Biblioteca Multimediale Marxista


Alle origini del socialismo italiano


 

 (1879-1892)

 

Mazzini, Bakunin e la rivoluzione italiana

Nonostante che  fermenti di autonomia proletaria inizino a manifestarsi in Italia almeno dalla metà degli anni ’40 del XIX secolo e che uomini d’azione come Pisacane o pensatori come Giuseppe Ferrari rompano presto a sinistra col mazzinianesimo, prefigurando i lineamenti di una sorta di rudimentale socialismo risorgimentale,  è solo parecchi decenni dopo e precisamente  a partire dall’inizio degli anni ottanta che si intravvedono i primi concreti e organici tentativi di costruire un’organizzazione politica del movimento operaio capace di andare  oltre l’azione cospirativa e insurrezionalista degli internazionalisti bakuniniani da un lato e l’intervento solidaristico delle società operaie di mutuo soccorso dall’altro. Fino ad allora il movimento rivoluzionario si era fondato sull’ attesa del tutto fideistica da parte degli anarchici  di una imminente spontanea rivolta delle masse contadine del Sud, sulla incrollabile certezza di Bakunin e dei suoi seguaci italiani che la fortissima carica antistatale che fermentava nelle campagne meridionali   sapesse da sola trasformarsi in un immane incendio rivoluzionario capace di travolgere l’ancora fragile impalcatura dello Stato post-unitario. Alla fine degli anni ’70 un decennio  di rivolte disperate e di insurrezioni fallite stavano a testimoniare del’illusorietà di tali propositi. Gli scoppi violentissimi di collera popolare al sud, l’incendio dei municipi, la piaga endemica del brigantaggio, lungi dal provare la raggiunta maturazione delle condizioni della rivoluzione sociale, testimoniavano solo della progressiva inarrestabile disgregazione nelle zone più arretrate e povere del Paese di  assetti sociali secolari. Disgregazione accelerata dalla riunificazione politica dell’Italia sotto il Piemonte sabaudo e dalla formazione di un  mercato nazionale connotato da una estremo divario fra città e campagne e fra Nord e Sud. Contrariamente ai sogni di Bakunin, lungi dall’essere i segnali di un’incombente rivoluzione, i ricorrenti moti del Sud, con la loro assoluta mancanza di una qualunque carica progettuale ed il localismo esasperato, rappresentavano i tragici bagliori di un mondo al crepuscolo. All’estremo opposto, nel Centro-Nord si avviava ad esaurimento l’esperienza, peraltro assai significativa, del mutualismo operaio nata attorno agli anni ’40, inizialmente per mano di una borghesia radicale che tramite la filantropia ed un moderato riformismo intendeva tenere sotto controllo i ceti subalterni. Un fenomeno, quello delle SMS, tuttavia, capace almeno a partire dalla seconda metà degli anni ’60  di esprimere autonomi accenti di classe e di selezionare una prima generazione di quadri operai. Frutto di una lenta evoluzione delle antiche corporazioni di mestiere nella particolare situazione dell’arretratezza italiana, il mutualismo aveva accompagnato nelle città soprattutto del Nord la mutazione di un proletariato preindustriale prevalentemente artigiano, connotato dalla padronanza  individuale di un “mestiere”, in una classe operaia di tipo nuovo, largamente omogenea per condizioni di lavoro e di vita, incentrata sul modello produttivo collettivo e standardizzato, per quanto i tempi lo permettessero, della fabbrica. Ora, con il progressivo crescere di tale moderno proletariato nelle nuove aree industriali della Valle del Po e la formazione nella Bassa Padana di un esteso proletariato agricolo la natura e il ruolo delle Società Operaie di Mutuo Soccorso erano inevitabilmente destinati a cambiare in profondità.  Il ruolo egemonico giocato per almeno due decenni dai mazziniani sulla parte più radicale del movimento mutualistico, rappresentando del tutto specularmente all’azione dei bakuninisti tra le masse contadine del Meridione la  manifestazione politica della particolare arretratezza italiana, era dunque destinato ad una rapida eclissi una volta che tale particolarità veniva progressivamente a sparire. Tanto diverse per le idee professate quanto profondamente simili per il ruolo oggettivamente svolto, le comunque grandi figure di Giuseppe Mazzini e Michele Bakunin simboleggiano all’estremo nella loro tragica inconcludenza le caratteristiche di un’epoca di transizione che poteva solo iniziare a porsi il problema della trasformazione rivoluzionaria non certo a risolverlo.

 

1. Andrea Costa e il Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna

 

Andrea Costa e la lettera “Ai miei amici di Romagna”

Non è un caso che i primi tentativi di uscire dal vicolo cieco in cui il movimento rivoluzionario era venuto a trovarsi ad un decennio dall’unificazione  si manifestino proprio a Milano, cuore di quell’area padana in cui un proletariato moderno era in più avanzata fase di formazione. Nel capoluogo lombardo, alla fine del 1876, il gruppo di intellettuali radicali che aveva dato vita al giornale La Plebe si costituisce in Federazione dell’Alta Italia dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, rompendo di fatto con l’anarchismo classico e la sua teorizzazione del’azione diretta e avvicinandosi in modo significativo al marxismo. L’anno successivo, nel corso del II Congresso della Federazione, ormai rappresentativa di numerosi circoli operai in Lombardia, Piemonte e Veneto, Osvaldo Gnocchi Viani per la prima volta ipotizza la possibilità che il socialismo possa essere perseguito “con tutti i mezzi” a partire da quelli politici, mentre Enrico Bignami dà pubblica lettura di una lettera ricevuta da Engels sulle recenti elezioni tedesche. Parallelamente va approfondendosi la crisi dell’anarchismo, largamento screditato dai ripetuti insuccessi dei tentativi insurrezionali lanciati senza alcuna preparazione e senza altra prospettiva che la devozione alla causa di pochi coraggiosi. Ad aprile del 1878 si tiene clandestinamente a Pisa il quarto congresso della Federazione italiana dell’Internazionale al quale prendono parte tredici internazionalisti che, ribadita la fede nel “non lontano” giorno della rivoluzione, polemizzano aspramente col socialismo “legale, autoritario, pacifico” de La Plebe. Nonostante la virulenza dei toni, si tratta delle ultime manifestazioni di un movimento ormai in declino. La strada del mutamento era  aperta e le novità non si sarebbero fatte attendere all’interno dello stesso campo anarchico. Nell’agosto del 1879 proprio su  La Plebe Andrea Costa, il più promettente e conosciuto dei giovani esponenti libertari, invita tramite una lettera aperta gli internazionalisti, come si definivano allora gli aderenti italiani all’AIL, ad operare un profondo rinnovamento tattico, rompendo con la pratica fino ad allora seguita della “propaganda per mezzo dei fatti”, cioè di un insurrezionalismo rivelatosi del tutto incapace di offrire uno sbocco concreto alla  aspirazione rivoluzionaria al  cambiamento propria di un  proletariato sempre più combattivo.  Nella sua lettera Costa riconosce la legittimità di tale linea che affondava le proprie radici  direttamente nel patrimonio rivoluzionario risorgimentale, ma sottolinea con forza che tale forma d’azione si era rivelata sterile, incapace di radicare stabilmente i rivoluzionari all’interno del proletariato. Senza rinnegare le esperienze precedenti,  occorre dunque ripensare radicalmente le modalità stesse dell’azione politica rivoluzionaria, dando adeguato spazio a quel capillare e organizzato lavoro di propaganda, da tutti ritenuto necessario, ma almeno fino a quel momento totalmente trascurato sul piano pratico. Più di tutto bisogna in ogni modo evitare il rischio crescente dell’isolamento settario, affrontando in modo spregiudicato il problema di come porsi in relazione dialettica con gli strati profondi del proletariato e di come più efficacemente coglierne le aspirazioni per  tradurle in un progetto politico  coerente e chiaro. Per Costa è giunto ormai il momento di abbandonare la tradizionale concezione della rivoluzione come  colpo di mano risolutore  ad opera di una minoranza illuminata e di passare dall’azione cospirativa ad un lavoro politico aperto e di lungo periodo della classe operaia. Coerentemente con questa nuova prospettiva i rivoluzionari debbono porsi il problema  della costruzione di un nuovo strumento d’azione. Quello che occorre è un Partito socialista rivoluzionario che sappia nelle mutate condizioni politiche e sociali continuare l’opera iniziata nel decennio precedente dai piccoli nuclei semisegreti dell’Alleanza Internazionale dei Lavoratori, ormai incapaci di un qualunque sviluppo.

