarchia aristocratica comprendeva troppo bene
come la sua propria prosperità economica fosse irrevocabilmente legata
a quella della borghesia industriale e commerciale.
A partire da questo momento, la borghesia diventò una frazione, modesta
ma ufficialmente riconosciuta, delle classi governanti dell'Inghilterra, con
le quali aveva in comune l'interesse a mantenere in stato di soggezione la
grande massa lavoratrice del popolo. Il commerciante o il manifatturiere occupò,
nei confronti dei suoi commessi, dei suoi impiegati, dei suoi domestici, la
posizione del padrone che dà da mangiare, o, come si diceva ancora
poco tempo fa in Inghilterra, del "superiore naturale". Egli doveva
cavarne quanto più e quanto miglior lavoro era possibile; e per arrivare
a questo risultato doveva abituarli alla necessaria sottomissione. Egli stesso
era religioso; la religione era stata il vessillo sotto il quale avevano combattuto
il re e i signori; non gli occorse molto per scoprire i vantaggi che si potevano
trarre da questa stessa religione per agire sullo spirito dei suoi inferiori
naturali e per renderli docili agli ordini dei padroni che all'imperscrutabile
volere di dio era piaciuto di porre sopra di loro. In una parola, la borghesia
inglese doveva prendere ora la sua parte nell'oppressione dei "ceti inferiori",
della grande massa produttrice del popolo, e uno dei mezzi usati a questo
scopo di oppressione fu l'influenza della religione.
Vi fu però anche un'altra circostanza che contribuì a rafforzare
le inclinazioni religiose della borghesia: la nascita del materialismo in
Inghilterra. Questa nuova dottrina atea non urtava soltanto i sentimenti della
devota classe media: essa si annunciava oltre tutto come una filosofia conveniente
solo agli eruditi e alle persone colte, a differenza della religione, che
era abbastanza buona per la grande massa incolta, compresa la borghesia. Con
Hobbes il materialismo si presentò sulla scena come difensore dell'onnipotenza
monarchica, e fece appello alla monarchia assoluta per mantenere sotto il
giogo quel puer robustus sed malitiosus che era il popolo. E anche per i successori
di Hobbes, Bolingbroke, Shaftesbury, ecc., la nuova forma deista del materialismo
restò una dottrina aristocratica, esoterica e perciò odiata
dalla borghesia, non solo per la sua eresia religiosa, ma anche per le sue
connessioni politiche antiborghesi. Perciò, in opposizione al materialismo
e al deismo dell'aristocrazia, le stesse sette protestanti che avevano fornito
il vessillo e i combattenti nella lotta contro gli Stuart costituirono la
principale forza di combattimento della classe media progressista, e costituiscono
ancora oggi la spina dorsale del "grande partito liberale".
Il materialismo passava nel frattempo dall'Inghilterra alla Francia, dove
incontrò un'altra scuola filosofica materialista, sorta dal cartesianismo52,
con la quale si fuse. Anche in Francia esso rimase dapprincipio una dottrina
esclusivamente aristocratica; ma il suo carattere rivoluzionario non tardò
a rivelarsi. I materialisti francesi non limitarono la loro critica alle questioni
religiose; essi criticarono tutte le tradizioni scientifiche, tutte le istituzioni
politiche dei tempi loro. Per dimostrare che la loro dottrina aveva una applicazione
universale presero la via più corta: l'applicarono bravamente a tutti
i soggetti della scienza, in un'opera di giganti dalla quale presero il nome,
nell'Enciclopedia. Così, nell'una o nell'altra delle sue forme - come
materialismo dichiarato o come deismo - il materialismo diventò la
concezione del mondo di tutta la gioventù colta della Francia; a un
punto tale che durante la grande rivoluzione la dottrina filosofica covata
in Inghilterra dai monarchici diede un vessillo teorico ai repubblicani e
terroristi, e fornì il testo della Dichiarazione dei diritti dell'uomo53.
La grande rivoluzione francese fu il terzo sollevamento della borghesia, ma
fu il primo che respinse completamente il ciarpame religioso e venne combattuto
esclusivamente sul terreno politico. Essa fu pure la prima rivoluzione in
cui si combatté realmente fino alla distruzione di una delle parti
in guerra, l'aristocrazia, e fino al completo trionfo dell'altra, la borghesia.
In Inghilterra la continuità delle istituzioni prerivoluzionarie e
postrivoluzionarie e il compromesso tra i grandi proprietari fondiari e i
capitalisti trovarono la loro espressione nella continuità dei precedenti
giuridici e nella conservazione piena di rispetto delle forme legali feudali.
In Francia la rivoluzione ruppe completamente con le tradizioni del passato,
spazzò le utime vestigia del feudalesimo e creò nel Code civil54
un magistrale adattamento dell'antico diritto romano alle condizioni del capitalismo
moderno, un'espressione quasi perfetta delle relazioni giuridiche economiche
corrispondenti a quello stadio dello sviluppo economico che Marx chiama "produzione
mercantile"; così geniale che questo codice rivoluzionario francese
serve ancora oggi di modello alla riforma delle leggi sulla proprietà
in tutti i paesi, non esclusa l'Inghilterra. Non dimentichiamo però
una cosa. Se il diritto inglese continua ad esprimere le relazioni economiche
della società capitalistica in una barbara lingua feudale, che corrisponde
alla sostanza che vuole esprimere così come l'ortografia inglese corrisponde
alla pronuncia - vous écrivez Londres et vous prononcez Costantinople55,
diceva un francese - questo stesso diritto inglese è però il
solo che abbia conservato intatta e trasmesso all'America e alle colonie la
parte migliore di quella libertà personale, di quell'autonomia locale
e di quella indipendenza di fronte ad ogni intervento estraneo, fatta eccezione
per quello della giustizia, in una parola, la parte migliore di quelle vecchie
libertà germaniche che sul continente erano andate perdute sotto la
monarchia assoluta e che fino ad oggi non sono più state riconquistate
completamente in nessun paese.
Ma ritorniamo al nostro borghese inglese. La rivoluzione francese gli procurò
una splendida occasione di rovinare con il concorso delle monarchie continentali,
il commercio marittimo francese, di annettersi le colonie francesi, di finirla
con le ultime velleità francesi di rivaleggiare sui mari. Questa fu
una delle ragioni per cui egli combatté contro la rivoluzione. L'altra
ragione fu che i metodi di questa rivoluzione gli ripugnavano e non soltanto
detestava il suo "esecrabile" terrorismo, ma anche il suo tentativo
di spingere all'estremo il dominio della borghesia. Che ne sarebbe stato del
borghese inglese senza la sua aristocrazia che gli insegnava le belle maniere
(degne del maestro), che inventava per lui le mode, che forniva gli ufficiali
all'esercito, custode dell'ordine all'interno, e alla flotta, conquistatrice
di colonie e di nuovi mercati all'estero? C'era anche una minoranza progressista
della borghesia, è vero: gente i cui interessi erano usciti male dal
compromesso. Questa minoranza, reclutata principalmente nella classe media
meno ricca, simpatizzò con la rivoluzione, ma era impotente nel parlamento.
Così, quanto più il materialismo diventava il credo della rivoluzione
francese, tanto più il borghese inglese timorato di dio si aggrappava
tenacemente alla sua religione. Il regno del terrore a Parigi non aveva dimostrato
a quali eccessi si arriva quando le masse perdono la religione? Quanto più
il materialismo si propagava dalla Francia ai paesi vicini e veniva rinforzato
da analoghe correnti dottrinali, specialmente dalla filosofia tedesca, quanto
più il materialismo e il libero pensiero diventavano sul Continente
le qualità richieste da ogni spirito colto, tanto più tenacemente
la classe media inglese si aggrappava alle sue svariate credenze. Queste credenze
potevano differire le une dalle altre, ma tutte erano fortemente religiose
e cristiane.
Mentre la rivoluzione assicurava in Francia il trionfo politico della borghesia,
in Inghilterra Watt, Arkwright, Cartwright56 ed altri iniziavano una rivoluzione
industriale che spostò completamente il centro di gravità della
potenza economica. La ricchezza della borghesia aumentava ora in modo infinitamente
più rapido di quella dell'aristocrazia fondiaria. Nella stessa borghesia,
l'aristocrazia finanziaria, i banchieri, ecc. erano sempre più spinti
in secondo piano dai fabbricanti. Il compromesso del 1689, anche con i mutamenti
graduali che aveva subìto a vantaggio della borghesia, non corrispondeva
più alle posizioni relative delle parti contraenti. Anche il carattere
di queste parti contraenti si era modificato. La borghesia del 1830 differiva
notevolmente da quella del secolo precedente. Il potere politico, restato
ancora nelle mani dell'aristocrazia che ne approfittava per resistere alle
pretese della nuova borghesia industriale, diventò incompatibile con
i nuovi interessi economici. Si imponeva una nuova lotta contro l'aristocrazia,
essa non poteva terminare se non con la vittoria del nuovo potere economico.
Grazie all'impulso impresso dalla rivoluzione francese nel 1830, venne realizzata,
malgrado tutte le resistenze, la riforma parlamentare57; essa diede alla borghesia
nel parlamento una posizione forte e riconosciuta. Seguì poi l'abrogazione
delle leggi sui cereali58, che assicurò una volta per sempre il predominio
della borghesia, specialmente della sua frazione più attiva, i fabbricanti,
sull'aristocrazia fondiaria. Questa fu la più grande vittoria della
borghesia, e fu anche l'ultima che essa riportò a suo profitto esclusivo.
Tutti i suoi trionfi successivi essa dovrà dividerli con una nuova
forza sociale, dapprincipio sua alleata, ma in seguito sua rivale.
La rivoluzione industriale aveva dato origine a una classe di potenti manufatturieri
capitalisti, ma anche ad una classe, molto più numerosa, di operai
di fabbrica. Questa classe aumentava continuamente di numero, nella misura
in cui la rivoluzione industriale si estendeva da un ramo all'altro della
produzione. In proporzione al numero aumentava però anche la sua forza;
e questa forza si fece sentire già nel 1824, quando costrinse un parlamento
recalcitrante a sospendere le leggi contro la libertà di associazione.
Durante l'agitazione per la riforma parlamentare gli operai formarono l'ala
radicale del partito riformista; quando la legge del 1832 li escluse dal suffragio
essi formularono le loro rivendicazioni nella Carta del Popolo (People's Charter)59
e si organizzarono, in opposizione al forte partito borghese favorevole all'abolizione
della legge sui cereali, in partito cartista indipendente. Questo fu il primo
partito operaio dei tempi moderni.
Poi vennero le rivoluzioni del febbraio e del marzo 1848 sul continente, nelle
quali gli operai ebbero una parte così importante e formularono, almeno
a Parigi, delle rivendicazioni che erano assolutamente inammissibili per la
società capitalistica. E sopravvenne allora la reazione generale. Dapprima
la disfatta dei cartisti il 10 aprile 184860; poi la repressione della insurrezione
degli operai parigini nel giugno dello stesso anno; quindi gli insuccessi
del 1849 in Italia, in Ungheria, nella Germania meridionale, e infine la vittoria
di Luigi Bonaparte61 su Parigi, il 2 dicembre 1851. Lo spauracchio delle rivendicazioni
operaie era così scacciato, almeno per un certo tempo; ma a qual prezzo!
Se il borghese inglese era già prima convinto che bisognava mantenere
nella gente del popolo lo spirito religioso, con quanta maggior urgenza doveva
sentirne la necessità ora, dopo tutte queste esperienze! E senza menomamente
preoccuparsi delle canzonature dei suoi compari continentali, la borghesia
inglese continuò a spendere milioni su milioni, anno per anno, per
evangelizzare i ceti inferiori. Non soddisfatta del proprio apparato religioso,
essa chiamò in suo soccorso Fra Gionata62, il più abile organizzatore
che allora esistesse della religione come affare commerciale, importò
dall'America il revivalismo, Moody e Sankey63, e così via; infine accettò
persino l'aiuto pericoloso dell'esercito della salvezza, che fa rivivere la
propaganda del cristianesimo primitivo, si rivolge ai poveri e proclama che
essi sono gli eletti, combatte il capitalismo nel suo modo religioso e alimenta
così un elemento di antagonismo di classe, derivante dal cristianesimo
primitivo, che può diventare un giorno pericoloso per i ricchi che
oggi danno denaro per il suo sviluppo.
Sembra sia una legge dell'evoluzione storica che la borghesia non possa in
nessun paese d'Europa conquistare il potere politico - almeno per un periodo
abbastanza lungo - in modo così esclusivo come fece l'aristocrazia
feudale nel Medioevo. Perfino in Francia, dove il feudalesimo fu così
completamente sradicato, la borghesia nel suo insieme, come classe, non s'è
impadronita del governo che per periodi corti. Durante il regno di Luigi Filippo,
dal 1830 al 1848, solo una piccola frazione della borghesia fu al potere,
mentre la maggior parte di essa era esclusa dal suffragio a causa del censo
elettorale elevato. Sotto la seconda repubblica, dal 1848 al 1851, tutta la
borghesia fu al potere, ma per tre anni soltanto; la sua incapacità
spianò la strada al secondo impero. Soltanto sotto la terza repubblica
la borghesia, nel suo complesso, ha conservato il potere per più di
venti anni; essa dà però già ora segni consolanti di
decadenza. Un regno duraturo della borghesia non è stato possibile
finora che nei paesi come l'America dove il feudalesimo non è mai esistito
e fin dal principio la società si è costituita su una base borghese.
In Inghilterra la borghesia non ebbe mai il potere senza condividerlo. Anche
la vittoria del 1832 lasciò l'aristocrazia in possesso quasi esclusivo
di tutte le alte funzioni governative. La servilità con la quale la
classe media ricca accettò questa situazione mi era incomprensibile,
finché un giorno non intesi in un discorso pubblico un grande fabbricante
liberale, il signor W. A. Forster, supplicare i giovani di Bradford di imparare
il francese, se volevano farsi strada nel mondo; egli citava la propria esperienza
e raccontava il suo imbarazzo allorché, in qualità di ministro,
aveva dovuto muoversi in una società nella quale il francese era almeno
tanto necessario quanto l'inglese; infatti a quell'epoca i borghesi inglesi
erano, in media, dei villani rifatti che, volere o no, dovevano abbandonare
all'aristocrazia quei posti superiori nell'apparato di governo per i quali
si esigevano altre qualità che la grettezza e la vanagloria insulari
condite di astuzia mercantile*4.
Ancora oggi i dibattiti interminabili della stampa sulla "middle class
education"64 dimostrano che la borghesia inglese non si considera ancora
abbastanza degna di una educazione superiore e mira a qualcosa di più
modesto. Fu così che perfino dopo l'abolizione della legge sui cereali
si considerò come una cosa naturale che gli uomini che avevano riportato
la vittoria, i Cobden, i Bright, i Forster, ecc., fossero esclusi da ogni
partecipazione al governo ufficiale del paese sino a che; venti anni dopo,
una nuova riforma parlamentare65 aprì loro la porta del ministero.
Ancora oggi la borghesia inglese è così profondamente permeata
del sentimento della propria inferiorità sociale, che mantiene a spese
proprie e della nazione una casta decorativa di parassiti che deve rappresentare
degnamente la nazione in tutte le grandi funzioni, e si considera altamente
onorata quando un borghese qualunque è considerato degno di essere
ammesso in questa corporazione chiusa, che la borghesia stessa, in fin dei
conti, produce.
La classe media industriale e commerciale non era dunque giunta a scacciare
completamente dal potere politico l'aristocrazia fondiaria, che già
il nuovo rivale, la classe operaia, entrava in scena. La reazione seguita
al movimento cartista e alle rivoluzioni continentali, come pure lo sviluppo
senza precedenti dell'industria inglese dal 1848 al 1866 (che di solito si
attribuisce solamente al libero scambio ma è dovuto in misura molto
maggiore allo sviluppo colossale delle ferrovie, della navigazione oceanica
a vapore e dei mezzi di comunicazione in generale), ancora una volta avevano
condotto la classe operaia alle dipendenze del partito liberale, del quale
essa aveva formato, come nel periodo precartista, l'ala radicale. La rivendicazione
del diritto di voto per gli operai diventò però a poco a poco
irresistibile; mentre i whigs, i capi dei liberali, cadevano di nuovo in preda
allo sgomento. Disraeli66 mostrò la sua superiorità. Egli sfruttò
il momento favorevole per i tories, introducendo nei distretti urbani lo household-suffrage67,
e legando ad esso un rimaneggiamento delle circoscrizioni elettorali. Seguì,
poco dopo, il voto segreto (the ballot); quindi, nel 1884, la estensione dello
household-suffrage a tutte le circoscrizioni, anche rurali, un nuovo rimaneggiamento
delle circoscrizioni, che per lo meno le rese pressocché uguali. Tutte
queste misure aumentarono notevolmente la forza elettorale della classe operaia,
a tal punto che in 150 o 200 collegi elettorali gli operai formarono ora la
maggioranza dei votanti. Ma non vi è migliore scuola del parlamentarismo
per insegnare il rispetto della tradizione! Se la borghesia considera con
rispetto e con devozione quella che Lord John Manners chiama argutamente la
"nostra vecchia nobiltà", la massa degli operai considerava
allora con rispetto e deferenza quella che si chiamava allora la "classe
migliore", la borghesia. E in realtà quindici anni fa l'operaio
inglese era l'operaio modello, la cui rispettosa deferenza verso il padrone
e la cui modestia e umiltà nel reclamare i suoi diritti erano un balsamo
per le ferite inferte ai nostri socialisti tedeschi della cattedra68 dalle
incurabili tendenze comuniste e rivoluzionarie degli operai del loro paese.
Ma i borghesi inglesi erano dei buoni uomini d'affari e vedevano più
lontano dei professori tedeschi. Solo di malavoglia essi avevano diviso il
loro potere con la classe operaia. Durante gli anni del cartismo essi avevano
imparato a conoscere di che cosa è capace quel puer robustus sed malitiosus
che è il popolo. Da allora erano stati obbligati ad accettare la maggior
parte delle rivendicazioni della Carta del popolo, che erano diventate leggi
del paese. Ora più che mai il popolo doveva esser contenuto con dei
mezzi morali; e il primo e il più importante mezzo morale per agire
sulle masse era ancora la religione. Di qui la maggioranza di preti nelle
amministrazioni scolastiche, di qui i crescenti contributi volontari pagati
dalla borghesia per ogni sorta di demagogia religiosa, dal ritualismo69 all'esercito
della salvezza.
Ed è così che si è giunti al trionfo del rispettabile
filisteismo britannico sul libero pensiero e sull'indifferenza religiosa del
borghese continentale. Gli operai della Francia e della Germania erano diventati
dei rivoltosi. Essi erano completamente infetti di socialismo, e inoltre,
e per ottime ragioni, non avevano molti pregiudizi circa la legalità
dei mezzi per conquistarsi il potere. Il puer robustus si era fatto realmente
di giorno in giorno più malitiosus. Quale ultima risorsa rimaneva al
borghese francese e tedesco se non quella di buttare a mare alla chetichella
il loro libero pensiero, allo stesso modo che il giovanotto, preso dal mal
di mare, getta in acqua il sigaro acceso col quale si pavoneggiava imbarcandosi?