 

La nascita del Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna

Coerentemente con le tesi esposte nella lettera di Andrea Costa nell’aprile del 1880 si tiene a Bologna un congresso dei socialisti romagnoli che, dopo aver auspicato la formazione di un partito socialista operante a livello nazionale e ribadita la scelta rivoluzionaria, dichiara la necessità per gli internazionalisti di partecipare sistematicamente alle agitazioni operaie. Si tratta  della pratica applicazione delle idee costiane alla nuova situazione che si era andata creando in Romagna e che si caratterizza per un’impetuosa ascesa delle lotte rivendicative. In quegli anni, infatti, grazie soprattutto all’intervento diretto dello Stato si era formato nella regione un consistente proletariato impegnato nelle grandiose opere di bonifica delle paludi che aveva via via assorbito artigiani rovinati, ex-mezzadri espulsi dai fondi e piccoli proprietari che avevano perso la terra a causa della persistente crisi che travagliava l’agricoltura italiana come conseguenza diretta dell’apertura al mercato. Una massa di proletari,   sottoposti a condizioni di vita e di lavoro durissime, educati all’azione collettiva dallo stesso lavoro in squadra svolto nei cantieri di bonifica, estremamente disponibili ad una lotta diretta contro lo Stato che si presenta loro nella duplice veste del padrone dispotico e del gendarme. Il mese successivo esce a Milano il primo numero della Rivista Internazionale del Socialismo, a cura del gruppo de La Plebe e di quello costiano, allo scopo di dare dignità scientifica al progetto politico dei socialisti. Nella rivista Costa riprende in modo articolato la tesi già avanzata nella lettera dell’anno precedente abbozzando le linee portanti di programma minimo del partito da costruire. Per la prima volta alle tradizionali richieste democratiche della sinistra radicale come quella del suffragio universale o dell’abolizione della tassazione indiretta si affiancano specifiche rivendicazioni operaie. Per Costa il futuro Congresso dei Socialisti Italiani deve battersi per il diritto di coalizione e di sciopero, per la limitazione della giornata  lavorativa, per la regolamentazione del lavoro delle donne e dei fanciulli, per il miglioramento del regime di fabbrica, per lo sfruttamento collettivo da parte dei contadini delle terre incolte. Finalmente, nel luglio 1881, dopo una lunga e capillare preparazione e nonostante la repressione poliziesca che colpisce lo stesso Costa, si tiene a Rimini in forma clandestina il congresso costitutivo del Partito Socialista Rivoluzionario che si da come primi obiettivi la costruzione di salde forme di collegamento fra le molte associazioni di classe ormai operanti in Romagna e in prospettiva sull'intero territorio nazionale e la definizione di un programma politico chiaro e accettabile dalle diverse componenti del movimento rivoluzionario.   Riprendendo la classica formulazione del Parti Ouvrier francese, Costa afferma che se la rivoluzione ha bisogno di un partito, l’edificazione del socialismo non può non fondarsi sulla dittatura popolare, cioè sulla “accumulazione di tutte le forze sociali nelle mani delle classi lavoratrici insorte, all’oggetto di trionfare della resistenza dei nemici e d’instaurare il nuovo ordine sociale” . Anche se Andrea Costa è ancora lontano dalla scientifica chiarezza delle tesi marxiste sullo Stato e la dittatura proletaria, la rottura con le posizioni classiche dell’anarchismo è ormai totale e irreversibile.

 

Il programma del Partito Socialista Rivoluzionario  

In ottemperenza a quanto stabilito dal congresso di Rimini, nel settembre appare in un supplemento de l’Avanti!, il nuovo organo settimanale del partito, il programma del PSR. Il testo, unanimemente considerato dalla critica storica come il miglior programma rivoluzionario apparso in Italia fino a quel momento, colpisce  per l’organicità e la chiarezza di contenuti. Nonostante la redazione sia opera di una commissione la mano di Costa si fa sentire nei passaggi più importanti e nel tono complessivo del documento che espone rivestendoli ancora  del linguaggio emotivo proprio dell’anarchismo temi fondamentali del marxismo. Nonostante il programma non approfondisca l’analisi del modo di produzione capitalistico e dedichi largo spazio ai caratteri etici del socialismo, è comunque chiaramente avvertibile nel testo  l’influenza dei socialdemocratici tedeschi e dei socialisti francesi che rappresentano a quel momento le esperienze politicamente più avanzate del movimento operaio a livello continentale e a cui Costa e il gruppo de La Plebe fanno sempre più riferimento. Colpisce in particolare la riproposizione, crediamo in assoluto per la prima volta nel movimento operaio italiano, della fondamentale tesi marxista della distinzione fra una fase iniziale  del socialismo ed una definitiva e più compiuta fase comunista in cui a ciascuno sarà dato secondo le sue necessità indipendentemente dalla quantità di lavoro prodotta.  Ma come affrontare la questione sociale senza cadere in uno sterile verbalismo o in un “evoluzionismo”, oggi diremmo “riformismo”, senza prospettive? La risposta è netta e non lascia margini di ambiguità. Per Costa e i suoi compagni l’unica soluzione alle contraddizioni della società capitalistica risiede nella rivoluzione, “fatalità storica inevitabile” in quanto quotidianamente alimentata dall’evolversi della società stessa. Una rivoluzione opera diretta delle masse proletarie , principali artefici della propria liberazione, che tuttavia per affermarsi richiede l’azione instancabile del partito che deve “rendere cosciente” agli sfruttati i processi in atto, chiarirne le contraddizioni, spiegarne la direzione, additarne gli esiti. Un partito, quindi, che non si sostituisce alle masse come la setta rivoluzionaria nella vecchia teoria bakuninista, ma che svolge con tenacia una quotidiana, faticosa,  indispensabile opera di stimolo e di guida del proletariato. Coerentemente con questa visione della natura e della funzione del partito operaio il programma esprime un giudizio ormai totalmente critico sulla “propaganda dei fatti” ad opera di piccoli gruppi o di individui isolati. La rivoluzione è  un fatto di massa, per questo compito prioritario del partito è raggruppare attorno a se la “parte più intelligente  ed energica del proletariato”. Fondamentale diventa allora la costruzione di circoli operai e di leghe di resistenza. Le lotte rivendicative, così come le riforme, non hanno valore in se, ma nella misura in cui agevolano la presa di coscienza delle più vaste masse proletarie e l’organizzazione attorno al partito di un saldo nucleo d’avanguardia. In quest’ottica si può ammettere anche la partecipazione alle elezioni, politiche ed amministrative, argomento fino ad allora tabù per i rivoluzionari. Su questo punto il programma è estramemente chiaro. Le elezioni sono una preziosa occasione di propaganda che deve assolutamente essere colta. L’obiettivo è di “porre al Parlamento candidature di protesta, non perché i nostri vadano colà a sommergersi , ma per dare loro occasione di svolgere il nostro Programma nei Comizi elettorali e per porgere, in forma viva, la questione sociale”.

Il programma del PSR riscosse un notevole successo, costringendo i vari gruppi che facevano riferimento al socialismo a pronunciarsi in merito ai temi sviluppati nel documento. I giudizi furono complessivamente favorevoli, anche se non mancarono prese di distanza. Così La Plebe, che pure da sempre intratteneva stretti e cordiali rapporti con i romagnoli, criticò duramente il concetto di “dittatura delle classi lavoratrici”, considerandolo troppo autoritario. Costa rispose precisando che il termine di dittatura altro non voleva significare che l’inevitabile e naturale uso della forza da parte del proletariato in tempo di rivoluzione. Fondamentale era per i socialisti di Romagna differenziarsi nettamente dai moderati, chiarendo che l’accettazione della lotta politica e del terreno elettorale non significava in alcun modo condividere le posizioni degli “evoluzionisti”. In modo fermo Costa rifiutava la definizione di “legalitario” che alcuni ambienti socialisti intendevano affibbiare al suo partito, ribadendo il concetto che “non si può essere socialista senza essere rivoluzionario” e che proprio da tale affermazione programmatica il PSR derivava il suo nome.

 

Intanto anche per merito di questa discussione in molte località, anche al di fuori della Romagna, nascevano sezioni del partito, mentre l’ Avanti! diveniva l’organo socialista più diffuso raggiungendo le 7000 copie di tiratura. Da molte località, tra cui  Milano, Pavia, Firenze, Siena, Livorno, Pistoia, Roma, Napoli e persino da un gruppo di lavoratori immigrati nella lontanissima Alessandria d’Egitto, continuavano a giungere adesioni di gruppi interi e di singoli militanti tanto da illudere il pure prudente Costa che i tempi fossero ormai maturi per la costruzione del partito su scala nazionale secondo un progetto  che prevedeva la formazione dapprima di forti partiti regionali e la loro successiva federazione in un unico grande partito socialista rivoluzionario italiano.             

 

2. Il Partito Operaio Italiano

La riforma elettorale e la nascita del Partito Operaio Italiano

Questo fervere di iniziative era in realtà la manifestazione di un più profondo e complessivo processo di trasformazione della vita politica italiana innescato dai grandi cambiamenti in atto nella società. La riforma elettorale del De Pretis del 1882, determinando un consistente allargamento del suffragio, contribuiva oggettivamente a spingere le organizzazioni operaie a uscire dalla tradizionale tattica astensionista e agevolava l’azione di chi, anche al di fuori del PSR, riteneva ormai esistessero le condizioni per un’autonoma presenza operaia all’interno delle istituzioni borghesi. E’ il caso di  Milano dove, nel maggio 1882, il Circolo Operaio, principale forza organizzata in ambito proletario, aveva deliberato di partecipare alle elezioni politiche e di chiamare  alla costituzione di un Partito Operaio Italiano (POI) che sapesse difendere in maniera del tutto indipendente dalla sinistra borghese gli autonomi interessi proletari anche sul terreno elettorale. Tuttavia, il programma del nuovo partito, nonostante il forte accento posto sulla necessità della lotta economica contro il capitale, non andava molto al di là di un vago socialismo dagli echi ancora risorgimentali. In particolare si rivendicava il suffragio universale, la libertà di stampa e di associazione, il riconoscimento giuridico delle società di mutuo soccorso senza ingerenze governative, l’istituzioni di scuole professionali gratuite, laiche e obbligatorie, la libertà di insegnamento, l’abolizione dell’esercito permanente e la sua sostituzione con una milizia popolare, l’autonomia comunale, l’abolizione delle imposte indirette in favore di un’unica imposta diretta fortemente progressiva, la laicità dello stato e l’assoluta, incondizionata, libertà di sciopero. Il POI, che a differenza del PSR ammetteva fra i suoi membri solo lavoratori manuali, tendeva ad assomigliare più ad un sindacato che a un partito politico e con un certo successo, se si considera l’immediata apertura di sezioni a Torino e Genova e la vasta diffusione in tutta l’Italia del nord dell’organo di partito, Il fascio operaio. Mentre, o forse proprio per questo, sul   piano  elettorale, a differenza del PSR che anche grazie al patto di unità d’azione stretto con i repubblicani era riuscito a far eleggere Andrea Costa alla Camera, gli operaisti non andarono oltre a un magrissimo risultato. Sta di fatto, comunque, che per la prima volta nella regione più industrializzata d’Italia  era apparso sulla scena politica un partito che, nonostante un programma in gran parte simile a quello della democrazia radicale, intendeva caratterizzarsi come un’organizzazione di classe, operaia, antiborghese. Un partito che, a differenza degli effimeri cartelli elettorali progressisti destinati a sciogliersi una volta terminata la conta dei voti, affermava con orgoglio la sua volontà di sviluppare un lavoro di lunga lena finalizzato alla costruzione di una grande federazione di leghe di resistenza. Un partito diverso dagli altri in quanto…”la diversità con gli altri partiti sta in ciò che questi ultimi, finita la campagna elettorale (…) si avvolgono nella cappa del silenzio lasciando ovunque il tempo che trovano; il partito operaio, invece, resta permanente perché essendo tutti i giorni sfruttato ed umiliato nei suoi singoli individui, giornalmente deve combattere sulla breccia, per la rivendicazione di tutto ciò che gli spetta"”