L'uno dopo l'altro gli spiriti forti si dettero delle arie compunte, parlarono
con rispetto della chiesa, dei suoi dogmi e delle sue cerimonie, e vi si conformarono
anche, quando non poterono farne a meno. La borghesia francese mangiò
di magro il venerdì, e i borghesi tedeschi in sudore ascoltarono nelle
loro poltrone in chiesa gli interminabili sermoni protestanti. Il loro materialismo
li aveva messi in un brutto impiccio. "Si deve conservare la religione
al popolo": questo era l'ultimo e l'unico mezzo per salvare la società
dalla rovina totale. Per loro disgrazia essi avevano fatto questa scoperta
soltanto dopo aver fatto quanto era loro umanamente possibile per rovinare
la religione per sempre. Ed ora era venuta la volta per il borghese britannico
di canzonarli e di gridar loro: "Imbecilli: tutto questo ve lo avrei
già potuto dire due secoli fa!".
Eppure io temo che né la stupidità religiosa della borghesia
inglese né la conversione post festum di quella continentale potranno
opporre una diga all'avanzata della marea proletaria. La tradizione è
un grande freno, è la forza di inerzia della storia. Ma essa è
soltanto passiva, e perciò deve soccombere. Nemmeno la religione sarà
per la società capitalistica una salvaguardia eterna. Poiché
le nostre idee giuridiche, filosofiche e religiose sono i prodotti più
o meno lontani dei rapporti economici dominanti in una data società,
queste idee non possono mantenersi a lungo dopo che i rapporti economici si
sono radicalmente modificati. O si deve credere a una rivelazione soprannaturale,
oppure si deve ammettere che nessuna predica religiosa è in grado di
sorreggere una società che sta crollando.
Di fatto, anche in Inghilterra gli operai hanno di nuovo incominciato a mettersi
in movimento. Senza dubbio essi sono ancora tenuti alla catena da ogni genere
di tradizioni. Tradizioni borghesi, come il pregiudizio largamente diffuso
che non vi possono essere che due partiti, il conservatore e il liberale,
e che la classe operaia deve conquistare la sua emancipazione con l'aiuto
del grande partito liberale. Tradizioni operaie, ereditate dai primi tentativi
di azione indipendente, come l'esclusione da numerose vecchie Trade Unions
di tutti quegli operai che non hanno fatto un periodo regolamentare di apprendistato,
il che non significa altro se non che ogni sindacato che agisce a questo modo
si crea egli stesso i suoi crumiri. Malgrado tutto, però, la classe
operaia inglese marcia in avanti: perfino il professor Brentano70 è
stato costretto con rincrescimento a segnalare il fatto ai suoi confratelli
del socialismo della cattedra. Come ogni cosa in Inghilterra, essa si muove
con passo lento e misurato, qui esitando, là facendo a tastoni dei
tentativi in parte infelici; a volte diffidando esageratamente della parola
socialismo, assorbendone però a poco a poco la sostanza. Essa si muove,
e il suo movimento abbraccia tutti gli strati operai, uno dopo l'altro. Ora
essa ha scosso dal loro torpore i manovali dell'East End di Londra, e noi
tutti abbiamo visto quale magnifico impulso queste nuove forze a loro volta
hanno impresso al movimento. E se la marcia del movimento non è così
rapida come lo desidererebbe l'impazienza di certuni, non dimentichino costoro
che è la classe operaia che mantiene in vita le migliori qualità
del carattere nazionale inglese, e che quando in Inghilterra vien fatto un
passo in avanti non è mai più perduto. Se i figli dei vecchi
cartisti, per le ragioni già accennate, non sono stati ciò che
si attendeva, i nipoti promettono di esser degni dei loro nonni.
Ma il trionfo della classe operaia europea non dipende soltanto dall'Inghilterra.
Esso non potrà essere conquistato che mediante la collaborazione almeno
dell'Inghilterra, della Francia e della Germania71. In questi due ultimi paesi
il movimento operaio è un bel tratto più avanzato che quello
inglese.
In Germania la distanza che lo separa dal trionfo può essere valutata.
I progressi ch'esso ha fatto in questo paese negli ultimi venticinque anni
sono senza precedenti ed esso avanza con una rapidità sempre crescente.
Se la borghesia tedesca si è mostrata sprovvista in modo lamentevole
di capacità politica, di disciplina, di coraggio, di energia, la classe
operaia tedesca ha dato prova di possedere in alto grado tutte queste qualità.
Or sono circa quattro secoli, la Germania fu il punto di partenza del primo
grande sollevamento della classe media europea; al punto in cui sono oggi
le cose, è forse impossibile che la Germania sia anche il teatro della
prima grande vittoria del proletariato europeo?
Friedrich Engels
Capitolo I
Il socialismo moderno, considerato nel suo contenuto, è anzitutto il
risultato della visione, da una parte, degli antagonismi di classe, dominanti
nella società moderna, tra possidenti e non possidenti, salariati e
capitalisti; dall'altra, dell'anarchia dominante nella produzione. Considerato
invece nella sua forma teorica, esso appare all'inizio come una continuazione
più radicale, che vuol essere più conseguente, dei princìpi
sostenuti dai grandi illuministi francesi del XVIII secolo. Come ogni nuova
teoria, esso ha dovuto anzitutto ricollegarsi al materiale ideologico preesistente,
per quanto avesse la sua radice nella realtà economica.
I grandi uomini che in Francia, illuminando gli spiriti, li prepararono alla
rivoluzione che si avvicinava, agirono essi stessi in un modo estremamente
rivoluzionario. Non riconoscevano nessuna autorità esteriore di qualsiasi
specie essa fosse. Religione, concezione della natura, società, ordinamento
dello Stato, tutto fu sottoposto alla critica più spietata; tutto doveva
giustificare la propria esistenza davanti al tribunale della ragione o rinunziare
all'esistenza. L'intelletto pensante fu applicato a tutto come unica misura.
Era il tempo in cui, come dice Hegel, il mondo venne poggiato sulla testa*5,
dapprima nel senso che la testa dell'uomo e i princìpi trovati dal
suo pensiero pretesero di valere come base di ogni azione e di ogni associazione
umana; ma più tardi anche nel senso più ampio che la realtà,
che era in contraddizione con questi princìpi, fu effettivamente rovesciata
da cima a fondo. Tutte le forme sociali e statali che sino allora erano esistite,
tutte le antiche idee tradizionali furono gettate in soffitta come cose irrazionali,
il mondo si era fino a quel momento lasciato guidare unicamente da pregiudizi;
tutto il passato meritava solo compassione e disprezzo. Ora per la prima volta
spuntava la luce del giorno; d'ora in poi la superstizione, l'ingiustizia,
il privilegio e l'oppressione sarebbero stati soppiantati dalla verità
eterna, dalla giustizia eterna, dall'eguaglianza fondata sulla natura, dai
diritti inalienabili dell'uomo.
Noi sappiamo ora che questo regno della ragione non fu altro che il regno
della borghesia idealizzato, che la giustizia eterna trovò la sua realizzazione
nella giustizia borghese; che l'eguaglianza andò a finire nella borghese
eguaglianza davanti alla legge; che la proprietà fu proclamata proprio
come uno dei più essenziali diritti dell'uomo; e che lo Stato conforme
a ragione, il contratto sociale di Rousseau72, si realizzò, e solo
così poteva realizzarsi, come repubblica democratica borghese. I grandi
pensatori del secolo XVIII non poterono oltrepassare i limiti imposti loro
dalla loro epoca più di quanto lo avevano potuto tutti i loro predecessori.
Ma, accanto all'antagonismo tra nobiltà feudale e borghesia, che pretendeva
rappresentare tutta la rimanente società, sussisteva l'antagonismo
generale tra sfruttatori e sfruttati, tra ricchi oziosi e poveri lavoratori.
E precisamente questa circostanza rendeva possibile ai rappresentanti della
borghesia di ergersi a rappresentanti non soltanto di una classe particolare,
ma di tutta l'umanità sofferente. E c'è di più. Sin dalla
sua origine la borghesia era affetta dall'antagonismo che le è proprio:
non possono esserci capitalisti senza operai salariati, e nella stessa misura
in cui il maestro della corporazione medievale evolveva nel borghese moderno,
il garzone della corporazione e il giornaliero che non apparteneva a nessuna
corporazione evolvevano nel proletario. E sebbene nel complesso la borghesia
avesse il diritto di pretendere di rappresentare contemporaneamente, nella
lotta contro la nobiltà, gli interessi delle diverse classi lavoratrici
di quell'epoca, pure, in ogni grande movimento borghese, scoppiavano dei moti
autonomi di quella classe che era la precorritrice più o meno sviluppata
del proletariato moderno. Così nell'epoca della Riforma e della Guerra
dei contadini gli anabattisti e Thomas Münzer73; nella grande rivoluzione
inglese i Livellatori74; nella grande rivoluzione francese Babeuf75. Accanto
a queste levate di scudi rivoluzionarie di una classe ancora immatura fecero
la loro comparsa manifestazioni teoriche ad esse adeguate: nei secoli XVI
e XVII le descrizioni utopistiche di regimi sociali ideali76, nel secolo XVIII
le teorie comuniste vere e proprie (Morelly e Mably77). La rivendicazione
dell'eguaglianza non si limitò più ai diritti politici, essa
doveva estendersi anche alla posizione sociale dei singoli; non si dovevano
sopprimere semplicemente privilegi di classe, ma le stesse differenze di classe.
La prima forma con cui la nuova dottrina fece la sua comparsa fu così
un comunismo ascetico che si ricollegava a Sparta e spregiatore di tutti i
godimenti della vita. Seguirono poi i tre grandi utopisti: Saint-Simon, nel
quale le tendenze borghesi conservavano ancora una certa validità accanto
alla tendenza proletaria, Fourier e Owen, il quale, nel paese in cui la produzione
capitalistica era più sviluppata e sotto l'impressione degli antagonismi
che ne risultavano, ricollegandosi direttamente al materialismo francese,
sviluppò sistematicamente i suoi progetti per l'eliminazione delle
differenze di classe.
È comune a tutti e tre il fatto che essi non si presentano come rappresentanti
degli interessi del proletariato, che frattanto si era prodotto storicamente.
Come gli illuministi essi non vogliono cominciare col liberare una classe
determinata, ma tutta quanta l'umanità ad un tempo. Come quelli, essi
vogliono instaurare il regno della ragione e della giustizia eterna; ma il
loro regno differisce da quello degli illuministi come la terra dal cielo.
Anche il mondo borghese ordinato secondo i princìpi di questi illuministi
è irrazionale e ingiusto e trova il suo posto nel secchio dell'immondizia
proprio come il feudalesimo e tutti i regimi sociali precedenti. Se la ragione
e la giustizia effettive non hanno sino ad ora regnato nel mondo, ciò
proviene solo dal fatto che non se ne è avuta sino ad ora una giusta
conoscenza. Mancava proprio quel singolo uomo geniale che ora è apparso
e ha riconosciuto la verità; che esso sia comparso ora, che proprio
ora sia stata riconosciuta la verità, non è un avvenimento inevitabile
che consegua necessariamente dal nesso dello sviluppo storico, ma un puro
caso fortunato. Sarebbe potuto nascere ugualmente cinquecento anni prima e
avrebbe allora risparmiato all'umanità cinquecento anni di errori,
di lotte e di sofferenze78.
Abbiamo visto come i filosofi francesi del XVIII secolo, coloro che prepararono
la rivoluzione, si appellassero alla ragione come unico giudice di tutto ciò
che esiste. Dovevano istituirsi uno Stato secondo ragione e una società
secondo ragione e tutto ciò che contraddiceva alla ragione eterna doveva
essere eliminato senza misericordia. Abbiamo visto del pari che questa ragione
eterna in realtà non era altro che l'intelletto idealizzato del cittadino
della classe media che proprio allora andava evolvendosi nel borghese moderno.
Ora, quando la rivoluzione francese ebbe realizzato questa società
secondo ragione e questo Stato secondo ragione, le nuove istituzioni, per
quanto razionali esse fossero a paragone del precedente stato di cose, tuttavia
non risultarono affatto assolutamente razionali. Lo Stato secondo ragione
era completamente andato in fumo. Il Contratto sociale di Rousseau aveva trovato
la sua realizzazione nel Terrore79, uscita dal quale la borghesia, che aveva
perduto la fede nella propria capacità politica, si era rifugiata prima
nella corruzione del Direttorio80 e finalmente sotto la protezione del dispotismo
napoleonico.
La pace perpetua che era stata promessa si trasformò in una guerra
di conquista senza fine. La società secondo ragione non ebbe sorte
migliore. Il contrasto tra ricchi e poveri, anziché risolversi nel
benessere generale, fu acuito dall'eliminazione dei privilegi corporativi
e di altro genere che lo mitigavano e dalle istituzioni ecclesiastiche di
beneficenza che lo attenuavano; la "libertà della proprietà"
dai ceppi feudali, diventata ora una realtà, si presentava ai piccoli
borghesi e ai piccoli contadini come la libertà di vendere la loro
piccola proprietà, schiacciata dalla concorrenza preponderante del
grande capitale e della grande proprietà terriera, precisamente a questi
grandi signori, e quindi come libertà di trasformarsi, per i piccoli
borghesi e i piccoli contadini, nella libertà dalla proprietà;
lo slancio dell'industria su base capitalistica elevò miseria e povertà
delle masse lavoratrici a condizione di vita per la società. Il pagamento
in contanti divenne sempre più, secondo l'espressione di Carlyle81
l'unico elemento di coesione della società. Il numero dei delitti crebbe
di anno in anno. Se i vizi feudali che prima facevano spudoratamente mostra
di sé alla luce del sole, furono, se non soppressi, almeno temporaneamente
confinati in secondo piano, al loro posto tanto più rigogliosamente
fiorirono i vizi borghesi fino ad allora coltivati in segreto. Il commercio,
sviluppandosi, divenne sempre più imbroglio. La parola d'ordine rivoluzionaria
della "fratellanza" si realizzò nelle angherie e nell'invidia
della lotta della concorrenza. Al posto dell'oppressione violenta subentrò
la corruzione, al posto della spada, quale leva principale del potere sociale,
subentrò il denaro. Il diritto della prima notte passò dai signori
feudali ai fabbricanti borghesi. La prostituzione dilagò in misura
sinora inaudita. Il matrimonio stesso rimase, come prima, una forma giuridicamente
riconosciuta, un mantello che ufficialmente copriva la prostituzione e venne
inoltre completato dall'adulterio praticato su larga scala. Per farla breve,
confrontate con le pompose promesse degli illuministi, le istituzioni sociali
e politiche instaurate col "trionfo della ragione" si rivelarono
caricature e amare delusioni. Mancavano ancora solo gli uomini che constatassero
questa delusione: e questi uomini vennero all'inizio del nuovo secolo. Nel
1802 apparvero le Lettere ginevrine di Saint-Simon; nel 1808 apparve la prima
opera di Fourier, quantunque le basi della sua storia datassero dal 1799;
il primo gennaio del 1800 Robert Owen prese la direzione di New Lanark82.
Ma in questo periodo il modo di produzione capitalistico e con esso l'antagonismo
tra borghesia e proletariato era ancora poco o nulla sviluppato. La grande
industria che era appena sorta in Inghilterra era ancora sconosciuta in Francia.
Ma solo la grande industria sviluppa, da una parte, quei conflitti che rendono
ineluttabilmente necessario un rivoluzionamento del modo di produzione, la
soppressione del suo carattere capitalistico, conflitti non solo tra le classi
che essa forma, ma anche tra le stesse forze produttive e le forme di scambio
che essa parimenti crea; e dall'altra sviluppa proprio in queste gigantesche
forze produttive anche i mezzi per risolvere questi conflitti. Se quindi intorno
al 1800 i conflitti scaturenti dal nuovo ordinamento sociale erano solo sul
nascere, questo vale ancora molto di più riguardo ai mezzi per la loro
soluzione. Se le masse nullatenenti di Parigi durante il Terrore avevano potuto,
per un istante, conquistare il potere e così portare alla vittoria
la rivoluzione borghese anche contro la borghesia, con questo fatto esse avevano
dimostrato solo che nelle condizioni di allora non era possibile che il potere
rimanesse a lungo nelle loro mani. Il proletariato che cominciava appena a
distaccarsi da queste masse nullatenenti, come ceppo di una nuova classe ancora
assolutamente incapace di un'azione politica indipendente, si presentava come
un ceto oppresso, sofferente, al quale, nella incapacità in cui era
di aiutarsi da se stesso, un aiuto poteva tutt'al più portarsi dall'esterno,
dall'alto.
Questa situazione storica teneva in suo potere anche i fondatori del socialismo,
all'immaturità della posizione delle classi, corrispondevano teorie
immature. La soluzione delle questioni sociali, che restava ancora celata
nelle condizioni economiche poco sviluppate, doveva uscire dal cervello umano.
La società non offriva che inconvenienti: eliminarli era compito della
ragione pensante. Si trattava di inventare un nuovo e più perfetto
sistema di ordinamento sociale e di elargirlo alla società dall'esterno,
con la propaganda e, dove fosse possibile, con l'esempio di esperimenti modello.
Questi nuovi sistemi sociali erano, sin dal principio, condannati ad essere
utopie: quanto più erano elaborati nei loro particolari, tanto più
dovevano andare a finire nella pura fantasia.
Una volta stabilito tutto questo, non ci fermeremo neanche un momento di più
su questo lato che oggi appartiene completamente al passato. Possiamo lasciare
a rigattieri della letteratura il compito di andare in giro sofisticando solennemente
su queste fantasticherie, che oggi ormai fanno soltanto sorridere, e il far
valere di fronte a tali "follie" la superiorità del loro
sobrio modo di pensare. Noi preferiamo invece rallegrarci dei germi geniali
di idee e dei pensieri che affiorano dovunque sotto questo manto fantastico
e per i quali quei filistei non hanno occhi.
Saint-Simon fu un figlio della grande rivoluzione francese, scoppiata quando
egli non aveva ancora trent'anni. La rivoluzione fu la vittoria del terzo
stato, cioè della gran massa della nazione attiva nella produzione
e nel commercio, sugli stati oziosi sino allora privilegiati: la nobiltà
e il clero. Ma la vittoria del terzo stato si era presto rivelata come la
vittoria esclusiva di una piccola parte di questo stato, come la conquista
del potere politico da parte dello strato sociale privilegiato di esso, la
borghesia possidente. E invero questa borghesia si era rapidamente sviluppata
già durante la rivoluzione, sia mediante la speculazione sulla proprietà
terriera nobiliare ed ecclesiastica confiscata e poi venduta, sia mediante
la frode compiuta ai danni della nazione dai fornitori militari. Fu proprio
il dominio di questi imbroglioni che sotto il Direttorio condusse la Francia
e la rivoluzione sull'orlo della rovina e con ciò dette a Napoleone
il pretesto per il suo colpo di Stato. Così nella testa di Saint-Simon
l'antagonismo fra terzo stato e stati privilegiati prese la forma dell'antagonismo
tra "lavoratori" ed "oziosi". Gli oziosi non erano soltanto
gli antichi privilegiati, ma anche tutti coloro che vivevano di rendite senza
partecipare alla produzione e al commercio. E i "lavoratori" non
erano soltanto i salariati, ma anche i fabbricanti, i mercanti e i banchieri.
Che gli oziosi avessero perduto la capacità della direzione spirituale
e del dominio politico era un fatto compiuto e dalla rivoluzione aveva avuto
l'ultimo suggello. Che i nullatenenti non possedessero questa capacità,
questo fatto appariva a Saint-Simon provato dalle esperienze del Terrore.
Ma chi doveva dirigere e dominare? Secondo Saint-Simon la scienza e l'industria,
entrambe tenute insieme da un nuovo vincolo religioso, destinato a ristabilire
l'unità delle idee religiose distrutta sin dal tempo della Riforma:
un "nuovo cristianesimo" necessariamente mistico e rigidamente gerarchico.
Ma la scienza erano i professori e l'industria erano in prima linea i borghesi
attivi, fabbricanti, mercanti e banchieri. Questi borghesi si sarebbero, è
vero, dovuti tramutare in una specie di pubblici ufficiali, di amministratori
fiduciari della società, ma tuttavia avrebbero dovuto occupare di fronte
agli operai una posizione di comando e anche economicamente privilegiata.
I banchieri specialmente avrebbero dovuto essere chiamati a regolare, mediante
una regolamentazione del credito, tutta la produzione sociale. Questa concezione
corrispondeva ad un periodo in cui in Francia la grande industria e con essa
l'antagonismo tra borghesia e proletariato era proprio solo sul nascere. Ma
ciò che Saint-Simon particolarmente accentua è questo: che a
lui ciò che in primo luogo importa dovunque e sempre è la sorte
della "classe più numerosa e più povera" (la classe
la plus nombreuse et la plus pauvre).
Saint-Simon già nelle sue Lettere ginevrine stabilisce il principio
che "tutti gli uomini debbono lavorare". Nello stesso scritto sa
già che il dominio del Terrore fu il dominio delle masse nullatenenti.
"Guardate - grida loro - che cosa accadde in Francia nel periodo in cui
vi dominavano i vostri compagni: essi portarono la fame". Concepire invece
la rivoluzione francese come una lotta di classi e non solo tra nobiltà
e borghesia, ma tra nobiltà, borghesia e nullatenenti era per l'anno
1802, una scoperta genialissima. Nel 1816 egli dichiara che la politica è
la scienza della produzione e predice che la politica si dissolverà
completamente nell'economia. Se il riconoscimento che la realtà economica
è la base delle istituzioni politiche, appare qui soltanto ancora in
germe, tuttavia la trasformazione del governo politico, esercitato su uomini,
in un'amministrazione di cose e in una direzione di processi produttivi, è
qui espressa già chiaramente e con essa quell'"abolizione dello
Stato", su cui di recente si è fatto tanto chiasso83. Con pari
superiorità sui suoi contemporanei egli proclama nel 1814, immediatamente
dopo l'entrata degli alleati a Parigi84, e ancora nel 1815 durante la guerra
dei cento giorni85, che l'alleanza della Francia con l'Inghilterra, e secondariamente
l'alleanza di tutti e due i Paesi con la Germania, è per l'Europa l'unica
garanzia di uno sviluppo prosperoso e di pace. Per predicare ai francesi del
1815 l'alleanza con i vincitori di Waterloo86, ci voleva certo altrettanto
coraggio quanto lungimiranza storica.
Mentre in Saint-Simon scorgiamo una geniale larghezza di vedute grazie alla
quale in lui sono contenute in germe quasi tutte le idee non rigorosamente
economiche dei socialisti venuti più tardi, in Fourier troviamo una
critica delle vigenti condizioni sociali, ricca di uno spirito schiettamente
francese, ma non perciò meno profondamente penetrante. Fourier prende
in parola la borghesia, i suoi ispirati profeti prerivoluzionari e i suoi
interessati apologisti postrivoluzionari. Egli svela spietatamente la miseria
materiale e morale del mondo borghese e le contrappone tanto le splendide
promesse degli illuministi di una società in cui dominerà la
ragione, di una civiltà che darà ogni felicità e di una
perfettibilità umana illimitata, quanto l'ipocrita fraseologia degli
ideologi borghesi contemporanei, dimostrando come, dovunque, alla frase più
altisonante corrisponda la realtà più miserevole, e coprendo
di beffe mordaci questo irrimediabile fiasco delle frasi. Fourier non è
solo un critico; la sua natura perennemente gaia ne fa un satirico e precisamente
uno dei più grandi satirici di tutti i tempi. La speculazione e la
frode che fiorirono col tramonto della rivoluzione, nonché la generale
grettezza da rigattiere del commercio francese di allora, vengono descritte
da lui con uno spirito pari alla sua maestria. Ancora più magistrale
è la sua critica della forma borghese dei rapporti sessuali e della
posizione della donna nella società borghese87. Egli dichiara per la
prima volta che, in una data società, il grado di emancipazione della
donna è la misura naturale dell'emancipazione generale. Ma dove Fourier
appare più grande è nella sua concezione della storia della
società. Egli divide tutto il suo corso quale sinora si è svolto
in quattro fasi di sviluppo: stato selvaggio, barbarie, stato patriarcale,
civiltà88, la quale ultima coincide con quella che oggi si chiama società
borghese e dimostra che l'"ordinamento civile eleva ognuno di quei vizi,
che la barbarie pratica in una maniera semplice, ad un modo di essere complesso,
a doppio senso, ambiguo e ipocrita", che la civiltà si muove in
un "circolo vizioso", in contraddizioni che continuamente riproduce
senza poterle superare, cosicché essa raggiunge sempre il contrario
di ciò che vuol raggiungere o che dà a vedere di voler raggiungere.
Cosicché, per esempio, "nella civiltà la povertà
sorge dalla stessa abbondanza". Fourier, come si vede, maneggia la dialettica
con la stessa maestria del suo contemporaneo Hegel. Con pari dialettica egli,
di fronte alle chiacchiere sulla infinita perfettibilità umana, mette
in rilievo il fatto che ogni fase storica ha il suo ramo ascendente, ma ha
anche il suo ramo discendente ed applica questo modo di vedere anche al futuro
di tutta la umanità. Come Kant introdusse nella scienza naturale la
futura distruzione della terra, così Fourier introduce nel pensiero
storiografico la futura distruzione dell'umanità.
Mentre in Francia l'uragano della rivoluzione ripulì il paese, in Inghilterra
avvenne una rivoluzione più silenziosa ma non perciò meno poderosa.
Il vapore e le nuove macchine utensili trasformarono la manifattura nella
grande industria moderna e rivoluzionarono così tutta la base della
società borghese. Il sonnolento processo di sviluppo del periodo della
manifattura si trasformò in un vero periodo di tempestoso sviluppo
della produzione89. Con velocità sempre crescente si compì la
scissione della società in grandi capitalisti e proletari nullatenenti:
tra queste due classi invece del ceto medio ben definito di una volta, una
massa instabile di artigiani e di piccoli commercianti, la parte più
fluttuante della popolazione, conduceva ora un'esistenza malsicura. Il nuovo
modo di produzione era ancora solo all'inizio della sua fase ascendente: esso
era ancora il modo di produzione normale e date le circostanze, l'unico modo
possibile. Ma già allora produceva inconvenienti sociali stridenti:
assembrarsi di una popolazione senza sede nei peggiori quartieri delle grandi
città; dissolversi di tutti i legami tradizionali, della subordinazione
patriarcale, della famiglia; sopralavoro specialmente delle donne e dei fanciulli
in misura spaventosa; enorme demoralizzazione della classe operaia gettata
improvvisamente a vivere in condizioni del tutto nuove: dalla campagna alla
città, dall'agricoltura all'industria, da condizioni stabili a condizioni
malsicure e mutevoli di giorno in giorno90. Apparve allora come riformatore
un industriale ventinovenne, un uomo dal carattere di fanciullo, semplice
sino al sublime e ad un tempo dirigente nato come pochi. Robert Owen aveva
fatta sua la dottrina dei materialisti dell'illu-minismo, secondo la quale
il carattere dell'uomo è, da una parte, il prodotto dell'organizzazione
in cui nasce e, dall'altra, delle circostanze che lo circondano durante la
sua vita e specialmente durante il periodo del suo sviluppo. Nella rivoluzione
industriale la maggior parte degli uomini del suo ceto vedeva solo confusione
e caos, che permettono di pescare nel torbido ed arricchirsi rapidamente.
Egli vide in essa invece l'occasione per applicare il suo principio favorito
e così mettere ordine nel caos. Lo aveva già tentato con successo
a Manchester come dirigente di una fabbrica di più di cinquecento operai;
dal 1800 al 1829 diresse in qualità di condirettore le grandi filande
di New Lanark in Scozia seguendo gli stessi princìpi, ma solo con maggiore
libertà di azione e con un successo che gli procurò rinomanza
europea. Una popolazione, che salì a poco a poco a 2.500 unità
e che originariamente si componeva degli elementi più svariati e per
la massima parte fortemente demoralizzati, fu da lui trasformata in una perfetta
colonia modello, nella quale l'ubriachezza, la polizia, il giudice penale,
i processi, l'assistenza ai poveri, il bisogno di beneficenza erano cose sconosciute.
E tutto questo semplicemente per il fatto che egli mise quella gente in condizioni
più degne dell'uomo e, soprattutto, fece educare accuratamente la generazione
nuova. Egli fu l'inventore degli asili d'infanzia e li introdusse qui per
la prima volta. A partire dal secondo anno di vita i bambini venivano a scuola
dove tanto si divertivano che a stento potevano essere ricondotti a casa.
Mentre i suoi concorrenti facevano lavorare da tredici a quattordici ore al
giorno, a New Lanark si lavorava solo dieci ore e mezza. Allorché una
crisi cotoniera costrinse a fermare il lavoro per la durata di quattro mesi,
agli operai in ferie fu corrisposto il pieno salario. E, così stando
le cose, lo stabilimento aveva più che raddoppiato di valore e corrisposto
sino all'ultimo ai proprietari un lauto profitto.
Con tutto ciò Owen non era soddisfatto. L'esistenza che aveva creato
per i suoi operai era ancora ai suoi occhi molto lontana dall'essere un'esistenza
degna dell'uomo; "quegli uomini erano miei schiavi": le condizioni
relativamente favorevoli in cui egli li aveva messi erano ancora molto lontane
dal permettere uno sviluppo generale e razionale del carattere e dell'intelletto
e meno ancora permettevano una libera attività.
"E tuttavia la parte attiva di questi 2.500 uomini produceva per la società
altrettanta ricchezza reale quanta appena un mezzo secolo prima avrebbe potuto
produrne una popolazione di 600.000 uomini. Io mi chiedevo: che cosa avviene
della differenza tra la ricchezza consumata da 2.500 persone e quella che
i 600.000 avrebbero dovuto consumare?".
La risposta era chiara. Essa era stata impiegata per versare ai proprietari
dello stabilimento il 5% di interesse sul capitale investito ed inoltre più
di 300.000 lire sterline (6 milioni di marchi) di profitto. E ciò che
era vero per New Lanark, lo era, e in misura ancora maggiore, per tutte le
fabbriche inglesi.
"Senza questa nuova ricchezza creata dalle macchine non si sarebbero
potute condurre le guerre per abbattere Napoleone, e per mantenere i princìpi
aristocratici della società. Eppure questo nuovo potere era stato creato
dalla classe operaia*6.
Ad essa perciò ne appartenevano anche i frutti. Le nuove potenti forze
produttive, che sino ad allora erano servite solo per l'arricchimento dei
singoli e l'asservimento delle masse, offrivano a Owen le basi per un rinnovamento
sociale ed erano destinate, come proprietà comune, a lavorare solo
per il benessere comune.
In una tale maniera, tipica del mondo degli affari, e, per così dire,
frutto del calcolo commerciale, sorse il comunismo di Owen. E mantenne sempre
lo stesso carattere orientato verso la pratica. Così nel 1823 Owen
propose di eliminare la miseria irlandese mediante colonie comuniste e allegò
al progetto calcoli perfetti sulle spese di impianto, sulle spese annue e
sui redditi prevedibili. E così nel suo piano definitivo per l'avvenire,
l'elaborazione tecnica dei dettagli, compreso lo schizzo, il piano e la visuale
a volo d'uccello è condotta con tale cognizione di causa che, una volta
ammesso il metodo di riforma sociale proposto da Owen, anche dal punto di
vista di uno specialista, ben poco si può dire contro l'organizzazione
particolare.
Il passaggio al comunismo fu il punto critico della vita di Owen. Sino a quando
si era presentato come semplice filantropo non aveva raccolto che ricchezza,
plausi, onori e gloria. Era l'uomo più popolare d'Europa. Non solo
uomini del suo ceto, ma uomini di Stato e prìncipi lo ascoltavano plaudendo.
Ma quando si fece avanti con le sue teorie comuniste, la situazione cambiò
di punto in bianco. Tre grandi ostacoli gli sembrava che soprattutto sbarrassero
la strada alla riforma sociale: la proprietà privata, la religione
e la forma attuale del matrimonio. Attaccandoli egli sapeva che cosa lo attendeva:
il bando da tutta la società ufficiale e la perdita di tutta la sua
posizione sociale. Ma non si lasciò distogliere dall'attaccarli senza
riguardi e avvenne quello che aveva previsto. Messo al bando dalla società
ufficiale, seppellito nel silenzio dalla stampa, impoverito dal fallimento
di esperimenti comunisti in America ai quali aveva sacrificato tutta la sua
fortuna, si volse direttamente alla classe operaia e rimase a lavorare nel
suo seno per altri trent'anni. Tutti i movimenti sociali, tutti i veri progressi
che in Inghilterra sono stati realizzati nell'interesse degli operai, sono
legati al nome di Owen. Così nel 1819, dopo una lotta quinquennale,
riuscì a fare approvare la prima legge per la limitazione del lavoro
delle donne e dei fanciulli nelle fabbriche. Così presiedette il primo
congresso in cui le Trade Unions di tutta l'Inghilterra si riunirono in un'unica
grande organizzazione sindacale91. Così introdusse, come misure di
transizione verso l'organizzazione completamente comunista della società,
da una parte, le società cooperative (di consumo e di produzione) che
da allora hanno per lo meno fornito la prova pratica che tanto il mercante
quanto il fabbricante sono persone delle quali si può benissimo fare
a meno, dall'altra parte, gli empori del lavoro, istituzioni per lo scambio
dei prodotti del lavoro per mezzo di una carta-moneta-lavoro la cui unità
era costituita dall'ora lavorativa92; istituzioni che necessariamente dovevano
fallire, ma che anticipavano in modo perfetto la banca di scambio proudhoniana93
di molto posteriore, e se ne distinguevano proprio perché non volevano
rappresentare la panacea di tutti i mali sociali, ma solo un primo passo per
una trasformazione molto più radicale della società.
Il modo di vedere degli utopisti dominò a lungo le idee socialiste
del secolo XIX e in parte le domina ancora. Ad esso, fino a poco tempo fa,
si inchinarono tutti i socialisti francesi e inglesi, ad esso appartiene anche
il comunismo tedesco degli inizi compreso quello di Weitling94. Il socialismo
è per tutti loro l'espressione della assoluta verità, della
assoluta ragione, della assoluta giustizia e basta che sia scoperto perché
conquisti il mondo con la propria forza; poiché la verità assoluta
è indipendente dal tempo, dallo spazio e dallo sviluppo storico dell'uomo,
è un semplice caso quando e dove sia scoperta. Inoltre poi la verità,
la ragione e la giustizia assolute a loro volta sono diverse per ogni caposcuola;
e poiché la forma particolare che la verità, la ragione e la
giustizia assolute assumono è a sua volta condizionata dall'intelletto
soggettivo, dalle condizioni di vita, dal grado di cognizioni e di educazione
a pensare di ognuno di essi, in questo conflitto di assolute verità
non c'è nessun'altra soluzione possibile se non che esse si logorino
vicendevolmente. Così stando le cose, non poteva allora venir fuori
altro che una specie di socialismo medio eclettico, quale effettivamente regna
sino ad oggi nella testa della maggior parte degli operai socialisti in Francia
e in Inghilterra, una miscela che ammette un'infinita molteplicità
di sfumature, e che risulta da ciò che hanno di meno cospicuo le invettive
critiche, i princìpi di economia e le rappresentazioni della società
futura dei vari fondatori di sette; miscela che si ottiene tanto più
facilmente quanto più ai singoli elementi componenti, nel corso della
discussione, vengono smussati gli angoli acuti della precisione, come ciottoli
levigati nel torrente. Per fare del socialismo una scienza, bisognava anzitutto
farlo poggiare su una base reale.
Capitolo II
Frattanto, accanto e dopo la filosofia francese del secolo XVIII era sorta
la filosofia tedesca moderna e aveva trovato la sua conclusione in Hegel.
Il suo merito maggiore fu la riassunzione della dialettica come la forma più
alta del pensiero. Gli antichi filosofi greci erano stati tutti dei dialettici,
per nascita, per natura, e la mente più universale che vi fu tra loro,
Aristotele, aveva già indagato anche le forme più essenziali
del pensiero dialettico. Per contro la filosofia moderna, quantunque la dialettica
anche in essa abbia avuto splendidi rappresentanti (per es., Descartes e Spinoza),
particolarmente per l'influenza inglese si era sempre più arenata nel
cosiddetto modo di pensare metafisico, che aveva dominato quasi esclusivamente
anche i filosofi francesi del secolo XVIII, almeno in quel che concerne i
loro lavori specificamente filosofici. Mentre, al di fuori della filosofia
propriamente detta, essi erano pure in condizione di dare dei capolavori di
dialettica; ricorderemo solo il Nipote di Rameau di Diderot95 e il Discorso
sull'origine della diseguaglianza tra gli uomini di Rousseau. Daremo qui brevemente
l'essenziale di questi due metodi di pensiero.