 

La crescita del movimento socialista

Anche una rapida analisi dello stato delle forze operaie organizzate dimostra come la crescita del movimento socialista non fosse un fenomeno effimero legato alla particolare situazione determinata dalla tornata elettorale del 1882, ma una tendenza ormai inarrestabile. Nel 1883 il Partito socialista Rivoluzionario poteva contare nella sola Romagna  sezioni in più di 60 località con oltre un migliaio di aderenti, mentre a Roma Andrea Costa sviluppava un fervente attività di organizzazione della locale Federazione Operaia a cui univa una instancabile attività di conferenziere in giro per l’Italia. Utilizzando da rivoluzionario conseguente il mandato parlamentare e le sue prerogative, circolazione gratuita sulla rete ferroviaria e tutela dalle angherie poliziesche, egli sviluppava un paziente lavoro di diffusione dei principi socialisti e di ricucitura di una fitta trama di relazioni fra gruppi locali e singoli militanti operai. Il tutto finalizzato alla costruzione di un’unica grande organizzazione politica proletaria a livello nazionale di cui si ritenevano ormai mature le condizioni, come decise il II Congresso del PSR che nell’autunno di quello stesso anno chiamava alla convocazione a scadenza ravvicinata di un congresso dei socialisti italiani. Cresceva intanto l’area di influenza del partito che dal 1884 poteva contare su di un secondo deputato, l’ex garibaldino covertito al socialismo Luigi Musini. Il PSR abbandonava le sue caratteristiche di partito regionale costruendo sezioni a Bologna, nel Parmense e in parte del Veneto (Padova e Rovigo).  A Milano e in Lombardia, ma con consistenti appendici in Piemonte e Liguria, si sviluppavano nel frattempo le leghe di resistenza de I Figli del Lavoro, animate dai militanti del Partito Operaio. Il Fascio operaio, organo del partito, diffondeva mediamente fra le 1500 e le 2000 copie nella sola Lombardia, ma il numero delle persone toccate costantemente dalla propaganda operaista era di molto superiore avvicinandosi alle 15000. Nell’estate del 1884 la Lega figli del lavoro di Milano e la Società figli del lavoro di Legnano e altri centri minori si riunirono a congresso costituendo la Federazione regionale Alta Italia del POI e chiamando tutte le società operaie a rompere con la sinistra radicale accettando come membri solo lavoratori manuali e a unirsi in un’unica grande federazione operaia. Un partito costituito di soli operai, organizzati su base di mestiere, “arte per arte”, da cui sono esclusi per statuto gli artigiani, i piccoli proprietari agricoli (a meno che non svolgessero anche attività bracciantile) e nelle fabbriche tutti quei salariati che avessero a qualunque titolo compiti di direzione o di controllo di altri lavoratori. Un partito che destinava interamente le quote dei propri militanti (pari a 10 centesimi per ogni socio delle società affiliate) alla costituzione di un fondo di resistenza destinato a sostenere gli scioperi indetti da quelle stesse società affiliate. Nel dicembre 1885, qualche mese il grande sciopero agricolo de La boje che in alcune località aveva assunto toni insurrezionali, il Partito tenne a Mantova, epicentro dell’agitazione, il suo secondo congresso adunando i rappresentanti di ben 132 società operaie e adottando un ordine del giorno conclusivo in cui si affermava che la soluzione del tragico problema della disoccupazione  alla base dei recenti moti bracciantili poteva trovare soluzione solo colla “emancipazione completa dei lavoratori, cioè quando il capitale, le terre e gli strumenti del lavoro siano diventati proprietà comune dei lavoratori”. Nello stesso documento si riconosceva che nella riduzione dell’ orario di lavoro e nell’abolizione del lavoro a cottimo risiedeva un mezzo potente di difesa delle condizioni operaie che i lavoratori organizzati nelle loro leghe di resistenza dovevano sapere imporre al padronato. Il congresso, infine, ribadiva la decisione di partecipare alla lotta politica, lasciando ampia libertà di azione alle sezioni, ma riaffermando con forza il rifiuto di ogni compromesso o alleanza con la borghesia radicale. “Il partito operaio – si affermava nel manifesto – parteciperà alla lotta pubblica all’infuori di qualunque partito borghese”.

 

Potenzialità e limiti dell’operaismo

Nei primi giorni di gennaio del 1885 il quinto congresso della Confederazione operaia lombarda registra il successo politico degli operaisti che assumono il controllo della Commissione direttiva di quella che di fatto era la principale organizzazione operaia italiana. Per il gruppo dirigente del POI il risultato del congresso di Brescia dimostra che i tempi sono  ormai maturi per la costituzione formale del partito. Il 12 aprile a Milano e qualche settimana dopo a Torino i rappresentanti delle società operaie affiliate alla Lega dei “Figli del lavoro” costituiscono ufficialmente il Partito Operaio Italiano, chiudendo così la lunga fase di gestazione iniziata quattro anni prima. In realtà l’attività del partito non subirà nessun particolare mutamento: anche dopo la sua formale costituzione il POI resta più una federazione di associazioni operaie impegnate in un’intensa attività di organizzazione sindacale che un partito politico vero e proprio, tanto che per chi oggi si dedichi a ricostruirne la storia è difficile persino capire se nelle agitazioni operaie i militanti del POI, che pure vi svolgono un ruolo centrale, intervengano come esponenti del partito o a titolo meramente individuale. Di certo il partito, proprio perchè non seppe orientarsi verso il marxismo che faticosamente proprio in quegli anni stava penetrando nel movimento operaio italiano, non si pose mai concretamente il problema dell’organizzazione  della classe sul terreno della politica complessiva e di conseguenza mai definì con chiarezza il problema dei rapporti con lo Stato borghese e i suoi apparati. Nonostante il suo indubbio sviluppo, in pochi mesi i membri delle società “federate” al POI superano i 30 mila, il partito non va oltre all’obiettivo di organizzare “le falangi del proletariato” su base di mestiere: “arte per arte”. Mai in tutta la sua storia il POI si pone il problema della conquista e della gestione del potere. Nonostante questi limiti, il Partito Operaio ha comunque il grande merito di avere con decisione operato per sottrarre la classe operaia  all’egemonia politica della piccola borghesia radicale e di avere in tal modo potentemente contribuito allo sviluppo di una coscienza di classe nel proletariato. Resta però il fatto che la mancata definizione di una più complessiva prospettiva politica impedì al partito di costruire un’efficace struttura organizzativa che desse gambe reali al processo di unificazione della classe sul terreno dell’autonomia proletaria. In tale situazione, la sempre riaffermata delimitazione di classe, per cui al partito possono aderire solo lavoratori manuali, si trasforma paradossalmente da  strumento di difesa del carattere  proletario del partito in limite grave, elemento di rigidità che impedisce il pieno e proficuo dispiegarsi delle potenzialità che pure il Partito Operaio il larga misura possiede. Gli operai che dirigono il POI non comprendono che la garanzia del carattere di classe del partito non è data semplicemente dall’origine sociale dei membri, ma si colloca prima si tutto sul terreno del programma. Il rifiuto del marxismo, il non sapere uscire da una visione che riduce lo scontro di classe alla battaglia interna alla fabbrica  segnano dunque profondamente  la vita del Partito e permettono anche di comprendere perché il POI non riesca nell’intera sua storia a ottenere sul piano politico, e di riflesso su quello elettorale, risultati anche minimamente paragonabili a quelli dei socialisti romagnoli. E questo pur operando in una Milano sempre più cuore pulsante di un capitalismo italiano giunto ormai alla maturità imperialistica. Espressione semispontanea di una classe operaia in formazione, il Partito Operaio non sa distaccarsi da una visione che,

teorizzando la centralità della fabbrica, sottovaluta il problema dello Stato, riducendolo semplicisticamente al rapporto con il magistrato ed il gendarme. Il che fa si che il partito viva in uno stato di crisi permanente, non determinandosi mai risultati corrispondenti alle attese e all’effettivo radicamento nella classe. Di tale crisi si fa carico nel novembre 1890 il Quinto Congresso che registra il fallimento del modello di partito-sindacato fino ad allora praticato e inizia a dibattere come separare gli ambiti: alle grandi società di mestiere, riunite in Camere del Lavoro, il compito di organizzare la lotta economica, al partito il lavoro di propaganda e di indirizzo. Ma a questo punto il POI è ormai di fatto una delle correnti del nascente Partito dei Lavoratori.

 

3. La crisi del Partito  Socialista Rivoluzionario

 

Il primo congresso del Partito socialista rivoluzionario italiano

Come si è visto una delle principali differenze fra i socialisti costiani e gli operaisti lombardi consisteva proprio nella accettazione da parte dei primi di una politica di alleanza elettorale con le forze della sinistra borghese ed in particolare con i gruppi repubblicani assai forti in Romagna. Proprio su questo terreno si era consumata la rottura con il movimento anarchico che imputava a Costa l’abbandono di una posizione classista intransigente in favore di un atteggiamento legalitario ed evoluzionista e proprio per discutere di questi temi si tenne a Forlì nel luglio 1884 il terzo congresso del Partito socialista rivoluzionario di Romagna. Gran parte dei lavori del congresso fu dedicata alla definizione dell’atteggiamento da prendere rispetto al cosiddetto Fascio della democrazia, l’associazione dei radicali che dopo le elezioni del 1882 aveva preso il posto della Lega della democrazia di origine mazziniana e garibaldina. Nonostante le critiche degli esponenti del POI che lo accusavano di trasformare il Partito socialista in un partito parlamentare, Costa si rendeva perfettamente conto dell’insidioso tentativo dei radicali di recuperare politicamente il movimento operaio, trasformando le nascenti organizzazioni proletarie in un’appendice della democrazia borghese. Altrettanto chiara restava però la comprensione dell’estrema complessità della fase attraversata e della necessità per il movimento operaio di non rompere totalmente con il campo radicale. Almeno fino a che non si fosse raggiunto un punto più avanzato di consolidamento politico ed organizzativo delle forze socialiste. Fino a quel momento l’alleanza tattica con i radicali andava mantenuta, ma con tutte le precauzioni del caso. Dopo un vivacissimo dibattito non privo di aspre polemiche il congresso deliberò la partecipazione critica delle organizzazioni del partito al Fascio della democrazia, mantenendo però la più completa libertà d’azione e non rinunciando a sostenere fino in fondo il proprio autonomo punto di vista socialista sia per quanto riguardava le questioni economiche che per quelle politiche. Su insistenza di Costa e Musini il congresso deliberò anche di assumere il nome di Partito socialista rivoluzionario italiano, proprio al fine di rispondere all’esigenza di unità che pareva con forza provenire dal basso. A tal fine venne deliberato di organizzare quanto prima un congresso costitutivo nazionale in Roma a cui invitare i gruppi socialisti di tutta Italia. Alleanza tattica con la sinistra borghese e costruzione di un autonomo partito di classe su scala nazionale queste le coordinate entro cui si compendia alla fine del 1884 l’azione politica costiana. Un amalgama di difficile gestione come i fatti avrebbero presto dimostrato.

 

La dissoluzione del Partito Socialista Rivoluzionario

Di fronte allo sviluppo del Partito Operaio che alla metà degli anni ’80 sembra  essere in grado di radicarsi in profondità anche nelle masse bracciantili del Parmense e del Mantovano fino ad allora campo d’azione dei socialisti rivoluzionari, Andrea Costa inizia a considerare la possibilità che la costruzione su scala nazionale del Partito socialista rivoluzionario debba necessariamente passare attraverso la fusione del PSRI con il POI. Così, nell’aprile del 1885, la Commissione federale del Partito Socialista Rivoluzionario invia un caldo saluto al Congresso del POI, auspicando una prossima fusione dei due partiti. In realtà, al di là delle frasi di circostanza, le differenze fra le due organizzazioni permanevano profonde e non si trattava solo di questioni organizzative. Nel programma del Partito Operaio mancava completamente ogni accenno, anche gradualista o riformista,  al socialismo: scopo del partito era “ottenere un reale e positivo miglioramento economico, a ciò che tutti i lavoratori possano raggiungere la loro emancipazione”. Ma neppure una parola era dedicata a chiarire meglio di quale emancipazione si trattasse. Ciononostante, pur provenendo da una esperienza politica diversissima, Costa appare affascinato dalla forza del Partito Operaio, che come abbiamo visto in quel momento parlava a nome di decine di migliaia di operai membri delle leghe affratellate. Così, invece che evidenziare i limiti politici degli operaisti e il loro sostanziale economicismo, egli riprende la tesi caratteristica del POI di un partito capace di essere al tempo stesso  organizzazione politica e lega di resistenza. Sfugge a Costa, che pure in questi anni si era sensibilmente avvicinato al marxismo, il fatto che, a differenza del sindacato tenuto assieme dal collante oggettivo degli interessi economici immediati, il partito di classe si caratterizza per il programma, cioè per una più generale visione del mondo che trascende la contingenza. Accade così - e sarà una costante nella storia del socialismo  e poi del comunismo in Italia da Costa a Bertinotti, passando per Gramsci e la cosiddetta “nuova sinistra” degli anni ‘70 – che in nome di un esasperato pragmatismo dovuto all’ansia di costruire hic et nunc “il partito di massa”, si sostituisca ad un lavoro in profondità di analisi e di intervento sulle tendenze spontaneamente emergenti a livello di classe l’esaltazione della contingenza, il tatticismo politico, l’improvvisazione organizzativa.  Invece di un processo lungo e faticoso di accumulo di forze a livello politico, teorico ed organizzativo, la costruzione del partito è concepita pressocchè esclusivamente a livello ideologico-politico, come una serie di pronunciamenti verbali e di svolte tattiche ciascuna delle quali considerata risolutiva. Manca in sostanza ai padri fondatori del socialismo italiano – da Costa a Turati a Labriola che pure fu eminente marxista -    quella visione dialettica della prospettiva che quasi nello stesso periodo porterà  Lenin ad analizzare in profondità lo sviluppo del capitalismo in una Russia da tutti considerata arretrata e semi-feudale e ad impostare sulle risultanze scientifiche di tale ricerca gli assi di costruzione del partito e la concreta definizione del “che fare”. 