Se sottoponiamo alla considerazione del nostro pensiero la natura o la storia
umana o la nostra specifica attività spirituale, ci si offre anzitutto
il quadro di un infinito intreccio di nessi, di azioni reciproche, in cui
nulla rimane quel che era, dove era e come era, ma tutto si muove, si cambia,
nasce e muore. Noi, quindi, in un primo tempo vediamo il quadro d'insieme
nel quale i particolari più o meno passano in seconda linea e badiamo
più al movimento, ai passaggi, ai nessi, che a ciò che si muove,
passa e sta in connessione. Questa visione primitiva, ingenua, ma sostanzialmente
giusta del mondo è quella dell'antica filosofia greca e fu espressa
chiaramente per la prima volta da Eraclito96: tutto è ed anche non
è, perché tutto scorre, è in continuo cambiamento, in
continuo nascere e morire. Ma questa concezione, sebbene colga giustamente
il carattere generale del quadro d'insieme dei fenomeni, pure non è
ancora sufficiente per spiegare i particolari di cui questo quadro d'insieme
si compone, e sino a quando non conosceremo questi particolari, non saremo
chiaramente edotti neppure del quadro stesso. Ma per conoscere questi particolari
dobbiamo staccarli dal loro nesso naturale o storico ed esaminarli ciascuno
per sé, nella loro natura, nelle loro cause, nei loro effetti particolari,
ecc. Questo è il compito che hanno in un primo tempo le scienze naturali
e la ricerca storica, campi d'indagine che per ragioni molto valide non ebbero
presso i greci dell'età classica che una posizione di secondo piano,
perché questi dovevano prima di tutto raccogliere il materiale. Solo
dopo che una certa quantità di materiale della natura e della storia
è stato accumulato, può cominciare il vaglio critico, il raffronto
e rispettivamente la divisione in classi, ordini e specie. Gli inizi dell'indagine
scientifica della natura sorsero solo con i greci del periodo alessandrino97
e, più tardi, nel Medioevo, furono ulteriormente sviluppati dagli arabi;
una vera scienza della natura data, però, solo dalla seconda metà
del secolo XV e da allora ha progredito con celerità costantemente
crescente. L'analisi della natura nelle sue singole parti, la ripartizione
dei diversi fenomeni e degli oggetti della natura in classi determinate, l'indagine
dell'interno dei corpi organici nelle loro molteplici conformazioni anatomiche
sono state la condizione principale dei progressi giganteschi che nella conoscenza
della natura gli ultimi quattrocento anni ci hanno portato. Ma questo metodo
ci ha del pari lasciato la abitudine di concepire le cose e i fenomeni della
natura nel loro isolamento, al di fuori del loro vasto nesso d'insieme; di
concepirli perciò non nel loro movimento, ma nel loro stato di quiete,
non come essenzialmente mutevoli, ma come entità fisse e stabili, non
nella loro vita, ma nella loro morte. E poiché questa maniera di vedere
le cose, come è accaduto con Bacone e con Locke, è passata dalle
scienze naturali nella filosofia, ha prodotto la limitatezza specifica degli
ultimi secoli, cioè il modo di pensare metafisico.
Per il metafisico le cose e le loro immagini riflesse nel pensiero, i concetti,
sono oggetti isolati di indagine, da considerarsi successivamente e indipendentemente
l'uno dall'altro, fissi, rigidi, dati una volta per sempre. Egli pensa per
antitesi assolutamente immediate; il suo discorso è: sì, sì;
no, no, e il resto viene dal maligno. Per lui, una cosa esiste o non esiste;
ugualmente è impossibile che una cosa nello stesso tempo sia se stessa
ed un'altra. Positivo e negativo si escludono reciprocamente in modo assoluto;
causa ed effetto stanno del pari in rigida opposizione reciproca. Questa maniera
di pensare ci appare a prima vista estremamente plausibile per il fatto che
essa è proprio quella del cosiddetto senso comune. Solo che il senso
comune, per quanto sia un compagno tanto rispettabile finché sta nello
spazio compreso tra le quattro pareti domestiche, va incontro ad avventure
assolutamente sorprendenti appena si arrischia nel vasto mondo dell'indagine
scientifica; e la maniera metafisica di vedere le cose, giustificata e perfino
necessaria in campi la cui estensione è più o meno vasta a seconda
della natura dell'oggetto, tuttavia, ogni volta, prima o poi, urta contro
un limite, al di là del quale diventa unilaterale, limitata, astratta
e si avvolge in contraddizioni insolubili, giacché, per le cose singole,
dimentica il loro nesso, per il loro essere, dimentica il loro sorgere e tramontare,
per il loro stato di quiete, dimentica il loro movimento, giacché,
per vedere gli alberi, non vede la foresta. Per es., per i casi della vita
quotidiana, sappiamo e possiamo dire con precisione se un animale esiste o
meno; ma se indaghiamo con maggiore precisione, troveremo che alle volte questa
è una cosa estremamente complessa, come sanno molto bene i giuristi,
che invano si sono tormentati per scoprire un limite razionale a partire dal
quale la soppressione del feto nel seno materno è un assassinio; e
del pari è impossibile stabilire l'istante della morte, poiché
la fisiologia dimostra che la morte non è un avvenimento unico ed istantaneo,
ma un fenomeno la cui durata è molto lunga. Parimenti ogni corpo organico,
in ogni istante è e non è il medesimo; in ogni istante elabora
materie tratte dall'esterno e ne secerne delle altre, in ogni istante cellule
del suo corpo muoiono e se ne formano di nuove; dopo un tempo più o
meno lungo la materia di questo corpo si è completamente rinnovata,
sostituita da altri atomi di materia, cosicché ogni essere organizzato
è costantemente il medesimo e pure un altro. Considerando le cose con
maggiore precisione, noi troviamo anche che i due poli di una opposizione,
il positivo e il negativo, sono tanto inseparabili l'uno dall'altro quanto
contrapposti e che malgrado tutto il loro carattere contraddittorio si compenetrano
vicendevolmente; troviamo del pari che causa ed effetto sono rappresentazioni
che hanno validità come tali solo se le applichiamo ad un caso singolo,
ma che nella misura in cui consideriamo questo fatto singolo nella sua connessione
generale con la totalità del mondo, queste rappresentazioni si confondono
e si dissolvono nella visione della universale azione reciproca, in cui cause
ed effetti si scambiano continuamente la loro posizione, ciò che ora
o qui è effetto, là o poi diventa causa e viceversa.
Tutti questi fenomeni e metodi di pensiero non rientrano nel quadro del pensiero
metafisico. Per la dialettica invece, che considera le cose e le loro immagini
concettuali essenzialmente nel loro nesso, nel loro concatenamento, nel loro
movimento, nel loro sorgere e tramontare, fenomeni come quelli che abbiamo
riferiti sopra sono altrettante conferme della sua specifica maniera di procedere.
La natura è il banco di prova della dialettica e noi dobbiamo dire
a lode delle moderne scienze naturali che esse hanno fornito a questo banco
di prova un materiale estremamente ricco che va accumulandosi giornalmente
e che di conseguenza esse hanno dimostrato che, in ultima analisi, la natura
procede dialetticamente e non metafisicamente, che non si muove nell'eterna
uniformità di un circolo che di continuo si ripete ma percorre una
vera storia. Qui bisogna far menzione, prima di ogni altro, di Darwin che
ha assestato alla concezione metafisica della natura il colpo più vigoroso
con la sua dimostrazione che tutta quanta la natura organica, quale oggi esiste,
piante e animali, e conseguentemente anche l'uomo, è il prodotto di
un processo di sviluppo che è durato milioni di anni. Ma poiché
sino ad ora i naturalisti che hanno appreso a pensare dialetticamente si possono
contare sulle dita, la confusione senza limiti che domina oggi nelle scienze
naturali teoriche e che porta alla disperazione maestri e scolari, scrittori
e lettori si spiega con questo conflitto tra i risultati che sono stati scoperti
e la maniera tradizionale di pensare.
Una rappresentazione esatta della totalità del mondo, del suo sviluppo
e di quello dell'umanità, nonché dell'immagine di questo sviluppo
quale si rispecchia nella testa degli uomini, può quindi effettuarsi
solo per via dialettica, prendendo costantemente in considerazione le azioni
reciproche del nascere e del morire, dei mutamenti progressivi o regressivi.
E in questo senso ha proceduto la filosofia tedesca moderna sin dal suo principio.
Kant iniziò la sua carriera scientifica risolvendo la stabilità
del sistema solare newtoniano, e la sua eterna durata, una volta dato il famoso
impulso iniziale, in un fenomeno che ha una storia: nella formazione, cioè,
del sole e di tutti i pianeti da una massa nebulosa rotante98. E ne trasse
già la conseguenza che data questa formazione, era data del pari necessariamente
la futura fine del sistema solare. Le sue vedute un mezzo secolo più
tardi ricevettero da Laplace una base matematica, e ancora un altro mezzo
secolo dopo, lo spettroscopio dimostrò l'esistenza nello spazio cosmico
di queste tali masse gassose incandescenti a diversi gradi di condensazione.
Questa filosofia tedesca moderna trovò la sua conclusione nel sistema
hegeliano, nel quale, per la prima volta, e questo è il suo grande
merito, tutto quanto il mondo naturale, storico e spirituale venne presentato
come un processo, cioè in un movimento, in un cambiamento, in una trasformazione,
in uno sviluppo che mai hanno tregua, e fu fatto il tentativo di dimostrare
il nesso intimo esistente in questo movimento e in questo sviluppo. Mettendosi
da questo punto di vista, la storia dell'umanità appariva non più
come un groviglio confuso di violenze insensate che sono tutte ugualmente
condannabili davanti al tribunale della ragione filosofica, ora diventata
matura, e che è meglio dimenticare al più presto possibile,
ma come il processo di sviluppo della umanità stessa. E ora il compito
del pensiero consisteva nel seguire, attraverso tutte le deviazioni, la marcia
graduale di tale processo che si compie a poco a poco e dimostrarne, attraverso
tutte le accidentalità apparenti, l'intima regolarità.
Che Hegel non abbia assolto questo compito, qui non ha importanza. Il suo
merito, che fa epoca, è quello di averlo posto, tanto più che
questo è un compito che nessun individuo da solo potrà mai assolvere.
Sebbene Hegel sia stato, con Saint-Simon, la mente più universale della
sua epoca, pure egli era limitato in primo luogo dall'ambito necessariamente
ristretto delle sue conoscenze e in secondo luogo dalle conoscenze e dalle
concezioni della sua epoca che, del pari, erano ristrette per ambito e profondità.
Ma a tutto ciò si aggiungeva anche una terza cosa. Hegel era un idealista,
cioè per lui i pensieri della sua testa non erano i riflessi, più
o meno astratti, delle cose e dei fenomeni reali, ma invece le cose e il loro
sviluppo erano i riflessi realizzati della "Idea" preesistente,
non si sa come, al mondo medesimo. Conseguentemente tutto veniva poggiato
sulla testa, e il nesso reale del mondo veniva completamente rovesciato. E
per quanto anche così alcuni nessi singoli venissero concepiti da Hegel
in modo giusto e geniale, pure, per le ragioni che sono state addotte, molto,
anche nei dettagli, doveva riuscire rabberciato, artificioso, architettato
di sana pianta, in breve, sovvertito. Il sistema di Hegel fu come tale un
colossale aborto, ma fu anche l'ultimo nel suo genere. Il fatto è che
esso era affetto da un'altra contraddizione interna insanabile; da una parte
aveva come suo presupposto essenziale la visione storica delle cose, secondo
la quale la storia umana è un processo di sviluppo che, per sua natura,
non può trovare la sua conclusione intellettuale nella scoperta di
una cosiddetta verità assoluta, mentre dall'altra parte afferma di
essere la quintessenza proprio di questa verità assoluta. Un sistema
che abbracci completamente e concluda una volta per sempre la conoscenza della
natura e della storia è in contraddizione con le leggi fondamentali
del pensiero dialettico; la qual cosa tuttavia non esclude affatto, ma invece
implica, che la conoscenza sistematica di tutto il mondo esterno possa fare
di generazione in generazione dei passi da gigante.
La convinzione della completa assurdità dell'idealismo tedesco quale
era esistito sino allora condusse necessariamente al materialismo, ma, si
noti bene, non al materialismo puramente metafisico, esclusivamente meccanicistico,
del secolo XVIII. Anziché rigettare semplicemente, in modo ingenuamente
rivoluzionario, tutta la storia precedente, il materialismo moderno vede nella
storia il processo di sviluppo dell'umanità ed è suo compito
scoprirne le leggi di movimento. In contrasto con la rappresentazione dominante
tanto nei francesi del secolo XVIII che in Hegel, secondo la quale la natura
è un tutto che si muove in orbite ristrette e che rimane sempre eguale
a se stesso, con i suoi eterni corpi celesti, come aveva insegnato Newton99,
e con le sue specie immutabili di esseri organici, come aveva insegnato Linneo100,
il materialismo moderno riassume i moderni progressi delle scienze naturali,
secondo cui la natura ha anch'essa la sua storia svolgentesi nel tempo, i
corpi celesti nascono e muoiono, così come le specie degli organismi
dalle quali vengono abitati se si determinano circostanze favorevoli, e le
orbite, nella misura in cui sono in generale ammissibili, assumono delle dimensioni
infinitamente più grandiose. In entrambi i casi il materialismo moderno
è essenzialmente dialettico e non ha bisogno di una filosofia che stia
al di sopra delle altre scienze. Dal momento in cui si esige da ciascuna scienza
particolare che essa si renda conto della sua posizione nel nesso complessivo
delle cose e della conoscenza delle cose, ogni scienza particolare che abbia
per oggetto il nesso complessivo diventa superflua. Ciò che quindi
resta ancora in piedi, autonomamente, di tutta quanta la filosofia che si
è avuta sino ad ora è la dottrina del pensiero e delle sue leggi,
cioè la logica formale e la dialettica. Tutto il resto si risolve nella
scienza positiva della natura e della storia.
Tuttavia, mentre il rovesciamento della concezione della natura non si poteva
compiere che nella misura in cui l'indagine forniva l'adeguato materiale di
conoscenze positive, già molto prima si erano verificati dei fatti
storici che determinarono una svolta decisiva nella concezione della storia.
Nel 1831 a Lione101 era avvenuta la prima sollevazione di operai, dal 1838
al 1842 aveva raggiunto il suo culmine il primo movimento operaio nazionale,
quello dei cartisti inglesi102. La lotta di classe tra il proletariato e la
borghesia si presentava in primo piano nella storia dei paesi più progrediti
d'Europa, nella stessa misura in cui in quei paesi si sviluppavano da una
parte la grande industria e dall'altra il dominio politico che la borghesia
aveva di recente conquistato. Le dottrine dell'economia borghese sulla identità
di interessi di capitale e lavoro, sull'armonia universale e sul benessere
universale del popolo come conseguenza della libera concorrenza venivano smentite
dai fatti in modo sempre più convincente. Tutte queste cose non potevano
più essere respinte come non si poteva respingere il socialismo francese
ed inglese che ne era la espressione teorica, anche se estremamente imperfetta.
Ma la vecchia concezione idealistica della storia, che non era stata ancora
soppiantata, non conosceva lotte di classi poggianti su interessi materiali;
la produzione e tutti i rapporti economici non facevano in essa la loro comparsa
che incidentalmente, come elementi subordinati della "storia della civiltà".
I nuovi fatti costrinsero a sottoporre ad una nuova indagine tutta la storia
precedente e si vide allora che tutta la storia precedente, ad eccezione delle
età primitive, era la storia delle lotte delle classi, che queste classi
sociali che si combattono vicendevolmente sono di volta in volta risultati
dei rapporti di produzione e di scambio, in una parola dei rapporti economici
della loro epoca; che quindi di volta in volta la struttura economica della
società costituisce il fondamento reale partendo dal quale si deve
spiegare in ultima analisi tutta la sovrastruttura delle istituzioni giuridiche
e politiche, così come delle ideologie religiose, filosofiche e di
altro genere di ogni periodo storico. Hegel aveva liberato la concezione della
storia dalla metafisica, l'aveva resa dialettica; ma la sua concezione della
storia era essenzialmente idealistica. L'idealismo veniva ora cacciato dal
suo ultimo rifugio, la concezione della storia; veniva data una concezione
materialistica della storia e veniva trovata la via per spiegare la coscienza
degli uomini col loro essere, invece di spiegare, come si era fatto sino allora,
il loro essere con la loro coscienza.
Conseguentemente il socialismo appariva adesso non più come scoperta
accidentale di questa o di quella testa geniale, ma come il risultato necessario
della lotta tra due classi formatesi storicamente: il proletariato e la borghesia.
Il suo compito non era più quello di approntare un sistema quanto più
possibile perfetto della società, ma quello di indagare il processo
storico economico da cui necessariamente erano sorte queste classi e il loro
conflitto, e scoprire nella situazione economica così creata, il mezzo
per la soluzione del conflitto. Ma con questa concezione materialistica era
altrettanto incompatibile il socialismo che era esistito sino allora, quanto
la concezione della natura del materialismo francese era incompatibile con
la dialettica e con le moderne scienze naturali. Il socialismo precedente
criticava, è vero, il vigente modo di produzione capitalistico e le
sue conseguenze, ma non poteva darne una spiegazione né quindi venirne
a capo: non poteva che respingerlo semplicemente come un male. Quanto più
violentemente esso inveiva contro lo sfruttamento della classe operaia, inseparabile
dal modo di produzione capitalistico, tanto meno era in grado di spiegare
chiaramente in che cosa consista e come sorga questo sfruttamento. Si trattava
invece da una parte di presentare questo modo di produzione capitalistico
nel suo nesso storico e nella sua necessità nell'ambito di un determinato
periodo storico, e quindi anche la necessità del suo tramonto, dall'altra,
invece, di svelare anche il suo carattere interno, che ancora era rimasto
celato. Questo si ebbe con la scoperta del plusvalore. Fu dimostrato che l'appropriazione
di lavoro non pagato è la forma fondamentale del modo di produzione
capitalistico e dello sfruttamento dell'operaio che con esso viene compiuto;
che il capitalista, anche se compra la forza lavoro del suo operaio secondo
il pieno valore che essa, come merce, ha sul mercato, ne trae tuttavia un
valore maggiore di quello che per essa ha pagato; e che in ultima analisi
questo plusvalore costituisce la somma di valore per cui la massa di capitale
continuamente crescente si accumula tra le mani delle classi possidenti. Il
processo tanto della produzione capitalistica che della produzione del capitale
era spiegato.
Entrambe queste grandi scoperte: la concezione materialistica della storia
e la rivelazione del segreto della produzione capitalistica mediante il plusvalore,
le dobbiamo a Marx. Con queste due grandi scoperte il socialismo è
diventato una scienza che ora occorre anzitutto elaborare ulteriormente in
tutti i suoi particolari e nessi.
Capitolo III
La concezione materialistica della storia parte dal principio che la produzione
e, con la produzione, lo scambio dei suoi prodotti sono la base di ogni ordinamento
sociale; che, in ogni società che si presenta nella storia, la distribuzione
dei prodotti, e con essa l'articolazione della società in classi o
ceti, si modella su ciò che si produce, sul modo come si produce e
sul modo come si scambia ciò che si produce. Conseguentemente le cause
ultime di ogni mutamento sociale e di ogni rivolgimento politico vanno ricercate
non nella testa degli uomini, nella loro crescente conoscenza della verità
eterna e dell'eterna giustizia, ma nei mutamenti del modo di produzione e
di scambio; esse vanno ricercate non nella filosofia ma nell'economia dell'epoca
che si considera. Il sorgere della conoscenza che le istituzioni sociali vigenti
sono irrazionali ed ingiuste, che la ragione è diventata un nonsenso,
il beneficio un malanno103, è solo un segno del fatto che nei metodi
di produzione e nelle forme di scambio si sono inavvertitamente verificati
dei mutamenti per i quali non è più adeguato quell'ordinamento
sociale che si attagliava a condizioni economiche precedenti. Con ciò
è detto nello stesso tempo che i mezzi per eliminare gli inconvenienti
che sono stati scoperti debbono del pari esistere, più o meno sviluppati,
negli stessi mutati rapporti di produzione. Questi mezzi non devono, diciamo,
essere inventati dal cervello, ma essere scoperti per mezzo del cervello nei
fatti materiali esistenti della produzione.
Su queste basi, quale è dunque la posizione del socialismo moderno?
L'ordinamento sociale vigente, ed è questo un fatto ammesso ora quasi
generalmente, è stato creato dalla classe oggi dominante, la borghesia.
Il modo di produzione peculiare della borghesia, da Marx in poi designato
col nome di modo di produzione capitalistico, era incompatibile con i privilegi
locali e di ceto e con i vincoli personali reciproci dell'ordinamento feudale;
la borghesia infranse l'ordinamento feudale e sulle sue rovine instaurò
l'ordinamento sociale borghese, il regno della libera concorrenza, della libertà
di domicilio, dell'eguaglianza dei diritti dei possessori delle merci, insomma
tutte quelle che si chiamano delizie borghesi. Il modo di produzione capitalistico
si poté ora sviluppare liberamente. Le forze produttive elaborate sotto
la direzione della borghesia si svilupparono da quando il vapore e le nuove
macchine utensili trasformarono la vecchia manifattura nella grande industria
con celerità e proporzioni fino ad allora inaudite. Ma come a suo tempo
la manifattura, e l'artigianato che sotto l'influsso di essa si era ulteriormente
sviluppato, erano venuti in conflitto con i vincoli feudali delle corporazioni,
così la grande industria, arrivata al suo più pieno sviluppo,
viene in conflitto con i limiti entro i quali la confina il modo di produzione
capitalistico. Le nuove forze produttive hanno ormai superato la forma borghese
del loro sfruttamento; né questo conflitto tra forze produttive e modo
di produzione è un conflitto sorto nella testa degli uomini, come press'a
poco quello tra il peccato originale e la giustizia divina, ma esiste nei
fatti, obiettivamente, fuori di noi, indipendentemente dalla volontà
e dalla condotta stessa di quegli uomini che lo hanno determinato. Il socialismo
moderno non è altro che il riflesso ideale di questo conflitto reale,
il suo ideale rispecchiarsi, in primo luogo, nella testa della classe che
sotto di esso direttamente soffre, la classe operaia.
Ora, in che cosa consiste questo conflitto?
Prima della produzione capitalistica, cioè nel Medioevo, sussisteva
dappertutto la piccola produzione, fondata sul fatto che i lavoratori avevano
la proprietà privata dei loro mezzi di produzione: l'agricoltura dei
piccoli contadini, liberi o servi, l'artigianato delle città. l mezzi
di lavoro, terra, attrezzi agricoli, laboratori, utensili, erano mezzi di
lavoro individuali, destinati solo all'uso individuale, quindi necessariamente
modesti, minuscoli, limitati. Ma proprio perciò essi appartenevano
anche, di regola, al produttore stesso. Concentrare questi mezzi di produzione
sparpagliati e ristretti, estenderli, trasformarli nelle leve potentemente
efficienti della produzione attuale: questa è stata precisamente la
funzione storica del modo di produzione capitalistico e della classe che lo
rappresenta, la borghesia. Come essa abbia adempiuto questa sua funzione,
a partire dal secolo XV, passando per i tre stadi della cooperazione semplice,
della manifattura e della grande industria, è stato descritto diffusamente
da Marx nella quarta sezione del Capitale. Ma la borghesia, come vi è
parimenti dimostrato, non poteva trasformare quei mezzi di produzione limitati,
in possenti forze produttive, senza trasformarli da mezzi di produzione individuali
in mezzi di produzione sociali che possono essere usati solo da una collettività
di uomini. Al posto del filatoio, del telaio a mano, del maglio del fabbro,
subentrarono la macchina per filare, il telaio meccanico, il maglio a vapore;
al posto del laboratorio individuale subentrò la fabbrica, che esige
il lavoro associato di centinaia e di migliaia di uomini. E come i mezzi di
produzione, così la produzione stessa si trasformò da una serie
di atti individuali in una serie di atti sociali e i prodotti si trasformarono
da prodotti individuali in prodotti sociali. Il filo, il tessuto, gli oggetti
di metallo che ora uscivano dalla fabbrica, erano il prodotto comune di molti
operai, per le cui mani essi dovevano passare successivamente prima di essere
pronti. Nessuno di loro può dire individualmente: "Questo l'ho
fatto io, è il mio prodotto".
Ma là dove la divisione naturale del lavoro sorta a poco a poco senza
un piano, è la forma fondamentale della produzione, in seno alla società,
essa imprime ai prodotti la forma di merci il cui scambio reciproco, compra
e vendita, mette i singoli produttori in condizione di soddisfare i loro svariati
bisogni. Questo avveniva nel Medioevo. Il contadino, per esempio, vendeva
prodotti agricoli all'artigiano e a sua volta comprava da esso prodotti artigiani.
In questa società di produttori individuali, di produttori di merci,
si insinuò dunque il nuovo modo di produzione. Nel beI mezzo della
divisione del lavoro, naturale, priva di un piano, quale dominava in tutta
la società, questo nuovo modo di produzione instaurò la divisione
del lavoro secondo un piano, quale era organizzata nella singola fabbrica;
accanto alla produzione individuale comparve la produzione sociale. I prodotti
di entrambe venivano venduti allo stesso mercato e quindi a prezzi, almeno
approssimativamente, eguali. Ma l'organizzazione secondo un piano era più
forte della divisione naturale del lavoro; le fabbriche che lavoravano socialmente
producevano i loro prodotti più a buon mercato che non i piccoli produttori
isolati. La produzione individuale soggiacque successivamente in tutti i campi,
la produzione sociale rivoluzionò tutto l'antico modo di produzione.
Ma questo suo carattere rivoluzionario fu così poco riconosciuto che,
al contrario, essa fu introdotta come mezzo per accrescere e favorire la produzione
delle merci. Essa sorse ricollegandosi direttamente a leve determinate e già
esistenti della produzione e dello scambio delle merci: il capitale mercantile,
l'artigianato, il lavoro salariato. Poiché essa stessa si presentava
come una nuova forma della produzione di merci, le forme di appropriazione
della produzione di merci rimasero in pieno vigore anche per essa.
Nella produzione di merci, quale si era sviluppata nel Medioevo, non poteva
affatto sorgere la questione a chi dovesse appartenere il prodotto del lavoro.
Il produttore individuale lo aveva, di regola, confezionato con una materia
prima che gli apparteneva e che spesso era prodotta da lui stesso, con mezzi
di lavoro propri e col lavoro manuale proprio o della sua famiglia. Non c'era
assolutamente nessun bisogno che egli se lo appropriasse, gli apparteneva
in modo assolutamente spontaneo. La proprietà dei prodotti era quindi
fondata sul proprio lavoro. Anche laddove ci si serviva di aiuto altrui, di
regola quest'aiuto restava cosa accessoria e chi lo prestava frequentemente
riceveva, oltre al salario, anche un'altra remunerazione: l'apprendista e
il garzone delle corporazioni lavoravano per avviarsi a diventare maestri,
più che per il vitto e il salario. A questo punto venne la concentrazione
dei mezzi di produzione in grandi officine e manifatture, la loro trasformazione
in mezzi di produzione effettivamente sociali. Ma i mezzi di produzione e
i prodotti sociali furono trattati come se fossero ancora, quali erano prima,
mezzi di produzione e prodotti individuali. Se sinora il possessore dei mezzi
di lavoro si era appropriato il prodotto perché di regola era un prodotto
suo proprio, e il lavoro sussidiario altrui era solo l'eccezione, ora il possessore
degli strumenti di lavoro continuò ad appropriarsi il prodotto, malgrado
non fosse più il suo prodotto, ma esclusivamente il prodotto del lavoro
altrui. In questo modo i prodotti, ormai creati socialmente, se li appropriarono
non già coloro che mettevano effettivamente in movimento i mezzi di
produzione e che effettivamente creavano i prodotti, ma il capitalista. I
mezzi di produzione e la produzione sono diventati essenzialmente sociali,
ma sono sottoposti ad una forma di appropriazione che ha come presupposto
la produzione privata individuale, nella quale quindi ognuno possiede il proprio
prodotto e lo porta al mercato. Il modo di produzione viene sottoposto a questa
forma di appropriazione malgrado ne elimini il presupposto*7. In questa contraddizione
che conferisce al nuovo modo di produzione il suo carattere capitalistico,
risiede già in germe tutto il contrasto del nostro tempo. Quanto più
il nuovo modo di produzione divenne dominante in tutti i campi decisivi della
produzione e in tutti i paesi di importanza economica decisiva, e conseguentemente
soppiantò la produzione individuale sino ai suoi residui insignificanti,
tanto più crudamente doveva apparire anche l'inconciliabilità
della produzione sociale e dell'appropriazione capitalistica.
I primi capitalisti, come abbiamo detto, trovarono già esistente la
forma del lavoro salariato; ma lavoro salariato come eccezione, occupazione
ausiliaria, accessoria, fase transitoria. Il lavoratore agricolo che andava
temporaneamente a lavorare a giornata aveva il suo palmo di terra col quale,
in mancanza di meglio, poteva vivere. Gli ordinamenti delle corporazioni si
davano cura che il garzone di oggi diventasse il maestro di domani. Ma non
appena i mezzi di produzione divennero sociali e furono concentrati nelle
mani dei capitalisti, tutto questo mutò. Il mezzo di produzione, così
come il prodotto del piccolo produttore individuale, perdette sempre più
di valore e a costui non restò altro che andare a salario presso il
capitalista. Il lavoro salariato, prima eccezione e occupazione ausiliaria,
divenne regola e forma fondamentale di tutta la produzione; prima occupazione
accessoria, diventò ora l'attività esclusiva dell'operaio. Il
salariato temporaneo si trasformò in salariato a vita. La quantità
dei salariati a vita fu inoltre smisuratamente accresciuta dal contemporaneo
crollo dell'ordinamento feudale, dalla dispersione del personale dei signori
feudali, dall'espulsione dei contadini dalle loro fattorie, ecc. La separazione
tra i mezzi di produzione concentrati nelle mani dei capitalisti e i produttori,
ridotti a non possedere altro che la forza-lavoro, divenne completa. La contraddizione
tra produzione sociale e appropriazione capitalistica si presentò come
antagonismo tra proletariato e borghesia104.
Abbiamo visto che il modo di produzione capitalistico si inserì in
una società di produttori di merci, di produttori individuali, il cui
nesso sociale era determinato dallo scambio dei loro prodotti. Ma ogni società
fondata sulla produzione di merci ha questo di particolare: che in essa i
produttori hanno perduto il dominio sui loro propri rapporti sociali. Ognuno
produce per sé con mezzi di produzione che casualmente possiede e per
il fabbisogno del suo scambio individuale. Nessuno sa né quale quantità
del suo articolo arriva al mercato, né in generale quale quantità
ne è richiesta; nessuno sa se il suo prodotto individuale risponde
ad un effettivo bisogno, né se potrà ricavarne le spese, né
se in generale potrà vendere. Domina l'anarchia della produzione sociale.
Ma la produzione di merci, come ogni altra forma di produzione, ha le sue
leggi specifiche, immanenti, inseparabili da essa. E queste leggi si attuano
malgrado l'anarchia, in essa e per mezzo di essa. Esse compaiono nell'unica
forma di nesso sociale che continua ad esistere, nello scambio, e si fanno
valere sui produttori individuali come leggi coattive della concorrenza. Da
principio esse sono quindi sconosciute a questi stessi produttori e devono
essere scoperte da loro a poco a poco e solo con una lunga esperienza. Esse
dunque si attuano senza i produttori e contro i produttori, come leggi naturali
della loro forma di produzione agenti ciecamente. Il prodotto domina i produttori.
Nella società medioevale, specialmente nei primi secoli, la produzione
era essenzialmente indirizzata al consumo personale. Essa appagava in prevalenza
soltanto i bisogni del produttore e della sua famiglia. Laddove, come nella
campagna, sussistevano rapporti di dipendenza personale, la produzione contribuiva
anche all'appagamento dei bisogni del signore feudale. Quindi non c'era scambio
e conseguentemente i prodotti non assumevano neppure il carattere di merci.
La famiglia del contadino produceva quasi tutto quello di cui abbisognava,
attrezzi e indumenti non meno che mezzi di sussistenza. Solo allorché
pervenne a produrre un'eccedenza sul proprio fabbisogno e sui versamenti in
natura dovuti al signore feudale, solo allora cominciò a produrre anche
merci; questa eccedenza immessa nello scambio, offerta in vendita, divenne
merce. Gli artigiani cittadini dovettero, certo, già sin dal principio,
produrre per lo scambio. Ma essi provvedevano il loro bestiame nel bosco comunale
che forniva loro fabbisogno personale; avevano orti e piccoli campi; mandavano
il loro bestiame nel bosco comunale che forniva loro inoltre legname da costruzione
e legna da ardere; le donne filavano il lino, la lana, ecc. La produzione
per lo scambio, la produzione di merci, era solo sul nascere. Da qui scambio
limitato, mercato limitato, modo di produzione stabile, isolamento locale
verso l'esterno e unione locale all'interno: la Marca nella campagna, la corporazione
nella città.
Ma con l'estensione della produzione di merci, e specialmente con l'apparire
del modo di produzione capitalistico, entrarono più apertamente e più
potentemente in azione le leggi della produzione di merci sinora latenti.
I vecchi vincoli si allentarono, le vecchie barriere che isolavano furono
infrante, i produttori si trasformarono sempre più in produttori di
merci indipendenti e isolati. Apparve l'anarchia della produzione sociale
e sempre più fu spinta al suo estremo. Ma il principale strumento con
cui il modo di produzione capitalistico accresceva questa anarchia della produzione
sociale era precisamente l'opposto dell'anarchia: era la crescente organizzazione
della produzione, in quanto produzione sociale, in ogni singola azienda produttiva.
Con questa leva, esso mise fine alla vecchia pacifica stabilità. Laddove
veniva introdotto in un ramo di industria, non tollerava accanto a sé
nessun altro modo di produzione più vecchio. Laddove si impadroniva
di un mestiere ne distruggeva l'antica forma artigiana. Il campo del lavoro
divenne un campo di battaglia. Le grandi scoperte geografiche e le colonizzazioni
che seguirono moltiplicarono i territori di sbocco e accelerarono la trasformazione
dell'artigianato in manifattura. La lotta non scoppiò soltanto tra
i singoli produttori di una località; le lotte locali sviluppandosi
divennero a loro volta lotte nazionali, come le guerre commerciali dei secoli
XVII e XVIII105. Finalmente la grande industria e la creazione del mercato
mondiale resero universale la lotta e ad un tempo le conferirono una violenza
inaudita. Tra i singoli capitalisti, così come tra intere industrie
e interi paesi, il problema della loro esistenza viene deciso dalle condizioni
più o meno favorevoli della produzione, che possono essere naturali
o artificiali. Chi soccombe viene eliminato senza nessun riguardo. È
la lotta darwiniana per l'esistenza dell'individuo, trasportata, con accresciuto
furore, dalla natura alla società. Il punto di vista dell'animale nella
natura appare come l'apice dell'umano sviluppo. La contraddizione tra produzione
sociale e appropriazione capitalistica si presenta ora come antagonismo tra
l'organizzazione della produzione nella singola fabbrica e l'anarchia della
produzione nel complesso della società.
Il modo di produzione capitalistico si muove entro queste due forme nelle
quali si manifesta quella contraddizione che gli è immanente per la
sua origine e descrive, senza possibilità di uscirne, quel "circolo
vizioso" che già Fourier vi aveva scoperto. Ciò che Fourier
non poteva invero ancora scorgere ai suoi tempi, è che questo circolo
progressivamente si restringe, che il movimento rappresenta piuttosto una
spirale, e che, come quello dei pianeti, raggiungerà la sua fine collidendo
col centro. È la forza motrice dell'anarchia sociale della produzione
che trasforma sempre più la grande maggioranza degli uomini in proletari
e, a loro volta, sono le masse proletarie che metteranno termine, infine,
all'anarchia della produzione. È la forza motrice dell'anarchia sociale
della produzione che trasforma l'infinita perfezionabilità delle macchine
della grande industria in un'obbligazione che impone al singolo capitalista
industriale di perfezionare sempre più le proprie macchine, pena la
rovina. Ma perfezionare le macchine significa render superfluo del lavoro
umano. Se l'introduzione e l'aumento del macchinario significa soppiantare
milioni di operai manuali con pochi operai addetti alle macchine, il miglioramento
del macchinario, significa soppiantare un numero sempre crescente di operai,
essi stessi addetti alle macchine, e in ultima analisi creare una massa di
salariati disponibili superiore alla quantità media di unità
che il capitale ha bisogno di occupare: creare cioè un vero esercito
di riserva industriale, come io lo chiamavo già nel 1845*8, disponibile
per i tempi in cui l'industria lavora ad alta pressione, gettato sul lastrico
nella crisi che necessariamente segue, in tutti i tempi palla di piombo al
piede della classe operaia nella sua lotta per l'esistenza col capitale, regolatore
che serve a tenere il salario a quel basso livello che è adeguato alle
esigenze dei capitalisti. Così avviene che, per dirla con Marx, la
macchina diventa il più potente mezzo di guerra del capitale contro
la classe operaia; che lo strumento di lavoro strappa giornalmente dalle mani
dell'operaio i mezzi di sussistenza; che il prodotto stesso dell'operaio si
trasforma in uno strumento per l'asservimento dell'operaio. Così accade
che l'economizzare mezzi di lavoro diventa a priori ad un tempo una dilapidazione
senza ritegno della forza-lavoro e una rapina ai danni dei normali presupposti
della funzione del lavoro; che le macchine che sono il mezzo più potente
per abbreviare il tempo di lavoro, si mutano nel mezzo più infallibile
per trasformare tutta la vita dell'operaio e della sua famiglia in tempo di
lavoro disponibile per la valorizzazione del capitale; così accade
che il sopralavoro degli uni diventa il presupposto della disoccupazione degli
altri e che la grande industria che dà la caccia a nuovi consumatori
su tutta la superficie terrestre, in patria riduce il consumo delle masse
ad un minimo di fame e così mina il proprio mercato interno.
"La legge infine che equilibra costantemente sovrappopolazione relativa,
ossia l'esercito industriale di riserva, da una parte, e volume e energia
dell'accumulazione dall'altra, incatena l'operaio al capitale in maniera più
salda che i cunei di Efesto non saldassero alla roccia Prometeo. Questa legge
determina un'accumulazione di miseria proporzionata all'accumulazione di capitale.
L'accumulazione di ricchezza all'uno dei poli è dunque al tempo stesso
accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù, ignoranza,
brutalizzazione e degradazione morale al polo opposto, ossia dalla parte della
classe che produce il proprio prodotto come capitale" (Marx, Capitale,
p. 671).
E aspettare dal modo di produzione capitalistico un'altra distribuzione di
prodotti, significa pretendere che gli elettrodi di una batteria, finché
stanno in collegamento con la batteria, non debbano scomporre l'acqua e sviluppare
ossigeno al polo positivo e idrogeno al polo negativo.
Abbiamo visto come la perfettibilità della macchina moderna, spinta
al punto più alto, si trasformi, mediante l'anarchia della produzione
nella società, in un'imposizione che costringe il singolo capitalista
industriale a migliorare incessantemente le proprie macchine, ad elevarne
la forza produttiva. La semplice possibilità effettiva di estendere
l'ambito della sua produzione, si trasforma per lui in un'imposizione di egual
natura. L'enorme forza espansiva della grande industria, di fronte alla quale
quella dei gas è un vero giuoco da bambini, si presenta ora ai nostri
occhi come un bisogno di espansione sia qualitativa che quantitativa che si
fa beffa di ogni pressione contraria. Questa pressione contraria è
formata dal consumo, dallo smercio, dai mercati per i prodotti della grande
industria. Ma la capacità di espansione dei mercati, sia estensiva
che intensiva, è dominata anzitutto da leggi affatto diverse, che agiscono
in modo molto meno energico. L'espansione dei mercati non può andare
di pari passo con quella della produzione. La collisione diviene inevitabile
e poiché non può presentare nessuna soluzione sino a che non
manda a pezzi lo stesso modo di produzione capitalistico, diventa periodica.