Il problema dei rapporti con il Partito Operaio fu al centro del IV Congresso del PSR (di fatto il II del PSRI) che si svolse a Mantova nell’aprile del 1886 radunando delegati provenienti oltre che dalla Romagna, dall’Emilia (Mantova,  Parma e Reggio), dal Piemonte (Torino, Asti, Alessandria), dalla Liguria (Genova e Sanremo), dal Veneto (Rovigo), dalla Toscana (Livorno) e dall’Italia centro-meridionale (Roma, Napoli, Brindisi e Palermo). Si tratta, dunque, del primo congresso a carattere realmente nazionale di un partito, il PSRI, che al di là del nome aveva fino ad allora mantenuto un impianto prevalentemente limitato alla Romagna. Ma proprio questo risultato, tenacemente perseguito dal Costa e che appariva finalmente raggiunto, doveva paradossalmente evidenziare la debolezza del partito e le numerose contraddizioni irrisolte che questo si portava dietro fin dalla sua fondazione. Intanto lo scopo centrale del congresso – l’unificazione o almeno il raggiungimento di una larga unità d’azione con il POI – non fu raggiunto e non solo per la manifesta indisponibilità dei lombardi. Fatto ben più preoccupante la crescita del partito, che pure c’era stata e aveva spinto Costa a bruciare le tappe della costruzione del partito nazionale, apparve più un fatto numerico che organizzativo. Il PSRI aveva moltiplicato le sezioni, costruendo legami con i gruppi più disparati dispersi ai quattro angoli d’Italia, ma a scapito della chiarezza politica e nell’assoluta mancanza di una rete organizzativa che permettesse poi la gestione centralizzata e unitaria delle forze così largamente raccolte. Al congresso di Mantova apparve chiaro che non solo non esisteva un progetto organizzativo vero e proprio, ma che anche sul piano programmatico l’identità del partito tendeva ad appannarsi parallelamente al dilatarsi della sua presenza sul territorio nazionale e sempre più si riduceva al mero rapporto che i singoli gruppi locali avevano stretto con la figura carismatica di Costa.  Un partito, dunque, privo di una identità definita, contenitore di istanze diversissime e fortemente connotate in senso localistico. Un partito più grande sul piano numerico e più influente sul terreno elettorale, ma molto fragile sul piano teorico ed organizzativo. Lo stesso accresciuto peso elettorale, frutto anche del patto d’unità d’azione con la democrazia radicale che imponeva vincoli all’azione parlamentare e amministrativa del partito, creava oggettivamente le condizioni di una crescente divaricazione fra le aspettative e i comportamenti di una base, fatta prevalentemente di braccianti e di piccoli artigiani in rovina, tanto combattiva quanto politicamente primitiva e le complesse - e spesso per questa base incomprensibili - tattiche portate avanti dagli eletti.

In queste condizioni a far funzionare il partito non poteva di certo bastare il carisma e la capacità di mediazione di Andrea Costa. Pochi mesi dopo la conclusione del congresso, nell’agosto del 1886, la Commissione Federale che dirigeva il partito si dimetteva in blocco denunciando l’impossibilità di svolgere a pieno il proprio mandato a causa della “nessuna cooperazione di coloro che pure avrebbero dovuto e potuto aiutarci, l’apatia, l’insofferenza generale contro cui ogni energia vien meno, ogni buona volontà è inutile”. Questo documento rappresenta l’atto di morte del PSRI che di fatto rapidamente si dissolse come organizzazione unitaria. Il congresso, immediatamente convocato per procedere alla riorganizzazione del partito, non si tenne mai. Gran parte delle sezioni al di fuori della Romagna, venute al partito negli ultimi due anni, interruppero quasi totalmente i rapporti con il centro. Molti gruppi in Piemonte e Liguria passarono al POI che pure, come abbiamo visto, soffriva degli stessi mali. Di fatto, almeno dalla fine del 1886, diventava impossibile parlare di un Partito Socialista Rivoluzionario Italiano come di un organismo realmente esistente e operante. Il partito, che formalmente continuava ad esistere, era tornato ad essere poco più di una corrente di idee e un’insieme di gruppi federati  su direttive generiche, uniti soltanto  da un comune riferimento al ruolo parlamentare svolto dal Costa. Anche nell’ambito romagnolo, vero nocciolo duro del partito, il PSR era praticamente soltanto più una sigla che copriva le iniziative di una miriade di circoli e di associazioni locali. Paradossalmente, almeno in Romagna, questa situazione non significava la scomparsa del partito. Espressione di una base “fluttuante”, legata alla precarietà del lavoro bracciantile e delle grandi opere pubbliche di bonifica delle paludi, il partito avvertiva meno la necessità di una stabile struttura organizzativa e di un centro autorevole. Ma il proletariato industriale delle fabbriche di quello che si avviava a diventare il “triangolo industriale”, non più legato al carattere stagionale del lavoro bracciantile o all’individualismo tipico del piccolo artigiano, necessitava di altri strumenti. A questa richiesta né l’operaismo economicista del POI né il movimentismo localistico del PSR erano in grado di dare risposte. I tempi erano maturi per il partito, ma i gruppi che per un decennio si erano battuti per costruirlo apparivano ormai più un retaggio del passato, sia pure di un passato eroico, che il simbolo del nuovo che tuttavia da ogni lato premeva. 