La produzione capitalistica genera un nuovo "circolo vizioso".
In effetti, dal 1825, anno in cui scoppiò la prima crisi generale,
tutto il mondo industriale e commerciale, la produzione e lo scambio di tutti
i popoli civili e delle loro appendici più o meno barbariche, si sfasciano
una volta ogni dieci anni circa. Il commercio langue, i mercati sono ingombri,
si accumulano i prodotti tanto numerosi quanto inesitabili, il denaro contante
diviene invisibile, il credito scompare, le fabbriche si fermano, le masse
operaie, per aver prodotto troppi mezzi di sussistenza, mancano dei mezzi
di sussistenza: fallimenti e vendite all'asta si susseguono. La stagnazione
dura per anni, forze produttive e prodotti vengono dilapidati e distrutti
in gran copia, sino a che finalmente le masse di merci accumulate defluiscono
grazie ad una svalutazione più o meno grande e produzione e scambio
a poco a poco riprendono il loro cammino. Gradualmente la loro andatura si
accelera, si mette al trotto, il trotto dell'industria si trasforma in galoppo
e questo si accelera sino ad assumere l'andatura sfrenata di una vera corsa
a ostacoli industriale, commerciale, creditizia e speculativa per ricadere
finalmente, dopo salti da rompersi il collo, nel baratro del crac. E così
sempre da capo. Tutto questo dal 1825 lo abbiamo sperimentato per ben cinque
volte e in questo momento (1877) lo stiamo sperimentando per la sesta volta.
E il carattere di queste crisi è così nettamente marcato, che
Fourier le ha colte tutte quante, allorché definì la prima come
crise plétorique, crisi di sovrabbondanza.
Nelle crisi la contraddizione tra produzione sociale e appropriazione capitalistica
perviene allo scoppio violento. La circolazione delle merci è momentaneamente
annientata; il mezzo della circolazione, il denaro, diventa un ostacolo per
la circolazione; tutte le leggi della produzione e della circolazione delle
merci vengono sovvertite. La collisione economica raggiunge il suo punto culminante:
il modo della produzione si ribella contro il modo dello scambio.
Il fatto che l'organizzazione sociale della produzione nell'interno della
fabbrica ha raggiunto il punto in cui diventa incompatibile con l'anarchia
della produzione esistente nella società accanto ad essa e al di sopra
di essa, questo fatto viene reso tangibile agli stessi capitalisti dalla potente
concentrazione dei capitali che ha luogo durante le crisi, mediante la rovina
di un gran numero di grandi capitalisti e di un numero ancora maggiore di
piccoli capitalisti. Tutto il meccanismo del modo di produzione capitalistico
si arresta sotto la pressione delle forze produttive che esso stesso mette
in azione. Esso non riesce più a trasformare in capitale tutta questa
massa di mezzi di produzione: essi giacciono inoperosi e, precisamente per
questa ragione, anche l'esercito di riserva industriale è costretto
a restare inoperoso. Mezzi di produzione, mezzi di sussistenza, operai disponibili,
tutti gli elementi della produzione e della ricchezza generale, esistono in
sovrabbondanza. Ma la "sovrabbondanza diventa fonte di miseria e di penuria"
(Fourier) perché è precisamente essa che ostacola la trasformazione
dei mezzi di produzione e di sussistenza in capitale. Infatti nella società
capitalistica i mezzi di produzione non possono entrare in azione se prima
non si sono trasformati in capitale, in mezzi per lo sfruttamento della forza-lavoro
umana. La necessità che i mezzi di produzione e di sussistenza assumano
il carattere di capitale si erge come uno spettro tra essi e gli operai. Essa
sola impedisce il contatto tra le leve reali e le leve personali della produzione;
essa sola proibisce ai mezzi di produzione di funzionare e agli operai di
lavorare e di vivere. Da una parte dunque viene conclamata la incapacità
del modo di produzione capitalistico di continuare a dirigere queste forze
produttive. Dall'altra queste stesse forze produttive spingono con forza sempre
crescente alla soppressione della contraddizione, alla propria emancipazione
dal loro carattere di capitale, all'effettivo riconoscimento del loro carattere
di forze produttive sociali.
È questa reazione al proprio carattere di capitale delle forze produttive
nel loro rigoglioso sviluppo, è questa progressiva spinta a far riconoscere
la propria natura sociale, ciò che obbliga la stessa classe capitalistica
a trattare sempre più come sociali queste forze produttive, nella misura
in cui è possibile, in generale, sul piano dei rapporti capitalistici.
Tanto il periodo di grande prosperità nell'industria con la sua illimitata
inflazione creditizia, quanto lo stesso crac con la rovina di grandi imprese
capitalistiche, spingono a quella forma di socializzazione di masse considerevolmente
grandi di mezzi di produzione, che incontriamo nelle diverse specie di società
per azioni. Molti di questi mezzi di produzione e di scambio sono sin dal
principio così enormi da escludere, come ad esempio avviene nelle strade
ferrate, ogni altra forma di sfruttamento capitalistico. Ad un certo grado
dello sviluppo, neanche questa forma è più sufficiente. I grandi
produttori nazionali di uno stesso ramo di produzione industriale si riuniscono
in un "trust", in un'associazione avente lo scopo di regolare la
produzione; essi determinano la quantità totale da produrre, se la
ripartiscono tra di loro ed impongono così il prezzo di vendita stabilito
in precedenza. Ma poiché tali trust, quando gli affari cominciano ad
andar male, per lo più si dissolvono, proprio per questa ragione essi
spingono ad una forma ancora più concentrata di socializzazione: tutto
il ramo di industria si trasforma in una unica grande società per azioni;
la concorrenza nazionale cede il posto al monopolio nazionale di questa unica
società; così accadde già nel 1890 con la produzione
inglese degli alcali che ora, dopo la fusione di tutte e 48 le grandi fabbriche,
viene esercitata da un'unica grande società con direzione unica e con
un capitale di 120 milioni di marchi.
Nel trust la libera concorrenza si trasforma in monopolio, la produzione,
priva di un piano, della società capitalistica capitola davanti alla
produzione, secondo un piano, dell'irompente società socialista. Certo,
in un primo tempo questo avviene ancora a tutto vantaggio dei capitalisti.
Ma qui lo sfruttamento diventa così tangibile da dover necessariamente
crollare. Nessun popolo sopporterebbe una produzione diretta da trust, uno
sfruttamento così scoperto della collettività per opera di una
piccola banda di tagliatori di cedole.
In un modo o nell'altro, con trust o senza trust, una cosa è certa:
che il rappresentante ufficiale della società capitalistica, lo Stato,
deve alla fine assumerne la direzione*9. La necessità della trasformazione
in proprietà statale si manifesta anzitutto nei grandi organismi di
comunicazione: poste, telegrafi, ferrovie.
Se le crisi hanno rivelato l'incapacità della borghesia a dirigere
ulteriormente le moderne forze produttive, la trasformazione dei grandi organismi
di produzione e di traffico in società per azioni, in trust e in proprietà
statale mostra che la borghesia non è indispensabile per il raggiungimento
di questo fine. Tutte le funzioni sociali del capitalista sono oggi compiute
da impiegati salariati. Il capitalista non ha più nessuna attività
sociale che non sia l'intascar rendite, il tagliar cedole e il giocare in
borsa, dove i vari capitalisti si spogliano a vicenda dei loro capitali. Se
il modo di produzione capitalistico ha cominciato col soppiantare gli operai,
oggi esso soppianta i capitalisti e li relega, precisamente come gli operai,
tra la popolazione superflua, anche se in un primo tempo non li relega tra
l'esercito di riserva industriale.
Ma né la trasformazione in società per azioni e trust, né
la trasformazione in proprietà statale, sopprime il carattere di capitale
delle forze produttive. Nelle società per azioni e nei trust questo
carattere è evidente. E a sua volta lo Stato moderno non è altro
che l'organizzazione che la società borghese si dà per mantenere
le condizioni esterne generali del modo di produzione capitalistico di fronte
agli attacchi sia degli operai che dei singoli capitalisti. Lo Stato moderno,
qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica,
uno Stato dei capitalisti, il capitalista collettivo ideale. Quanto più
si appropria le forze produttive, tanto più diventa un capitalista
collettivo, tanto maggiore è il numero di cittadini che esso sfrutta.
Gli operai rimangono dei salariati, dei proletari. Il rapporto capitalistico
non viene soppresso, viene invece spinto al suo apice. Ma giunto all'apice,
si rovescia. La proprietà statale delle forze produttive non è
la soluzione del conflitto, ma racchiude in sé il mezzo formale, la
chiave della soluzione.
Questa soluzione può consistere solo nel fatto che si riconosca in
effetti la natura sociale delle moderne forze produttive e che quindi il modo
di produzione, di appropriazione e di scambio sia messo in armonia con il
carattere sociale dei mezzi di produzione. E questo può accadere solo
a condizione che, apertamente e senza tergiversazioni, la società si
impadronisca delle forze produttive le quali sono divenute troppo grandi per
subire qualsiasi altra direzione che non sia quella sua. Così il carattere
sociale dei mezzi di produzione e dei prodotti che oggi si volge contro gli
stessi produttori, che sconvolge periodicamente il modo di produzione e di
scambio e si impone con forza possente e distruttiva solo come cieca legge
naturale, viene fatto valere con piena consapevolezza dai produttori e, da
causa di turbamento e di sconvolgimento periodico, si trasforma nella più
potente leva della produzione stessa.
Le forze socialmente attive agiscono in modo assolutamente eguale alle forze
naturali: in maniera cieca, violenta, distruttiva, sino a quando non le riconosciamo
e non facciamo i conti con esse. Ma una volta che le abbiamo riconosciute,
che ne abbiamo compreso il modo d'agire, la direzione e gli effetti, dipende
solo da noi il sottometterle sempre più al nostro volere e per mezzo
di esse raggiungere i nostri fini. E questo vale in modo tutto particolare
per le odierne potenti forze produttive. Sino a quando ostinatamente ci rifiuteremo
di intenderne la natura e il carattere, e a questa intelligenza si oppongono
il modo di produzione capitalistico e i suoi sostenitori, queste forze agiranno
malgrado noi e contro di noi, e, come abbiamo diffusamente esposto, ci domineranno.
Ma una volta che siano comprese nella loro natura, esse, nelle mani dei produttori
associati, possono essere trasformate da demoniache dominatrici in docili
serve. È questa la differenza tra la forza distruttiva dell'elettricità
nel fulmine della tempesta e l'elettricità domata del telegrafo e della
lampada ad arco; la differenza tra l'incendio e il fuoco che agisce al servizio
dell'uomo. Quando le odierne forze produttive saranno considerate in questo
modo, conformemente alla loro natura finalmente conosciuta, all'anarchia sociale
della produzione subentrerà una regolamentazione socialmente pianificata
della produzione, conforme ai bisogni sia della comunità che di ogni
singolo. Così il modo di appropriazione capitalistico, in cui il prodotto
asservisce anzitutto chi lo produce, ma poi anche colui che se lo appropria,
viene sostituito dal modo di appropriazione dei prodotti, fondato sulla natura
stessa dei moderni mezzi di produzione: da una parte da una appropriazione
direttamente sociale come mezzo per mantenere ed allargare la produzione,
dall'altra da un appropriazione direttamente individuale come mezzo di sussistenza
e di godimento.
Il modo di produzione capitalistico, trasformando in misura sempre crescente
la grande maggioranza della popolazione in proletari, crea la forza che, pena
la morte, è costretta a compiere questo rivolgimento. Spingendo in
misura sempre maggiore alla trasformazione dei grandi mezzi di produzione
socializzati in proprietà statale, essa stessa mostra la via per il
compimento di questo rivolgimento. Il proletariato s'impadronisce del potere
dello Stato e per prima cosa trasforma i mezzi di produzione in proprietà
dello Stato. Ma così sopprime se stesso come proletariato, sopprime
ogni differenza di classe e ogni antagonismo di classe e sopprime anche lo
Stato come Stato. La società esistita sinora, moventesi in antagonismi
di classe, aveva necessità dello Stato, cioè di un'organizzazione
della classe sfruttatrice in ogni periodo, per conservare le sue condizioni
esterne di produzione e quindi specialmente per tener con la forza la classe
sfruttata nelle condizioni di oppressione date dal modo vigente di produzione
(schiavitù, servitù della gleba o semiservitù feudale,
lavoro salariato). Lo Stato era il rappresentante ufficiale di tutta la società,
la sua sintesi in un corpo visibile, ma lo era solo in quanto era lo Stato
di quella classe che per il suo tempo rappresentava, essa stessa, tutta quanta
la società: nell'antichità era lo Stato dei cittadini padroni
di schiavi, nel Medioevo lo Stato della nobiltà feudale, nel nostro
tempo lo Stato della borghesia. Ma, diventando alla fine effettivamente il
rappresentante di tutta la società, si rende, esso stesso, superfluo.
Non appena non ci sono più classi sociali da mantenere nell'oppressione,
non appena con l'eliminazione del dominio di classe e della lotta per l'esistenza
individuale fondata sull'anarchia della produzione sinora esistente, saranno
eliminati anche i conflitti e gli eccessi che sorgono da tutto ciò,
non ci sarà da reprimere più niente di ciò che rendeva
necessario un potere repressivo particolare, uno Stato. Il primo atto con
cui lo Stato si presenta realmente come rappresentante di tutta la società
cioè la presa di possesso dei mezzi di produzione in nome della società,
è ad un tempo l'ultimo suo atto indipendente in quanto Stato. L'intervento
di un potere statale nei rapporti sociali diventa superfluo successivamente
in ogni campo e poi viene meno da se stesso. Al posto del governo sulle persone
appare l'amministrazione delle cose e la direzione dei processi produttivi.
Lo Stato non viene "abolito": esso si estingue.
Questo è l'apprezzamento che deve farsi della frase "Stato popolare
libero"106 tanto quindi per la sua giustificazione temporanea in sede
di agitazione, quanto per la sua definitiva insufficienza in sede scientifica;
e questo è del pari l'apprezzamento che deve farsi dell'esigenza dei
cosiddetti anarchici che lo Stato debba essere abolito dall'oggi al domani.
La presa di possesso di tutti i mezzi di produzione da parte della società,
fin dall'apparire del modo di produzione capitalistico nella storia, è
stata assai spesso sognata più o meno oscuramente sia da singoli che
da intere sette, come un ideale dell'avvenire. Ma essa poteva diventare possibile,
poteva diventare una necessità storica, solo quando fossero state presenti
le condizioni materiali della sua attuazione. Essa, come ogni altro progresso
sociale, diviene realizzabile non già per mezzo della conoscenza acquisita
che l'esistenza delle classi contraddice alla giustizia, all'eguaglianza,
ecc., non già per mezzo della semplice volontà di abolire queste
classi, ma per mezzo di certe nuove condizioni economiche. La divisione della
società in una classe che sfrutta e una classe che è sfruttata,
in una classe che domina e una classe che è oppressa, è stata
la conseguenza necessaria del precedente angusto sviluppo della produzione.
Fino a quando il complessivo lavoro sociale fornisce solo un provento che
supera soltanto di poco ciò che è necessario per un'esistenza
stentata di tutti, fino a quando perciò il lavoro impegna tutto o quasi
tutto il tempo della maggioranza dei membri della società, necessariamente
la società si divide in classi. Accanto a questa grande maggioranza
dedita esclusivamente al lavoro, si forma una classe emancipata dal lavoro
immediatamente produttivo, la quale cura gli affari comuni della società:
direzione del lavoro, affari di Stato, giustizia, scienza, arti, ecc. A base
della divisione in classi sta quindi la legge della divisione del lavoro.
Ma ciò non impedisce che questa divisione in classi non si sia effettuata
mediante forza e rapina, astuzia e inganno107 e che la classe dominante, una
volta in sella, non abbia mai mancato di consolidare il proprio dominio a
spese della classe che lavora e di trasformare la direzione della società
in un accresciuto sfruttamento delle masse.
Ma se, di conseguenza, la divisione in classi ha una certa giustificazione
storica, tale giustificazione essa l'ha soltanto per un determinato intervallo
di tempo, per determinate condizioni sociali. Essa si è fondata sull'insufficienza
della produzione e sarà eliminata dal pieno sviluppo delle moderne
forze produttive. Ed in effetti, l'abolizione delle classi sociali ha come
suo presupposto un grado di sviluppo storico in cui non solo l'esistenza di
questa o di quella determinata classe dominante, ma in generale l'esistenza
di una classe dominante e quindi della stessa differenza di classe, è
diventata un anacronismo, un vecchiume. Essa ha quindi come suo presupposto
un alto grado di sviluppo della produzione nel quale l'appropriazione dei
mezzi di produzione e dei prodotti, e perciò del potere politico, del
monopolio della cultura e della direzione spirituale da parte di una particolare
classe della società non solo è diventata superflua, ma è
diventata anche economicamente, politicamente e intellettualmente un ostacolo
allo sviluppo. Questo punto oggi è raggiunto. Se il fallimento politico
e intellettuale della borghesia a stento è ancora un segreto anche
per essa stessa, il suo fallimento economico si ripete regolarmente ogni dieci
anni. In ogni crisi la società soffoca sotto il peso delle proprie
forze produttive e dei propri prodotti che essa non può utilizzare,
ed è impotente davanti all'assurda contraddizione che i produttori
non hanno niente da consumare perché mancano i consumatori. La forza
di espansione dei mezzi di produzione strappa i legami che ad essi sono imposti
dal modo di produzione capitalistico. La loro liberazione da questi legami
è la sola condizione preliminare di uno sviluppo ininterrotto e costantemente
accelerato delle forze produttive, e quindi di un incremento praticamente
illimitato della produzione stessa. Ma non basta. L'appropriazione sociale
dei mezzi di produzione elimina non solo l'ostacolo artificiale oggi esistente
nella produzione, ma anche la vera e propria completa distruzione di forze
produttive e di prodotti, che al presente è l'immancabile compagna
della produzione e che raggiunge il suo punto culminante nelle crisi. L'appropriazione
sociale, eliminando l'insensato sciupìo del lusso delle classi oggi
dominanti e dei loro rappresentanti politici, libera inoltre a vantaggio della
collettività una massa di mezzi di produzione e di prodotti. La possibilità
di assicurare, per mezzo della produzione sociale, a tutti i membri della
collettività una esistenza che non solo sia completamente sufficiente
dal punto di vista materiale e diventi ogni giorno più ricca, ma che
garantisca loro lo sviluppo e l'esercizio completamente liberi delle loro
facoltà fisiche e spirituali: questa possibilità esiste ora
per la prima volta, ma esiste*10.