 

Epilogo

Nonostante questa situazione, Andrea Costa continuò con tenacia il suo lavoro. Già nel 1885 in Parlamento aveva richiesto con forza il richiamo delle truppe dall’Africa e si era opposto con coraggio alle avventure coloniali del governo Depretis. Nel 1887, all’indomani del massacro di Dogali, egli rinnovò con coraggio la sua condanna del colonialismo, presentando un ordine del giorno in cui si affermava che “il prestigio militare e l’onore della bandiera sono i soliti pretesti con cui tutti i governi cercano di far passare le loro imprese criminali o pazze”. Rifiutando il voto alla richiesta del governo di un nuovo credito per inviare in Africa nuove truppe, Costa lanciava una parola d’ordine destinata a diventare celebre: “Per continuare le criminose pazzie africane noi non daremo né un uomo, né un soldo”. Denunciato, condannato, costretto ad un nuovo esilio in Francia, egli continua a perseguire il progetto di costruzione di un vero partito socialista rivoluzionario su scala nazionale. Ma senza risultati apprezzabili. Anche il congresso svoltosi a Ravenna alla fine del 1890, nonostante le entusiastiche proclamazioni, di fatto non andò oltre, come  il quasi contemporaneo congresso del POI, alla enunciazione scontata della necessità di convocare al più presto un convegno nazionale.  Pure, in questa situazione di sostanziale immobilismo qualcosa di nuovo era accaduto. Largo spazio era  stato concesso nell’ambito dei lavori congressuali alla lettura di un messaggio di solidarietà inviato, a nome di una da poco costituita lega Socialista Milanese considerata da tutti assai vicina alle posizioni dei socialdemocratici tedeschi e del vecchio Engels, da un giovane Filippo Turati, da poco passato dalla scapigliatura letteraria alla militanza di classe. Andrea Costa e i delegati romagnoli non potevano saperlo, ma sotto i loro occhi era avvenuto un ideale passaggio di consegne. Il partito tanto atteso e così tenacemente voluto sarebbe nato prima di quanto sperato, ma Andrea Costa, che forse più di tutti si era speso per costruirlo, non sarebbe stato fra i suoi fondatori.

 

4. Filippo Turati,  la “Critica Sociale” e Antonio Labriola

Nella seconda metà degli anni Ottanta la teoria marxista, fino ad allora pressocchè quasi sconosciuta, conosce una rapidissima diffusione in Italia sia nell’ambito del movimento operaio che dello stesso mondo accademico ufficiale. Nel 1886, sette anni dopo la pubblicazione del “Compendio” del Primo Libro redatto da Carlo Cafiero, esce la prima traduzione integrale del “Capitale”. Due anni più tardi viene pubblicato “Il Manifesto del partito comunista”, mentre nel 1890 Antonio Labriola, ormai in piena rottura col radicalismo,  inizia a tenere presso l’università di Roma le sue lezioni sul materialismo storico. Tra il 1888 e il 1890 appaiono traduzioni di scritti di Marx, Engels, Kautsky, Lafargue e Plechanov e larga diffusione hanno articoli e opuscoli che riprendono le posizioni del Partito operaio francese e del Partito socialdemocratico tedesco. Tutto questo fervore di iniziative non manca di avere benefici effetti sul movimento operaio italiano, costretto dalla necessità di confrontarsi con le nuove idee provenienti d’oltralpe a rompere  con il municipalismo  e   l’operaismo   che tanto pesantemente ne avevano segnato i primi tentativi di organizzazione politico-sindacale. Filippo Turati è l’uomo che incarna questo passaggio. Di formazione culturale positivistica, proveniente come buona parte dei militanti della sua generazione dal radicalismo post-risorgimentale, assieme ad Anna Kuliscioff, esperta conoscitrice dei testi marxiani e del dibattito internazionale, egli fonda la Lega socialista milanese con il preciso intento di favorire la sprovincializzazione del movimento operaio italiano. Centrale in questo progetto è la rivista la “Critica sociale” che in brevissimo tempo diventa un fondamentale punto di riferimento per quanti, consapevoli della necessità che anche in Italia si proceda speditamente sulla via della costruzione del partito sul modello tedesco, cercano un’ispirazione per l’azione politica quotidiana in grado di andare al di là delle ormai annose dispute che travagliano il campo socialista. In questa battaglia la “Critica sociale” funge da luogo di incontro, stanza di compensazione, fra lo spontaneo movimento di lotta e di organizzazione della classse operaia e la coscienza socialista degli intellettuali più avanzati,  sede di dibattito privilegiata e, come affermerà lo stesso Turati, “scuola collettiva” per i quadri della futura organizzazione politica. Certo, Turati non è un marxista ortodosso e la sua visione del socialismo risente, anche nei suoi interventi migliori, di un gradualismo di fondo che sotto la copertura di una “intransigenza” formale di fatto segnerà profondamente in senso riformistico il nascente partito socialista. Così come profonde sono le differenze con l’altro grande esponente del socialismo italiano di quell’epoca, quell’Antonio Labriola  che mai ne accetterà la direzione politica sul movimento, tanto da scrivere ad Engels all’indomani del Congresso di Genova, a cui rifiuta di partecipare, per denunciarne il carattere “ambiguo, equivoco, elastico”.  Labriola, che pure acutamente coglieva l’eclettismo del socialismo milanese, restava tuttavia prigioniero di una visione rigorosa, ma astratta, del partito, mancandogli l’esperienza viva a contatto quotidiano con la classe  operaia che invece rappresenta il retroterra dell’azione turatiana. Per questo, pur raggiungendo livelli di assoluta eccellenza nell’elaborazione teorica, tanto da rappresentare un punto di riferimento fondamentale per un’intera generazione di quadri marxisti e non solo in Italia, basti pensare  a Trotsky che ne “La mia vita” riconoscerà l’influsso determinante del filosofo italiano nella sua formazione, egli non riuscirà mai a giocare un ruolo politico di un qualche rilievo nel movimento  socialista. Espressione dell’area socialmente ed economicamente più moderna del paese,  Turati è il primo fra gli esponenti socialisti italiani a cogliere a fondo la necessaria dimensione internazionale del nuovo movimento operaio in gestazione in tutta Europa. Lo troviamo così, agli inizi del 1891, a rappresentare il proletariato italiano al Congresso di Bruxelles della neocostituita Seconda  Internazionale. Esperienza fondamentale che lo convince della necessità e dell’inevitabilità, pena l’emarginazione del socialismo italiano dal contesto del movimento operaio internazionale, della rottura con gli anarchici, superando in tal modo definitivamente le esitazioni che per oltre un decennio avevano reso incerta l’azione politica di Costa.

 

Il giornale nazionale come organizzatore collettivo

Preparato da almeno un anno di intenso lavoro di ricucitura fra i vari gruppi da parte della Lega socialista di Filippo Turati, il 2-3 agosto 1891 nella sede del Consolato operaio di Milano si tiene il “congresso operaio italiano” con rappresentanze di tutte le principali correnti del movimento socialista e radicale, comprese quella anarchica e quella repubblicano-collettivista. La gestione dei lavori congressuali risultò fin da subito difficile per l’eterogeneità dei partecipanti e per la violenta opposizione degli anarchici e di parte degli operaisti alla definizione di un chiaro piano di azione politica del proletariato e alla costituzione di un partito dei lavoratori che fosse qualcosa di più di una semplice federazione di società operaie. Nonostante questo, grazie al paziente e tenace lavoro di mediazione svolto da Turati e dagli altri esponenti della “Critica sociale” il congresso si concluse con l’approvazione di uno Statuto e di un Programma comune e con la convocazione di lì a un anno di un nuovo e questa volta definitivo momento di dibattito per verificare l’esistenza delle condizioni minime per la costituzione di un’organizzazione politica nazionale della classe operaia. Uscire dal ristretto ambito delle lotte corporative, unificare la classe su scala italiana, costruire un giornale nazionale capace di fungere da organizzatore collettivo, fondare il partito di classe: questi i problemi fondamentali che si pongono in quel momento i militanti d’avanguardia e non solo in Italia, basti pensare al “Progetto di programma del Partito Operaio Socialdemocratico Russo” scritto in carcere da Lenin a cavallo fra il 1895 e il 1896. Quello che distingue il movimento operaio italiano è semmai la confusione teorica e il pressapochismo organizzativo contro cui, come si è visto, tentano da angolazioni diverse e con differenti strumenti di battersi sia la “Critica sociale” che Antonio Labriola.

In preparazione del congresso il 31 luglio a Milano esce il primo numero del settimanale “Lotta di classe, Giornale dei lavoratori italiani”, con a grandi lettere sulla testata riportato il motto di Marx “Proletari di tutti i paesi unitevi!” Diretto nominalmente da Camillo Prampolini, ma di fatto redatto principalmente da Turati e dalla Kuliscioff, il giornale mostra fin dai primi numeri un respiro assai più largo dei fogli socialisti dell’epoca, una capacità nuova di abbracciare interessi e temi non soltanto locali e di parlare un linguaggio comprensibile a tutti i proletari qualunque fosse il loro ambito di lavoro o il luogo di residenza. Con grande chiarezza il settimanale riassumeva i caratteri specifici del movimento socialista nella lotta per la socializzazione dei mezzi di produzione da ottenersi mediante la conquista del potere politico. A questo proposito l’editoriale del primo numero, dopo aver tributato il giusto riconoscimento al valore dell’attività svolta dal vecchio Partito Operaio, scriveva:

“Gli scioperi, le organizzazioni di resistenza, le cooperative , ecc., sono eccellenti mezzi di agitazione, eccellenti mezzi di reclutamento per formare l’armata proletaria, ma guai al movimento operaio, guai all’avvenire della classe operaia se essa pone in questi mezzi tutta la sua speranza, i suoi scopi finali (…) La radice di tutte le vessazioni, di tutti gli abusi, per i quali il salariato è una nuova forma dell’antica schiavitù, deve trovarsi nel monopolio dei mezzi di produzione e nella direzione della società nelle mani di privilegiati. La socializzazione di questi mezzi è la soluzione del problema. Trascurando questo scopo, la questione operaia resta una semplice questione borghese, una piccola questione di accomodamento fra i servitori e i padroni. Questo è il metodo con cui i padroni hanno interesse a considerarla”.

Nonostante il linguaggio usato non abbia l’incisività e il rigore scientifico delle pagine leniniane, la messa in guardia contro una visione meramente tradeunionistica della lotta di classe è chiarissima, come in modo nettissimo è espressa l’esigenza che il giornale nazionale funga da organizzatore collettivo della classe.

 “La questione operaia, come questione soltanto a sè, nel suo piccolo significato, nel suo significato borghese, è stata abbandonata per sempre: si è capito che la questione separata e allontanata dall’ideale socialista è un controsenso; si è capito che il movimento operaio e il socialismo sono due aspetti di un medesimo fenomeno: il primo è il fatto, il secondo la coscienza, l’anima del fatto: separarli vuol dire distruggerli (…) Quest’opera di fusione, di elaborazione coscienziosa, questa opera di educazione e di vivificazione del partito, non può essere completa se al lavoro particolare, anche nei giornali secondari, non si aggiunge per completarlo e coordinarlo il lavoro di un organo centrale che non sia il giornale di una o di un’altra città, di uno o di un altro mestiere, ma sia il giornale del partito stesso.”

 

Il congresso di Genova

 

In esecuzione del mandato del congresso milanese dell’anno precedente il 14 agosto 1892 si riuniscono a Genova, alla Sala Sivori, oltre 400 rappresentanti di società operaie, leghe di resistenza, cooperative, comitati elettorali, circoli socialisti, repubblicani e anarchici. Sono presenti, con l’eccezione clamorosa di Antonio Labriola che snobba il congresso non considerandolo sufficientemente rappresentativo, i nomi più noti di oltre un decennio di lotte operaie e democratiche: Giuseppe Croce, Costantino Lazzari, Antonio Maffi, Camillo Prampolini, Andrea Costa, Leonida Bissolati e naturalmente Filippo Turati e Anna Kuliscioff. Fin dai primi interventi fu evidente che il fragile compromesso con gli anarchici raggiunto un anno prima a Milano  non poteva reggere. Nonostante un ultimo, disperato tentativo unitario di Andrea Costa, che deluso e stanco abbandonerà immediatamente dopo il congresso, gran parte dei delegati concorda sulla necessità di rompere definitivamente con gli anarchici che strenuamente si oppongono all’ipotesi di costituire un vero partito politico che finalmente sappia andare oltre l’ormai asfittica formula dei “circoli operai affratellati”. Il giorno dopo 197 delegati guidati da Turati si riuniscono a parte  e deliberano la costituzione del Partito dei Lavoratori Italiani che l’anno successivo a Reggio Emilia assumerà il nome di Partito socialista. Il programma, opera soprattutto di Turati che con una serie di emendamenti aveva profondamente trasformato l’originario testo di Maffi infarcito di ovvietà democraticistiche, nei fatti riprende le linee portanti del programma della Lega socialista milanese e rappresenta una prima definizione dei principi basilari del socialismo sancendo  la nascita di un partito autonomo della classe operaia che accoglie, almeno sul piano dei principi, la dottrina marxista. Certo, il programma uscito dal congresso di Genova soffre ancora notevolmente  dell’estrema povertà teorica che caratterizzava – e , detto per inciso, caratterizzerà sempre, fatta salva la parentesi felice del primo periodo di vita del PCd’I - il movimento operaio italiano. Di più, il partito che nasce alla Sala dei Carabinieri genovesi presenta già in modo avvertibile quegli elementi di opportunismo che dovevano negli anni successivi ed in particolare nel periodo giolittiano segnare indelebilmente l’intero suo percorso politico. Ne è prova la discussione sfociata poi nella risoluzione sulla questione dello stato dove fortissimo è l’eco del programma adottato al congresso di Erfurt della socialdemocrazia tedesca (1891) profondamente segnato dall’illusione di un utilizzo dello stato borghese, conquistato e diretto dal partito operaio, in funzione della costruzione del socialismo.Resta comunque il fatto che, come in sostanza noterà Engels in risposta alle note polemiche di Labriola, anche la classe operaia italiana aveva ora il suo partito e questa era la cosa importante.