Con la presa di possesso dei mezzi di produzione da parte della società,
viene eliminata la produzione di merci e con ciò il dominio del prodotto
sui produttori. L'anarchia all'interno della produzione sociale viene sostituita
dall'organizzazione cosciente secondo un piano. La lotta per l'esistenza individuale
cessa. In questo modo, in un certo senso, l'uomo si separa definitivamente
dal regno degli animali e passa da condizioni di esistenza animali a condizioni
di esistenza effettivamente umane. La cerchia delle condizioni di vita che
circondano gli uomini e che sinora li hanno dominati passa ora sotto il dominio
e il controllo degli uomini, che adesso, per la prima volta, diventano coscienti
ed effettivi padroni della natura, perché, ed in quanto, diventano
padroni della loro propria organizzazione sociale. Le leggi della loro attività
sociale che sino allora stavano di fronte agli uomini come leggi di natura
estranee e che li dominavano, vengono ora applicate dagli uomini con piena
cognizione di causa e quindi dominate. L'organizzazione sociale propria degli
uomini che sinora stava loro di fronte come una necessità imposta dalla
natura e dalla storia, diventa ora la loro propria libera azione. Le forze
obiettive ed estranee che sinora hanno dominato la storia passano sotto controllo
degli uomini stessi. Solo da questo momento gli uomini stessi faranno con
piena coscienza la loro storia, solo da questo momento le cause sociali da
loro poste in azione avranno prevalentemente, e in misura sempre crescente,
anche gli effetti che essi hanno voluto. È questo il salto dell'umanità
dal regno della necessità al regno della libertà108.
Riassumiamo brevemente, per concludere, il cammino che abbiamo percorso.
I. Società medioevale. Piccola produzione individuale. Mezzi di produzione
adattati all'uso individuale, perciò rozzi e primitivi, minuscoli,
di efficacia minima. Produzione per il consumo immediato sia del produttore
stesso che del suo signore feudale. Solo laddove ha luogo un'eccedenza della
produzione su questo consumo, quest'eccedenza viene offerta in vendita e destinata
allo scambio: la produzione di merci è quindi solo sul nascere, ma
già ora essa contiene in sé, in germe, l'anarchia nella produzione
sociale.
II. Rivoluzione capitalistica. Trasformazione dell'industria in un primo tempo
per opera della cooperazione semplice e della manifattura. Concentrazione
in grandi officine dei mezzi di produzione sin qui sparsi, e quindi loro trasformazione
da mezzi di produzione individuali in mezzi di produzione sociali: trasformazione
che non tocca in complesso la forma dello scambio. Le vecchie forme di appropriazione
rimangono in vigore. Appare il capitalista: nella sua qualità di proprietario
dei mezzi di produzione si appropria anche dei prodotti e li trasforma in
merci. La produzione è diventata un atto sociale; lo scambio e con
esso l'appropriazione rimangono atti individuali, atti del singolo. Il prodotto
sociale se lo appropria il capitalista singolo. Contraddizione fondamentale
da cui sorgono tutte le contraddizioni tra le quali si muove la società
odierna e che la grande industria mette chiaramente in evidenza.
A. Separazione del prodotto dai mezzi di produzione. Condanna dell'operaio
al lavoro salariato vita natural durante. Antagonismo tra proletariato e borghesia.
B. Crescente rilievo e progrediente efficienza delle leggi che dominano la
produzione di merci. Sfrenata lotta di concorrenza. Contraddizione tra l'organizzazione
sociale nella singola fabbrica e l'anarchia sociale nel complesso della produzione.
C. Da una parte perfezionamento del macchinario, diventato per opera della
concorrenza legge coercitiva per ogni singolo industriale e che equivale ad
un sempre crescente licenziamento di operai: esercito di riserva industriale.
Dall'altra parte estensione illimitata della produzione e del pari legge coercitiva
della concorrenza per ogni singolo industriale. Da una parte e dall'altra
sviluppo inaudito delle forze produttive, eccedenza dell'offerta sulla domanda,
sovrapproduzione, ingorgo dei mercati, crisi decennali, circolo vizioso: qua
eccedenza di mezzi di produzione e di prodotti, là eccedenza di operai
senza occupazione e senza mezzi di sussistenza; ma queste due leve della produzione
e del benessere sociale non possono andare insieme perché la forma
capitalistica della produzione impedisce alle forze produttive di agire, ai
prodotti di circolare, ove precedentemente non si siano trasformati in capitale:
ciò che è precisamente impedito dal loro eccesso. La contraddizione
si è sviluppata sino a diventare il controsenso per cui il modo di
produzione si ribella contro la forma dello scambio. E' provato che la borghesia
è incapace di continuare ulteriormente a dirigere le proprie forze
produttive sociali.
D. Parziale riconoscimento del carattere sociale delle forze produttive, riconoscimento
a cui è obbligato lo stesso capitalista. Appropriazione dei grandi
organismi di produzione e di traffico, prima da parte di società per
azioni, più tardi da parte di trusts e in ultimo da parte dello Stato.
La borghesia dimostra di essere una classe superflua, tutte le sue funzioni
sociali vengono ora compiute da impiegati stipendiati.
III. Rivoluzione proletaria. Soluzione delle contraddizioni: il proletariato
si impadronisce del potere politico e in virtù di questo potere trasforma
i mezzi di produzione sociale che sfuggono dalle mani della borghesia, in
proprietà pubblica. Con questo atto il proletariato libera i mezzi
di produzione dal carattere di capitale che sinora essi avevano e dà
al loro carattere sociale la piena libertà di esplicarsi. Ormai diviene
possibile una produzione sociale conforme ad un piano prestabilito. Lo sviluppo
della produzione rende anacronistica l'ulteriore esistenza di classi sociali
distinte. Nella misura in cui scompare l'anarchia della produzione sociale,
vien meno anche l'autorità politica dello Stato. Gli uomini, finalmente
padroni della forma loro propria di organizzazione sociale, diventano perciò
ad un tempo padroni della natura, padroni di se stessi, liberi.
Compiere quest'azione di liberazione universale è la missione storica
del proletariato moderno. Studiarne a fondo le condizioni storiche e conseguentemente
la natura stessa e dare così alla classe, oggi oppressa e chiamata
all'azione, la coscienza delle condizioni e della natura della sua propria
azione è il compito del socialismo scientifico, espressione teorica
del movimento proletario.
Friedrich Engels
Note di Engels
*1 "In Germania" è uno sbaglio. Si deve dire: "presso
i tedeschi". Infatti la dialettica tedesca era così indispensabile
alla genesi del socialismo scientifico come erano indispensabili le evolute
condizioni economiche e politiche dell'Inghilterra e della Francia. Lo sviluppo
economico e politico della Germania dopo il 1840, arretrato assai più
di oggi, poteva tutt'al più offrire delle caricature socialiste. (Cfr.
Il Manifesto comunista, III, l, c. Il socialismo tedesco o il "vero"
socialismo). Solo quando le condizioni economiche e politiche createsi in
Inghilterra e in Francia vennero sottoposte alla critica dialettica tedesca,
solo allora poté essere ottenuto un risultato reale. Sotto questo aspetto
il socialismo scientifico non è dunque un prodotto esclusivamente tedesco,
ma ugualmente internazionale.
*2 Qual è un gioco di parole filosofico. Qual significa letteralmente
tormento, sofferenza che spinge a una azione qualsiasi. Il mistico Böhme
dà alla parola tedesca anche qualche cosa del significato della parola
latina qualitas [qualità]. Il suo Qual era il principio attivo che
deriva dallo sviluppo spontaneo (ma che, a sua volta, determina tale sviluppo)
delle cose, delle relazioni o delle persone soggette al Qual, cosa ben diversa
da una pena che si subisca dall'esterno. (Nota di Engels al testo inglese).
*3. K. Marx e F. Engels, La sacra famiglia, Francoforte sul Meno, 1845, pp.
201-204.
*4. E persino negli affari la vanagloria sciovinista nazionale è assai
cattiva consigliera. Fino ai tempi più recenti il comune fabbricante
inglese considerava al di sotto della dignità di un inglese parlare
altra lingua che non fosse la propria, ed era fiero che dei "poveri diavoli"
di stranieri si stabilissero in Inghilterra e lo liberassero in tal modo dalla
noia della distribuzione dei suoi prodotti all'estero. Egli non capiva che
questi stranieri, per lo più tedeschi, si impossessavano così
di una larga parte del commercio estero dell'Inghilterra - importazione non
meno che esportazione - e che il commercio estero diretto dagli inglesi riduceva
a poco a poco alle colonie, alla Cina, agli Stati Uniti e all'America del
Sud. E tanto meno s'accorgeva che questi tedeschi commerciavano con altri
tedeschi all' estero e organizzavano gradualmente una rete completa di colonie
di commercio su tutta la superficie terrestre. Ma quando la Germania, circa
quarant'anni fa, incominciò seriamente a produrre per l'esportazione,
essa trovò in queste colonie di commercio tedesche uno strumento che
servì a meraviglia per compiere la sua trasformazione, in breve tempo,
da paese esportatore di cereali in paese industriale di primaria importanza.
Allora finalmente, circa dieci anni fa, il fabbricante inglese ebbe paura
e domandò ai suoi ambasciatori e ai suoi consoli come fosse ch'egli
non riusciva più a conservare i suoi clienti. Le risposte furono unanimi:
l) voi non imparate la lingua dei vostri clienti e aspettate invece che essi
imparino la vostra; 2) voi non cercate di soddisfare i bisogni, le abitudini
e i gusti dei vostri compratori, ma aspettate che essi accettino i vostri
gusti inglesi.
*5. Il passo di Hegel sulla rivoluzione francese è il seguente: "il
pensiero, il concetto del diritto si fece d'altronde valere tutto in una volta,
e la vecchia impalcatura dell'ingiustizia non potette minimamente resistere
ad esso. Nell'idea del diritto fu così, ora, fondata ed edificata una
costituzione, e tutto doveva da allora in poi basarsi su questo fondamento.
Da che il sole splende sul firmamento e i pianeti girano intorno ad esso,
non si era ancora scorto che l'uomo si basa sulla sua testa, cioè sul
pensiero e costruisce la realtà conformemente ad esso. Anassagora era
stato il primo a dire che il Nous governa il mondo; ma solo ora l'uomo pervenne
a riconoscere che il pensiero doveva governare la realtà spirituale.
Questa fu dunque una splendida aurora. Tutti gli esseri pensanti hanno celebrato
concordi quest'epoca. Dominò in quel tempo una nobile commozione, il
mondo fu percorso e agitato da un entusiasmo dello spirito, come se allora
fosse finalmente avvenuta la vera conciliazione del divino col mondo"
(G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia). Non sarebbe tempo
di mettere in moto le leggi contro i socialisti nei riguardi di queste pericolose
dottrine sovversive del defunto professor Hegel?.
*6. Da The Revolution in Mind and Practice [la traduzione completa del titolo
è: La rivoluzione nel pensiero e nella pratica della razza umana] memoriale
diretto a tutti i "repubblicani rossi, ai comunisti e ai socialisti d'Europa",
e al governo provvisorio francese del 1848, nonché "alla regina
Vittoria e ai suoi consiglieri responsabili".
*7. Non occorre spiegare qui che, seppure la forma di appropriazione rimane
la stessa, il carattere dell'appropriazione viene rivoluzionato, non meno
che la produzione, dal processo che è stato descritto sopra. Che io
mi appropri il mio proprio prodotto o il prodotto altrui, sono naturalmente
due specie molto differenti di appropriazione. Incidentalmente: il lavoro
salariato, in cui è già contenuto in germe tutto il modo di
produzione capitalistico, è molto antico; per secoli esso è
esistito, allo stato sporadico e sparso, accanto alla schiavitù. Ma
il germe poté svilupparsi sino a raggiungere il modo di produzione
capitalistico solo allorché si produssero le condizioni storiche necessarie.
*8. La situazione della classe operaia in Inghilterra, p. 109
*9. Io dico: deve. Infatti, solo nel caso in cui i mezzi di produzione o di
comunicazione siano realmente diventati troppo grandi per essere diretti da
società per azioni, in cui quindi la statizzazione è diventata
economicamente inevitabile, solo in questo caso essa, anche se viene compiuta
dallo Stato attuale, rappresenta un progresso economico, il raggiungimento
di un nuovo stadio preliminare nella presa di possesso di tutte le forze produttive
da parte della società. Di recente però, da quando Bismarck
si è dato a statizzare, ha fatto la sua comparsa un certo socialismo
falso, e qua e là perfino degenerato in una forma di compiaciuto servilismo,
che dichiara senz'altro socialistica ogni statizzazione, compresa quella bismarckiana.
In verità se la statizzazione del tabacco fosse socialista, potremmo
annoverare tra i fondatori del socialismo Napoleone e Mettemich. Se lo Stato
belga per motivi politici e finanziari assolutamente correnti ha costruito
direttamente le sue principali strade ferrate, se Bismarck senza nessuna necessità
economica ha statizzato le principali linee ferroviarie della Prussia, semplicemente
per poterle dirigere e sfruttare meglio in caso di guerra, per trasformare
i ferrovieri in gregge elettorale governativo e principalmente per procurarsi
una nuova fonte di entrate indipendente dalle decisioni del parlamento: queste
non sono state per nulla misure socialiste né dirette né indirette,
né consapevoli né inconsapevoli. Altrimenti sarebbero istituzioni
socialiste anche il regio commercio marittimo, la regia manifattura delle
porcellane e perfino i sarti di reggimento o magari la statizzazione dei...
bordelli, proposta con tutta serietà da un mariuolo nel quarto decennio
di questo secolo, sotto Federico Guglielmo III.
*10. Poche cifre bastano per dare un'idea approssimativa dell'enorme forza
di espansione dei moderni mezzi di produzione perfino sotto la pressione capitalistica.
Secondo i più recenti calcoli di Giffen la ricchezza complessiva della
Gran Bretagna e Irlanda ammonta in cifra tonda a:
1814 - 2.200 milioni di sterline = 44 miliardi di marchi
1865 - 6.100 milioni di sterline = 122 miliardi di marchi
1875 - 8.500 milioni di sterline = 170 miliardi di marchi
Per quanto riguarda la devastazione dei mezzi di produzione e dei prodotti
nelle crisi, soltanto la perdita complessiva dell'industria siderurgica tedesca
nell'ultimo crac fu valutata a 455 milioni di marchi al secondo congresso
degli industriali tedeschi, Berlino, 21 febbraio 1878.
Note di corredo non dell'autore
1)In italiano l'opera è stata tradotta e pubblicata con il titolo di
Anti-Dühring.
2)Paul Lafargue (1842-1911), dirigente del movimento operaio francese, fu
tra i fondatori del Partito operaio francese e membro del Consiglio generale
della I Internazionale. Fu genero di Marx di cui sposò la figlia Laura.
3)Sozialdemokrat, organo centrale della socialdemocrazia tedesca, pubblicato
- a causa del divieto previsto dalle leggi eccezionali antisocialiste tedesche
- prima in Svizzera e poi a Londra.
4)Ferdinand Lassalle (1825-1864), avvocato, fondatore dell'Associazione generale
dei lavoratori tedeschi. Teorico e dirigente della corrente riformista della
socialdemocrazia tedesca tra il 1862 e il 1864. Su questioni fondamentali
ebbe posizioni opportuniste e fu l'iniziatore della tendenza opportunista
nel movimento operaio tedesco. Fautore della unificazione della Germania sotto
l'egemonia della Prussia. Propugnò la costituzione di associazioni
operaie con l'aiuto dello Stato. Fu decisamente combattuto da Marx ed Engels.
Cfr., ad esempio: Marx, Critica del programma di Gotha.
Industriale di Brema, scrisse opuscoli contro la 5) socialdemocrazia.
Storici tedeschi. 6)
7)Henri Claude de Rouvroy conte di Saint-Simon (1760-1825), socialista utopista
francese, profeta dell'industrialismo.
8)François Marie Charles Fourier (1772-1837), filosofo e scrittore
francese. Socialista utopista, progettò colonie comuniste come unità
economiche indipendenti.
9)Robert Owen (1771-1858), socialista utopista inglese. Fautore di un "nuovo
mondo etico", introdusse per la prima volta nella sua filanda di New
Lanark innovazioni all'epoca straordinarie, tra cui la riduzione del tempo
di lavoro, un sistema di previdenza contro malattie e vecchiaia, comitati
operai consultivi, ecc.
10)Immanuel Kant (1724-1804), grande filosofo fondatore dell'idealismo classico
tedesco. Tentò di giungere alla sintesi tra razionalismo e idealismo.
11)Johann Gottlieb Fichte (1762-1814), filosofo tedesco, discepolo di Kant,
fondatore dell'idealismo soggettivo.
12)Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), grande filosofo tedesco, massimo
rappresentante dell'idealismo oggettivo. La sua filosofia influenzò
moltissimo il pensiero europeo. Compì studi approfonditi sulla dialettica.
Marx accettò il suo metodo a cui diede però, rovesciandolo,
un fondamento materialista.
13)Eugen Karl Dühring (1833-1921), filosofo ed economista piccolo borghese
tedesco. Le sue concezioni filosofiche erano un miscuglio eclettico di positivismo,
materialismo metafisico e idealismo.
14)Eisenachiani, erano i membri del Partito operaio socialdemocratico. Così
chiamati dalla città di Eisenach in cui era stato fondato il partito.
Massimi esponenti degli eisenachiani furono A.Bebel e W.Liebknecht.
15)Lassalliani, erano i membri dell'Associazione generale degli operai tedeschi.
Così chiamati dal fondatore e capo dell'Associazione, Ferdinand Lassalle.
Al congresso di Gotha (22-27 maggio 1875) 16) eisenachiani e lassalliani si
unificarono dando vita al Partito operaio socialista di Germania. L'unificazione
avvenne sulla base di un programma aspramente contestato da Marx e da Engels.
(Cfr., in particolare: Marx, Critica del programma di Gotha).
17)Gründlichkeit = "profondità".
18)Bimetallismo, sistema monetario fondato sull'oro e l'argento.
19)Charles Robert Darwin (1809-1882), grande naturalista inglese, fondatore
della biologia materialistica, nonché della dottrina dell'origine e
della evoluzione delle specie animali e vegetali (evoluzionismo).
20)Vorwärts = "Avanti!", organo centrale del Partito operaio
socialista di Germania, pubblicato a Leipzig dal 1876 al 1878.
21)Die Mark = "La Marca", era un saggio di Engels pubblicato originariamente
in appendice alla presente opera e qui non riportato. Si trattava di una breve
storia dei contadini tedeschi. La "marca" era una comunità
rurale dell'antica Germania.
22)Maksim Maksimovich Kovalevskij (1851-1916), sociologo, storico e uomo politico
democratico russo. Noto per le sue ricerche sulla società primitiva.
23)Filisteismo, termine sempre usato da Marx ed Engels per indicare lo spirito
e il comportamento ipocrita e gretto, meschino ed egoistico, tipico della
piccola-borghesia.
24)Agnosticismo, dottrina filosofica che riconosce l'esistenza del mondo materiale
ma nega la possibilità di conoscerlo.
25)John Duns Scoto (circa 1270-1308), francescano, filosofo e teologo scolastico,
rappresentante del nominalismo, prima espressione del materialismo nel Medioevo.
26)Nominalismo, dottrina filosofica medioevale. Sosteneva che i concetti universali
non esistono, ma sono soltanto "nomi" di cui ci serviamo per definire
le cose e le loro somiglianze. Ad esso si oppose la dottrina "realista".
27)Francis Bacone di Verulam (1561-1626), filosofo inglese, padre del materialismo
inglese.
28)Anassagora di Clazome-ne (circa 500-428 avanti Cristo), filosofo greco.
Secondo Anassagora la materia è divisibile all'infinito, e in ogni
sua particella, per quanto piccola, secondo il principio che "tutto è
in tutto", sarebbero sempre presenti tutti gli "spermata" (=
semi), cioè le diverse qualità della materia, sia pure in proporzioni
diverse.
29)Omeomerie, termine usato da Aristotele nell'interpretare Anassagora. Si
tratterebbe di minuscole particelle di materia, qualitativamente distinte,
divisibili all'infinito.
30)Democrito (circa 460-370 avanti Cristo), grande filosofo materialista greco,
uno dei fondatori della teoria atomistica.
31)Jakob Böhme (1575-1624), filosofo tedesco approdato al misticismo.
32)Thomas Hobbes (1588-1679), grande filosofo inglese, seguace del materialismo
meccanicistico.
33)John Locke (1632-1704), filosofo inglese, seguace dell'empirismo.
Illuministi inglesi. 34)
35)Deismo. È una dottrina religiosa e filosofica che ammette l'esistenza
di dio come principio supremo impersonale dell'universo che rimane però
estraneo alla vita della natura e della società. Fu ostile al teismo
che, all'opposto, crede in una divinità personale con cui si comunicherebbe
attraverso la "rivelazione" e la fede.
Geologi inglesi, 36) scopritori e studiosi di fossili. Mantell è famoso
come scopritore di resti fossili di dinosauri.
Engels allude alla prima esposizione 37) universale del commercio e dell'industria
che ebbe luogo a Londra tra il maggio e l'ottobre 1851.
38)Esercito della salvezza, organizzazione religiosa filantropica di tendenza
reazionaria, fondata in Inghilterra nel 1865 e riorganizzata alla maniera
militare (da cui il suo nome) nel 1880. In molti paesi ha avuto un ruolo nel
distogliere le masse lavoratrici dalla lotta contro lo sfruttamento.
39)Pierre Simon Laplace (1749-1827), matematico, fisico ed astronomo francese.
Parallelamente a Kant enuncia da un punto di vista matematico l'ipotesi della
nascita del sistema solare da una nube gassosa. Fu anche ministro degli interni
di Napoleone.
"Non avevo bisogno di questa ipotesi". 40)
Frase del 41) Faust di Goethe, prima parte.
"La prova del pudding si fa mangiandolo". 42)
Nel 43) testo inglese seguiva la precisazione: "il che noi chiamiamo
un ragionamento difettoso".
Nel testo inglese seguiva la precisazione: "al di 44) là di quel
poco che conoscevamo di essi".
Sull'importanza e 45) sul ruolo della teoria nelle scienze, cfr.: Engels,
Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, in
cui Engels porta l'esempio della scoperta sperimentale del pianeta Nettuno
dopo che, in base a calcoli matematici, era stata stabilita l'esistenza e
la collocazione del pianeta nel sistema solare.
46)Oliver Cromwell (1599-1658), puritano, fu a capo della borghesia nella
rivoluzione inglese del XVII secolo. Dal 1653 fu "Lord Protettore"
di Inghilterra, Scozia e Irlanda.
Nel testo inglese seguiva la precisazione: "Da sola, 47) la borghesia
non ci sarebbe mai riuscita".
Nel testo inglese 48) si trova, invece, l'espressione: "si spinse molto
oltre la posizione che essa avrebbe potuto garantire a se stessa".
49)Gloriosa rivoluzione: è il nome attribuito dalla storiografia borghese
inglese al colpo di stato del 1688 ai danni della dinastia degli Stuart e
all'ascesa al trono della monarchia costituzionale di Guglielmo d'Orange,
fondata sul compromesso tra l'aristocrazia terriera e la grande borghesia
in ascesa.
50)Luigi Filippo (1773-1850), duca d'Orleans, re di Francia dal 1830 al 1848.
51)Le guerre delle due rose: guerre civili che si combatterono in Inghilterra
tra il 1455 e il 1485 e capeggiate dalla dinastia dei Lancaster da un lato
e da quella degli York dall'altro. Sono così chiamate perché
le due fazioni inalberavano una rosa rossa (i Lancaster) e una rosa bianca
(gli York). I Lancaster erano sostenuti dall'aristocrazia feudale del Nord,
mentre gli York rappresentavano una coalizione di proprietari fondiari del
Sud, più evoluti economicamente, di cavalieri e borghigiani. Le guerre
si conclusero con lo sterminio pressocché totale della vecchia feudalità
e con l'ascesa al trono di Enrico VII che instaurò la monarchia assoluta
della dinastia Tudor.
52)Cartesianesimo, dottrina filosofica dei discepoli del filosofo francese
del XVII secolo Descartes (Cartesio) che trassero dalle opere del maestro
conclusioni di tipo materialista.
53)La Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino fu adottata nel
1789 dall'Assemblea costituente francese e proclamava i principi politici
su cui dovevano essere fondate le istituzioni del nuovo regime borghese. Fu
inclusa nella Costituzione del 1791 e fu la base dell'omonima "Dichiarazione"
dei Giacobini del 1793.
54)Il Code civil è la parte più rilevante storicamente e politicamente
del Code Napoléon (che comprendeva cinque codici: civile, di procedura
civile, commerciale, penale e di procedura penale) entrato in vigore tra il
1804 e il 1810. Fu, in realtà, il primo compendio organico dell'ordinamento
giuridico della borghesia e costituisce, ancora oggi, la base del diritto
borghese. Il Code Napoléon ebbe vigore fino al 1815 anche in tutte
le regioni occupate dagli eserciti napoleonici.
"Si scrive Londra e si legge 55) Costantinopoli".
56)James Watt (1736-1819), ingegnere scozzese, ideatore di un tipo perfezionato
di macchina a vapore. Richard Arkright (1732-1823), inventore della macchina
per filare. Edmund Cartright (1743-1823), inventore del telaio meccanico.
Engels si riferisce al 57) Reform Act con cui nel 1831-1832 fu introdotta
in Gran Bretagna la riforma elettorale con cui i rappresentanti della borghesia
industriale ebbero accesso al parlamento. Proletariato e piccola borghesia,
promotori della riforma, furono ingannati dalla borghesia liberale e ne restarono
esclusi.
Nel 1842 il parlamento inglese ridusse 58) il dazio sull'importazione dei
cereali; nel 1846 ne abolì le restrizioni all'importazione e nel 1849
eliminò ogni dazio. Si trattò di una grande vittoria della borghesia
industriale sulla proprietà fondiaria, all'insegna della libertà
di scambio.
59)La Carta del popolo fu pubblicata come progetto di legge l'8 maggio 1838
ed era articolata in sei punti: suffragio universale, elezioni parlamentari
annuali, scrutinio segreto, revisione delle circoscrizioni elettorali, abolizione
del censo per i candidati alle elezioni, indennità parlamentare.
Engels si riferisce al fallimento - 60) dovuto alle esitazioni degli organizzatori
- della manifestazione di massa indetta in quel giorno per depositare in parlamento
la petizione che rivendicava l'adozione della Carta del popolo. Ne seguì
una repressione anticartista.
61)Luigi Bonaparte (1808-1873), nipote di Napoleone, presidente della Seconda
Repubblica, con il colpo di stato del 2 dicembre 1851 diventa imperatore dei
francesi con il nome di Napoleone III. Cfr. ampiamente: Marx: Il 18 brumaio
di Luigi Bonaparte.
62)Fra Gionata, soprannome ironico dato dagli inglesi agli americani durante
la guerra d'indipendenza americana.
63)Revivalismo, movimento religioso della chiesa protestante apparso in Inghilterra
nella prima metà del secolo XVIII e molto attivo in America nel 1800.
Perseguiva un allargamento e un consolidamento dell'influenza della religione
cristiana attraverso la predicazione e l'organizzazione di comunità
di credenti. Moody e Sankey furono tra i predicatori americani più
attivi.
"Educazione della 64) classe media". Per "classe media"
si intendeva allora la borghesia.
Nel 1867, sotto la pressione del movimento operaio e con l'impegno 65) attivo
del Consiglio generale della I Internazionale, il parlamento inglese fu costretto
ad approvare il secondo Reform Act, in base al quale il numero degli elettori
aumentò di oltre il doppio.
66)Benjamin Disraeli Lord Beaconsfield (1804-1881), romanziere e uomo di stato
inglese, capo del partito conservatore (Tories), primo ministro nel 1868 e
poi dal 1874 al 1880.
"Diritto di voto ai capifamiglia". 67)
68)Socialisti della cattedra, così chiamati perché i loro maggiori
rappresentanti erano professori delle università tedesche. Agirono
tra gli anni '70 e '90 del XIX secolo. Predicavano un riformismo liberale
ammantato di socialismo. Affermavano che lo Stato è un'istituzione
al di sopra delle classi e può riconciliarle introducendo gradualmente
il "socialismo" senza ledere gli interessi del capitalismo. Si limitavano
a organizzare le assicurazioni degli operai contro infortuni e malattie e
a rivendicare alcune riforme. Sostenevano che l'esistenza di sindacati ben
organizzati rendeva superflua la lotta politica e i partiti operai.
69)Ritualismo, corrente che si forma nella chiesa anglicana intorno al 1830
e che preconizza la restaurazione di certi dogmi e riti della chiesa cattolica
nella chiesa anglicana.
70)Lujo Brentano (1844-1921), professore di economia politica.
È la questione 71) della possibilità, nell'epoca del capitalismo
premonopolistico, della vittoria della rivoluzione proletaria simultaneamente
in più paesi capitalisti avanzati e, dunque, sull'impossibilità
della vittoria in un solo paese. Sulla questione Engels si era già
pronunziato in modo compiuto nel 1847 nell'opera Princìpi del comunismo.
Successivamente, nelle condizioni del capitalismo monopolistico, Lenin elaborò
la teoria dello sviluppo ineguale del capitalismo e concluse sulla possibilità
della vittoria della rivoluzione socialista in un solo paese. Cfr. soprattutto:
Lenin, A proposito della parola d'ordine degli Stati Uniti d'Europa e L'imperialismo,
fase suprema del capitalismo. La polemica, come è noto si ripropose
tra Stalin, che difendeva la tesi di Lenin, e Trotzky, che teorizzava la controrivoluzionaria
teoria della "rivoluzione ininterrotta".
72)Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), uno dei maggiori filosofi del secolo
XVIII, illuminista, deista, ispiratore dei princìpi della Rivoluzione
borghese del 1789 e dei suoi più radicali esponenti.
73)Thomas Münzer (circa 1490-1525), rivoluzionario e ideologo dei contadini
in un moto rivoluzionario in Turingia insieme alla setta degli anabattisti
all'epoca della Riforma e nella guerra contadina del 1535. Gli anabattisti
erano membri di una setta religiosa protestante che rigettavano il battesimo
dei bambini come inefficace perché imposto in età non razionale.
74)Livellatori, rappresentanti delle plebi urbane e rurali che durante la
rivoluzione inglese del 1648 avanzarono le rivendicazioni più democratiche
e radicali.
75)François-Noel Babeuf detto Graccus (1760-1797), grande rivoluzionario
francese, è il primo a sottolineare l'importanza della lotta di classe
come molla della storia. Eminente rappresentante del comunismo egualitario.
Durante la Rivoluzione francese si proclama seguace dei sanculotti e lotta
contro ogni involuzione e deviazione dei vari gruppi dirigenti. Fonda e dirige
il giornale Il tribuno del popolo. Dopo un primo arresto è organizzatore
e animatore della "congiura degli Uguali" e si batte contro il Direttorio
e i sostenitori delle alleanze di classe. Costretto all'illegalità,
il suo gruppo diventa il primo "partito" retto da principi centralistici.
Di nuovo arrestato è fatto giustiziare il 28 maggio 1797. Suo seguace
e continuatore fu Filippo Buonarroti.
Engels allude alle opere 76) di Tommaso Moro e Tommaso Campanella, rappresentanti
del comunismo utopistico.
77)Morelly, abate francese del XVIII secolo, ispiratore di Babeuf, auspicò
l'abolizione della proprietà privata. Mably, anch'egli abate nel XVIII
secolo, vagheggiò il ritorno all'uguaglianza primitiva e alla comunanza
dei beni.
La parte 78) che segue corrisponde alla terza parte, capitolo I, dell'Antidühring.
79)Terrore (giugno 1793-luglio 1794), periodo della Rivoluzione francese durante
il quale i Giacobini esercitano la loro dittatura rivoluzionaria e democratica.
80)Direttorio, organo del potere esecutivo in Francia dal 1795 (dopo il colpo
di stato controrivoluzionario) al 1799, composto di cinque persone. Praticò
il terrore contro le forze democratiche difendendo gli interessi della grande
borghesia. Estremamente corrotto, fu rovesciato da Napoleone Bonaparte.
81)Thomas Carlyle (1795-1881), filosofo idealista inglese, per la sua critica
della borghesia inglese fu "classificato" nel Manifesto come "socialista
feudale". Sostenne che solo i grandi uomini fanno la storia, e finì
per approdare a posizioni conservatrici e reazionarie. La sua opera Past and
Present (= "Passato e presente") sulla società borghese fu
recensita da Engels negli Annali franco-tedeschi nel 1844.
82)New Lanark, opificio per la filatura del cotone fondato nel 1784 da Robert
Owen e piccola città operaia nelle vicinanze della città scozzese
di Lanark.
Engels si riferisce qui alle 83) posizioni e alla propaganda idealiste e non
scientifiche degli anarchici seguaci di Bakunin.
Il 31 marzo 1814. 84)
85)I Cento giorni, periodo di temporaneo ristabilimento dell'impero compreso
tra il ritorno a Parigi di Napoleone dall'isola d'Elba il 20 marzo 1815, e
il 22 giugno, data della sua definitiva abdicazione.
86)Waterloo, villaggio belga dove il 18 giugno 1815 le truppe anglo-olandesi
al comando del duca di Wellington e le truppe prussiane comandate da Blucher
sconfissero Napoleone I.
Cfr.: Engels, 87) L'origine della famiglia, della proprietà privata
e dello Stato.
Engels, invece, distingue solo tre fasi: lo stato selvaggio, la 88) barbarie
e la civiltà. Cfr.: Engels, L'origine ecc.
Nell' 89)Anti-Dühring Engels precisa; "in un periodo di vero Sturm
und Drang della produzione". Sturm und Drang (= "Tempesta e Impeto")
fu il motto che orientò il primo romanticismo tedesco.
Engels aveva studiato da vicino e descritto dettagliatamente queste 90) questioni
in La situazione della classe operaia in Inghilterra.
Nell'ottobre 1833 si tiene a Londra un congresso delle società 91)
cooperative e delle Trade Unions sotto la presidenza di Owen. Esso dà
vita alla Grande associazione delle imprese della Gran Bretagna e dell'Irlanda.
Accolta molto sfavorevolmente dalla borghesia e dallo Stato, l'Associazione
cessa di esistere nell'agosto 1834.
92)Empori del lavoro, fondati dalle cooperative operaie di Owen in diverse
città dell'Inghilterra. In essi si effettuava lo scambio equitativo
dei prodotti del lavoro sulla base di una "carta moneta del lavoro"
la cui unità di base era l'ora di lavoro.
L'antimarxista Proudhon tentò di istituire una banca di cambio 93)
durante la rivoluzione del 1848-1849. Questa Banca del popolo fu fondata il
31 gennaio 1849 a Parigi. Esistette due mesi e fallì agli inizi di
aprile senza aver neppure iniziato a funzionare.
94)Wilhelm Weitling (1808-1871), esponente di primo piano del movimento operaio
tedesco delle origini, teorico del comunismo egualitario utopistico.
95)Denis Diderot (1713-1784), filosofo illuminista francese, seguace del materialismo
meccanicistico, ateo, uno degli ideologi della borghesia rivoluzionaria francese,
redattore dell'Enciclopedia.
96)Eraclito (circa 540-circa 480 avanti Cristo), filosofo greco, uno dei fondatori
della dialettica, seguace del materialismo spontaneo.
97)Periodo alessandrino (dal III secolo avanti Cristo al VII secolo della
nostra era), così chiamato dalla città di Alessandria d'Egitto,
uno dei principali centri economici e culturali dell'epoca. In questo periodo
numerose scienze conobbero un grande progresso, in particolare la matematica
(con Euclide ed Archimede), la geografia, l'astronomia, l'anatomia, la fisiologia.
L'opera di Kant a cui Engels si riferisce è la 98) Storia naturale
universale e teoria dei cieli. Cfr. anche la nota n. 39 su Laplace.
99)Isaac Newton (1642-1727), grande fisico, astronomo e matematico inglese,
padre della meccanica classica. Enunciò la legge della gravitazione
universale.
100)Karl von Linné (1707-1778), naturalista svedese, autore della classificazione
delle piante e degli animali.
Durante uno sciopero degli operai tessili di 101) Lione, che in particolare
lavoravano la seta, per la fissazione del salario minimo, una manifestazione
fu dispersa a fucilate. Gli operai insorsero e tennero la città finché
non fu fatto intervenire l'esercito.
102)Cartisti. Vedi la nota n.59. Il movimento fu attivo fino al 1848, quando
cominciò a declinare. Non ebbe mai un programma e una tattica veramente
determinati né una direzione proletaria e rivoluzionaria. La sua importanza
e l'influenza del cartismo sulla storia politica dell'Inghilterra e sull'evoluzione
del movimento operaio mondiale furono enormi.
Parole di Mefistofele nel 103) Faust di Goethe.
Secondo Marx questa contraddizione può essere superata eliminando 104)
"il modo di produzione capitalistico, conservando però la produzione
sociale" (cfr.: Marx, Il Capitale). Il ruolo del proletariato e il fine
del socialismo sono tutti nel superamento di questa contraddizione.
Queste guerre furono combattute tra Spagna, Portogallo, Olanda, 105) Francia
e Inghilterra per il dominio dei traffici commerciali con l'America e l'India
e, quindi, per la colonizzazione di quelle terre. La vittoria arrise all'Inghilterra
che dominò il commercio mondiale fino agli albori del XIX secolo.
106)Stato popolare libero un nonsenso, una definizione antinomica che Marx
ha denunciato e smascherato più e più volte, in particolare
cfr.: Marx, Critica del programma di Gotha.
Engels allude polemicamente alla teoria di Dühring secondo cui la 107)
divisione della società in classi è dovuta solo alla violenza.
Nell' 108)Anti-Dühring, Engels precisa: "Hegel fu il primo a rappresentare
in modo giusto il rapporto di libertà e necessità. Per lui la
libertà è il riconoscimento della necessità. "Cieca
è la necessità solo nella misura in cui non viene compresa".
La libertà non consiste nel sognare l'indipendenza dalle leggi della
natura, ma nella conoscenza di queste leggi e nella possibilità, legata
a questa conoscenza, di farle agire secondo un piano per un fine determinato.
Ciò vale in riferimento tanto alle leggi della natura esterna, quanto
a quelle che regolano l'esistenza fisica e spirituale dell'uomo stesso".